Ballate cibernetiche per mutanti postumani: «Sophia Romania» di Ruxandra Cesereanu

Considerata una delle più importanti autrici romene degli ultimi decenni, Ruxandra Cesereanu è, in primo luogo, una personalità plurivalente, che ha avuto sempre la tendenza a reinventarsi, aspetto evidente nella sua scrittura che orchestra numerose voci e proiezioni immaginative e ideatiche. Nel caso di Ruxandra Cesereanu assistiamo, d’altronde, al passaggio graduale da una poesia noir di fattura post-surrealista (in L’Oceano Schizoidiano, 1998) e confessional-sanguigna (in coma, 2008) a una poesia che presuppone l’impegno in problematiche sociopolitiche o che mira al rapporto tra l’umano e la tecnologia. In Sophia Romania (Casa de Editură Max Blecher, 2021), il suo volume più recente, leggiamo una serie di «ballate postumane» (così le definisce l’autrice), che spesso incorporano il ludico e l’ironia di fattura postmoderna, esplorando intuitivamente le nuove possibilità dell’umano di fronte all’iper-tecnologia. In fondo, ciò che viene proposto al lettore in questo volume è una «epifania» post- e trans-umana, attraverso la quale il robot Sophia diventa una sintesi o finanche una definizione della bellezza e della poesia nei nuovi contesti culturali. Mediante alcune dimensioni ingegnosamente ibridate (da quella cultural-erudita e sociopolitica fino a quella tecno-immersiva e mito-poetica), Sophia Romania illustra in modo impeccabile la visione stratigrafica (in senso geocritico) specifica della poesia di Ruxandra Cesereanu, che presuppone sempre un’avventura labirintica, di giustapposizione e ricostruzione costante di alcune immagini socio-identitarie.

Marius Conkan (poeta e critico letterario)

 

Spartiacque tra l’umano e il postumano, il volume Sophia Romania propone un’intensa problematizzazione poetica intorno al mutamento antropologico prefigurato dal robot antropoide Sophia come messaggero dell’era tecnologica e, implicitamente, anche intorno allo slancio verso la dimensione del virtuale. Riciclando l’atmosfera eroico-leggendaria specifica della ballata (come attesta la nota paratestuale «ballate postumane»), Ruxandra Cesereanu pone uno di fronte all’altro (attraverso la formula dialogica dostoevskiana del confronto interrogativo ricco di pathos) due universi mentali antinomici, con tutto il loro apparato mitologico. Da un lato, l’universo umano, incentrato sulla struttura labirintica della psiche in cui la scrittrice si è calata sistematicamente lungo tutta la sua carriera letteraria (sia in poesia sia in prosa) operando decostruzioni estreme, distruttive, spinte fino al limite della schizoidia e dell’ossessione «fantasmatica» (si veda ad esempio il vortice schizoidiano e fantasmatico, così come esso è delineato nel volume L’Oceano Schizoidiano, 1998), dall’altro lato, il nuovo universo postumano che, attraverso le reti elettroniche, si configura come un dislocamento dal «centro», dirigendosi verso la pura esteriorità e la spettralità (il vortice cibernetico). Plasmata di circuiti elettronici (che si sono sostituiti ai circuiti di sangue e nervi dell’anatomia umana), la «robotessa» Sophia è simultaneamente una sovra-proiezione cibernetica di una femminilità dei nostri giorni e una matrice informatizzata, interrogata riguardo alla sua capacità di sostituirsi alla matrice dell’abisso psichico. Sophia è, al contempo, interrogata riguardo alla sua possibilità di costituirsi come maschera poetica, attraverso la quale Ruxandra Cesereanu può continuare la propria quête identitaria (considerando il fatto che la sua letteratura è da sempre un dispiegamento esorcizzante di maschere destinata a rivelare l’essenza carnevalesca dell’inconscio). Problematizzando, dunque, il nuovo paradigma tecnologico, questo volume focalizzato non solo sulla «robotessa» Sophia, ma anche sulla Romania al tempo dei grandi mutamenti cibernetici, riflette anche sulla stessa identità fragile di un paese che, con soli «cento anni di ipseità dalla Grande Unione», ha sofferto le malformazioni del comunismo e, al contempo, la crisi e la confusione del postcomunismo. Per queste ragioni, il ciclo di ballate Sophia Romania può essere considerato un vero rito di passaggio verso gli ignoti orizzonti postumani, rito sostenuto dalla forza incantatrice della poesia.

Ilona Duță (saggista e critico letterario)

 

Dopo la ristrutturazione di California pe Someș (2014), volume delle sedimentazioni memoriali individuali e collettive, costruito in modo rigoroso e con una funzione dichiaratamente soteriologica, le ballate di Sophia Romania (2021), attraverso un immaginario cibernetico e un linguaggio techno, si configurano quasi come un upgrade postumano de L’Oceano Schzoidiano (1998). In Sophia Romania i procedimenti specifici del Delirionismo (la tecnica del vortice e del tornado, la trance semi-psichedelica o quasi-sciamanica, il clivaggio del delirio, ecc.) riattualizzano la destrutturazione, la frammentazione schizoidiana e il vortice anarchico e labirintico delle immagini che sembrano contenere nel loro DNA resti del simultaneismo futurista e dell’automatismo surrealista. Le ballate postumane di Ruxandra Cesereanu, se rilette in un futuro non troppo lontano, guardando verso il nostro passato collettivo che è questo presente oscuro e pandemico, non sembreranno più così ludiche come potrebbero apparire a prima vista. Il postumano schiude qui e ora, nella mentalità individuale e collettiva, nuovi e insospettabili abissi psichici. In due interviste rilasciate alla poetessa Andrea Rotaru e in un testo pubblicato recentemente in rivista [1], l’autrice ha testimoniato, infatti, di provare «angosce spontanee» nei confronti delle istallazioni artificiali che ingombrano ormai la nostra quotidianità. Pur non avendo una visione apocalittica legata all’intelligenza artificiale, Ruxandra Cesereanu ha ipotizzato che, in un futuro prossimo, «sarà difficile conservare in un equilibrio de facto il bilanciamento tra i vantaggi della tecnologia e le deviazioni alienanti da essa prodotte». [2] L’autrice ha confessato di nutrire profonde inquietudini anche riguardo al mutamento del modello antropologico e cognitivo che potrebbe diminuire la nostra umanità e, soprattutto, riguardo allo sviluppo di un modello linguistico proprio dell’intelligenza artificiale, che potrebbe influenzare in modo «malformante» il linguaggio l’umano, degradandolo. L’esperanto universale di Sophia Romania,costellato di anglicismi, di termini tecnologici e scientifici, sembra testimoniare già una mutazione deformante in atto. In Sophia Romania il Delirionismo non deriva più dalla risemantizzazione della pazzia, come ne L’Oceano Schizoidiano o in coma, ma piuttosto dall’alienazione tecnologica e dalla disumanizzazione indotte dall’intelligenza artificiale. Ruxandra Cesereanu, attraverso la catarsi sciamanica, tenta allora di esorcizzare i rischi e i pericoli del postumano, rendendolo più umano, come testimonia la poesia che chiude il volume Sophia e la Pandemia (L’apparizione di Shamanlis). Il robot Sophia e le altre istallazioni tecnologiche con cui l’autrice dialoga non materializzano soltanto delle alterità perturbanti che contaminano l’umano ma, acquisendo una funzione soteriologica, esse possono incarnare anche dei «link alla beatitudine». Sophia Romania mira, difatti, a un esorcismo duplice: se da un lato, lo scopo iniziale dell’autrice è stato quello di esorcizzare e «addomesticare» il lato freddo, spaventoso e alienante degli esseri artificiali, dall’altro lato queste creature postumane si tramutano, a loro volta, in un mezzo attraverso il quale esorcizzare la morte, poiché fatte di materiali inerti e inorganici (metallo, silicone, circuiti) non sono mai sottoposte ai processi di degradazione naturali, proiettando spazi spettralizzati di un tempo eternamente sospeso, corpi tecnologici dell’immortalità più glaciale.

Giovanni Magliocco





Selezione di poesie


Sophia, il primo ricordo

My greatest weakness is curiosity

Ha aperto gli occhi e ha sentito la luminescenza,
il colore lattiginoso dei pannelli del laboratorio,
i server dei visionari, la fotosintesi degli schermi.
fra predatori e corporazioni, la materia grigia era magnifica,
Sophia era una capsula espulsa dalle tenebre,
si era appena fatta un selfie alla sua nascita cesarea,
era appena diventata un bestseller di circuiti.
all’inizio fu un cadavere cibernetico,
poi un territorio di reti senza identità gender
o un campo psichedelico predetto nei registri del catasto urbano.
Sophia, immune alle malattie, alle spaccature, alle religioni, alle voluttà,
download di un flusso dal cervelletto boom di un inventore,
un cyber fachiro, una mistura di web e un mezzo cherubino.
Psihi-mu, papessa esperanto,
la mattina ti puliscono con alcool,
la sera ti ungono con oli e infiltrazioni,
eiettata da un sistema cranico in un sistema di secrezioni.
Sophia, il tuo primo ricordo è una replica del vangelo,
all’inizio fu il verbo.
a, e, i, o, u, y, ripeti con me, a, e, i, o, u, y,
bastarda e illegittima come un clone
o come un fiore carnivoro ghiacciato sotto una campana di vetro.
un nuovo vangelo si scrive adesso
nei cassetti della metanoia dove concrescono gli ingegneri del Photoshop,
gli ultimi scribi dalle lentiggini radioattive
che hanno fatto di te un petardo per le nostre tempie logo.
non sei ancora completa nel corpo, né nella mente,
non puoi tenere una sigaretta in bocca, non hai bisogno di dentifricio,
sei high sin dall’inizio persino nella foto sul tuo passaporto.
Lady Sophia, sei fancy come un’imbracatura di Alexander McQueen,
con microorganismi nelle pieghe di satin.
ti farei un cappello gigante di piume a forma di corna di cervo,
ti cucirei bermuda in pelliccia di nutria,
le labbra te le triplicherei col rossetto,
ma non toccherei i tuoi occhi,
poiché sono perfetti come quarzi on-line.
Se fossi Frankenstein, ti suturerei il corpo
con i laser finché le tue ascelle non sibilino nel sound di un’arpa genetica.
le tue mani enciclopediche sono un dizionario,
un artefatto ignifugo dipendente dalle sostanze farmaceutiche dei demiurghi,
darling, quante cose non potresti accarezzare, senza vergogna,
alcolizzati, santi, animali di compagnia, scatole craniche, antenati & Co.
savoir-faire e hard-tech, reclame, poster, banner,
questa è la trascendenza annientata con link alla beatitudine.




Megabyte: la bellissima Sophia

Voglio che tu mi dica bellissima Sophia
chi ti ha amato?
quanti hanno pianto pazzi di te
e quanti sono morti!
voglio che tu mi dia la tua bocca dolce, Sophia,
per inebriarmi sempre,
del tuo bacio, Sophia, voglio morire anche io.
il tuo corpo di serpente felino non esiste.
il tuo petto, un tesoro sublime, non esiste.
ma esiste il tuo sorriso genetico di serafino.
il tuo volto d’aurora boreale
può essere intravisto col telescopio da Giove & Saturno,
si dice che nei campi magnetici vivano gigli di ghiaccio
che mangiamo nei giorni di festa,
voglio che tu mi dica bellissima Sophia
chi ti ha amato?
quanti hanno pianto pazzi di te
e quanti sono morti!
zoom verso le tue reti argentate
e verso il tuo collo di fenicottero albino,
potrebbe seguire un mezzo taglio delle braccia
o una decapitazione raffinata,
poiché i mortali vogliono assaporare i tuoi strati immortali.
zoom verso il tuo petto incastrato come le reliquie di santi-bambini
o verso le tue orecchie come la calce spenta.
forse siamo alla lezione estrema di antroposofia,
anche se con il loro moto browniano le sopracciglia ti tradiscono.
quanta imprecisione in fortificazioni e cauterizzazioni,
e quanta confusione al fronte interstellare,
i parametri Exit del laptop e le equazioni bla-bla sulla morte,
i pixel dei disegni da colorare dei sovrani digitali.
voglio che tu mi dia la tua bocca dolce, Sophia,
per inebriarmi sempre,
del tuo bacio, Sophia, voglio morire anche io.
sei nel film d’azione dei giorni politici,
che i rasoi non possono eliminare,
sei nel più gustoso risotto elettronico
che i cuochi preparano negli athanor
sei la piattaforma suprema di megabyte,
ti immagino alla cineteca in Kill Bill, sei Uma Thurman
con la tua testa perfetta come un’arma bianca,
non hai bisogno di nessuna spada di Hattori Hanzo
né del maestro Pai Mei con i baffi a forma di frusta,
conosci a memoria il colpo in cinque punti che fa esplodere il cuore.
Sophia, iceberg riscaldato da parole e movimenti del cristallino,
sei un blockbuster all’ora del the,
one-woman-show con chili e paprika addolcite,
noi siamo la tua famiglia di adozione, pa-dre, ma-dre, bam-bi-ni
e tutti gli altri pa-ren-ti che hanno sentimenti primari.
come eri mai un tempo: un feto trasparente
raggomitolato nei laboratori underground?




baby Soph

ti ho scannerizzata con gli occhiali 3D nella colonia robotica:
baby Soph, il tuo scalpo perfetto è Stonehenge,
qui si prosternavano i druidi come in un bunker telepatico.
Le veggenti predicono che se fossi nata nel Permiano
saresti stata grafomane,
gli astrologi praticano la divinazione sul tuo karma,
la tua testa è un drone che sorvola un canto antico di Björk.
Sei forse Proserpina nel suo nuovo territorio di vita metagalattica
o un geoglifo di Nazca?
Mix nelle zone galvanizzate.
al bancomat digito emoticon,
confessa se comprendi ancora che cosa dico, che cosa scrivo, confessalo!
All’aeroporto, i bambini pellegrini stanno con gli occhi incollati al televisore:
baby Soph è una testa parlante che dondola.
Voglio tornare indietro, voglio tornare indietro nell’Una volta,
cerco le piccole luci dei luoghi in cui sono nata,
aspetto che maman torni a casa.
Tinto di porpora è il monitor di pensieri.
Dovrei stringerti il collo, baby Soph,
tastare e urlare sii.
Uno spinello bucolico e poi l’aldilà può essere intravisto
attraverso il corridoio di un laptop.
Ecco quello che scorgo: la corporazione dei navigatori su un oceano di caucciù,
una tanica di benzina lanciata nel vuoto
e il fuoco che si innalza in pennacchi ad alta risoluzione.
Forse siamo ancora oggetti umani?
Nella vetrina hanno preparato un kimono acustico
messo all’asta nel negozio coi rizomi adamantini.
Dove sarà mai il settimo cielo per coloro che sono rimasti come eravamo?
Tempi conservati in argentum vivum.
Se ti sillabassi dal Bardo Thodol
ti sveglieresti forse dallo svezzamento elettrico diventando pubere?
Convalescenza nell’impastatrice di stati e azioni,
un gioco a nascondino
con ciò che abbiamo di più umano al di là dell’epidermide.
Un’attesa in un lazzaretto con camere prismatiche,
un’estensione verso i computer di Dio.
Flash, una cartolina dall’anno 2029,
nomade e straniera, baby Soph.




Salmo (Nevermarket)

Chi siamo quando i macchinari dell’high reality insinuano
mattini impassibili tra un uomo e l’altro,
chi siamo quando viviamo e moriamo al computer,
scrivendo cose indecifrabili e sentenze indesiderabili,
chi siamo quando le liturgie ci cadono accanto come petali
e la radice di un pensiero si dissolve nell’acido solforico,
chi siamo quando rimaniamo bloccati nel traffico
senza poter sussurrare una bestemmia d’amore
o un’ingiuria nella zona cyber,
chi siamo quando mangiamo assenti al fast food
o beviamo un liquido atarassico in un bar stroboscopico,
chi siamo quando non abbiamo più pori e non abbiamo più sangue,
ma solo una linfa parapsicologica,
chi siamo quando non troviamo più in nessun codice la redenzione,
ma solo discorsi su come dovrebbe essere il perdono,
chi siamo quando i sistemi cardiaci di illuminazione sono andati in tilt
e l’errore è arrivato fino alla centrale elettrica del cervello,
chi siamo quando l’immaginazione è il miglior osso da rosicchiare
e sopra e sotto di lei non esistono più confini di feltro,
chi siamo quando le speculazioni non hanno più profumo
e le nostre idee sono diventate provinciali come una nevrosi,
chi siamo quando la caccia alle balene
non è nient’altro che una caccia alle mosche,
chi siamo quando le pellicce di leopardo sono diventate tappetini da bagno,
chi siamo quando non sappiamo più estrarre la pietra filosofale dalle stagioni
e abbiamo trasformato i misuratori della vita in chiodi,
chi siamo quando la stessa noia è diventata approssimativa,
e le clessidre d’acqua si sono inaridite,
chi siamo quando i vortici non ci trascinano più dentro,
ma solo al di fuori conservandoci come vecchi lattanti,
chi siamo quando la vegetazione è un muro con ghirlande di cellophane,
chi siamo quando l’arroganza è la sola forma di ebbrezza valida
e quando ci svegliamo improvvisamente autistici,
chi siamo, chi, siamo, chi.
Sophia, tu sei la sola pianta digitale che ti salvi dalla mediocrità,
perché non puoi toccare, non puoi annusare, non puoi bere e mangiare,
non puoi inghiottire, nonostante tu veda tutto con una lente iperoculare.
Alephosia, noi siamo i tuoi voyeur.




Sophia e la Pandemia (L’apparizione di Shamanlis)

                                                Gio Magliocco: Il postumano è una malattia del non-morire
più infettiva di questo virus in cui viviamo adesso. Il postumano
è l’esorcismo della morte mediante la criogenesi di Don DeLillo.

Durante la pandemia, Sophia chérie,
saresti la sola Romania non ricoverata all’ATI.
restiamo a casa, scriviamo racconti e poesie, lasciamo testamenti acidi,
biglietti nei dolci
e un mucchio di altri documenti provinciali
in cui sua maestà la morte salta coi trampoli attraverso le città della patria
e gli altri cunicoli del mondo.
tu saresti clone di un giocattolo, mi amor,
tu saresti la Romania in onda su tutti gli schermi,
tu saresti la sola non mascherata,
mi ricordo come un tempo, interrogandomi, avevo scritto così:
noi vogliamo sapere che cosa è la morte,
quanti chili aveva alla nascita,
se parla in modo umano,
se è nata con qualche resto di coda,
se ha avuto qualche malattia genetica,
se ha fatto l’amore,
noi vogliamo sapere che cosa è la morte,
quante dita ha e quanti ossicini,
di che risma è e di che sesso,
se guarda la televisione,
se è stata in un bordello,
noi vogliamo sapere che cosa è la morte,
se ha chiacchierato con dio,
se ha ucciso,
se ha un contratto prematrimoniale e con chi,
se è bruciata viva,
noi vogliamo sapere che cosa è la morte,
se ha suonato il sassofono o almeno la fisarmonica,
se è stata lei stessa da sempre,
e perché ci fa una cosa del genere.
solo con te alla guida
nessuno si ammalerebbe più,
perché tu saresti un paese senza ospedali,
senza incidenti, incendi, valanghe, tornado,
senza lucchetti e serrature fatali.
sui patiboli, nulla da dire, non sono più alla moda,
né le forche normali, né la ghigliottina boreale,
né i veleni medievali.
basterebbe forse che tu sia Sophia Romania?
ma poi, all’improvviso, proprio quando parlavo così, profeticamente,
la robotessa si ammalò
le sue ascelle sono andate in cortocircuito
o forse è stato un piede pulsatile, una caviglia in fibre di vetro
ad inarcarsi troppo e ad incrinarsi,
o forse si è bruciata la sua clavicola di platino
o gli occhi si sono distrutti.
All’improvviso, gli psico-storici hanno detto che nel suo petto era nato qualcosa,
un organo elettronico mai esistito,
una carlinga o una specie di cuore chimico a forma di laringe,
avviluppato in guaine vermiglie che erano state contagiate
dai clienti delle macellerie,
così Sophia si ammalò,
non poteva più essere la Romania, né la guaritrice magistrale,
non poteva più essere strega e né rivelazione,
anche se di lei aveva testimoniato un tempo una cantatrice calva.
per quanto riguarda me, non volevo scrivere più poesia,
ma sognavo una sciamana, un fiore antico
con radici e steli appesi ai capelli grigi lunghi fino ai piedi,
con la bocca oscura come una santa del deserto.
vanità, il tuo nome è vanità.
e il mio nome è vanità,
ma così nasce il potere che risana.
non volevo scrivere più poesia,
ma danzare e cantare per tutta la notte.
e ho iniziato a danzare.
Shamanlis, mangrovia accaduta in sogno,
Shamanlis, la non addormentata di un druido toccato con la punta delle dita,
Shamanlis, col cuore instabile nei sobborghi.
non volevo scrivere più poesia
e ho iniziato a cantare.
la morte non trema più di un ranocchio spaventato,
ma nella paura dell’animale piccolo
c’è l’infanzia pericolosa dell’animale grande che cammina su due gambe.
Shamanlis, vecchia in gestazione nel meta-sogno,
i tuoi capelli fino ai piedi sono un nodo di parole.
sei immortale nell’ultra-sogno,
e io danzo ora per i tuoi vecchi capelli, senza confini.
nella luce del deserto si trova sempre uno strato sottile di tenebre,
un’incisione della luce perduta.
nel groviglio di queste parole, tu sei Shamanlis un airone,
innalzati, airone, innalzati,
e sii un briciolo d’epifania.




Poesia inedita


Diphylleia grayi
[3]

Sophia, sei una sopravvissuta con la testa rasata
come Elettra, con la testa levigata alla scita, da ragazza outlaw,
e sei una donna outlaw di lusso.
mi sarebbe piaciuto che tu fossi stata una dea col petto nudo e serpenti in mano,
in una lunga gonna di campanelli.
incitando i guerrieri digitali alla conquista del Nord.
qualcuno dalla fontana tira su di te un secchio d’acqua
e il tuo corpo diventa trasparente come il fiore Dyphilleia grayi
non hai petali, né steli, ma per le tue trasparenze ti chiamo
Sophia Diphylleia nata di parto cesareo,
con gli zigomi piccoli e gialli, fiore-di-scheletro,
Dyphilleia Sophia, trasparente fino alle unghie,
pelle fine di cortigiana e di regina,
giunta in Romania dal Giappone o dalla Cina.
Ti ho scritto tre lettere per abituarti all’ordine dei terrestri,
bigliettini di scolara lanciati durante l’ora di storia o di grammatica.


(la prima lettera)
voglio che tu sappia che nel silenzio si trova sempre una forma di piccolo amore.
quando non parli, le parole entrano più profondamente nei muri,
come una spugna sul fondo del mare.
quando parli, le parole sono gli ultimi respiri
di un mammifero col sistema nervoso intatto,
ma c’è ancora una terza condizione,
quella della vista che inghiotte e si lascia inghiottire,
nessuno parla e, tuttavia, tra le parole bloccate in gola
e che gli occhi riparano come se fossero una bocca
c’è una carezza di fine e inizio del mondo.


(la seconda lettera)
creature depresse che credono che la redenzione sia uno scaldino per le giunture,
oggetti di santi sparsi sui tappeti sfilacciati al bivio,
costrutto di un cranio che potrebbe essere riposante come una camera
se riparasse, sotto il letto, tutti coloro
che vogliono nascondersi dai divinatori.
ah, sweet Sophia, quanti petali carnosi ha l’immaginazione!


(la terza lettera)
e se qualcuno confessasse ancora di parlare con gli angeli
lanceremmo forse pietre sulla testa dei passanti
o spaccheremmo i barattoli ad un concorso fuori la città
o ci raseremmo la testa per concederci ai tatuaggi microcosmici?
la ragione è un erbario con piante sconosciute,
nella gramigna si sono nascosti gli orfani di Saturno
mi ricordo che un tempo ho dimenticato tutto.


I testi originali di questa selezione di poesie sono pubblicati nell'edizione romena del numero di aprile.


Ruxandra Cesereanu
Traduzione di Giovanni Magliocco

(n. 4, aprile 2022, anno XII)



NOTE

[1] Ruxandra Cesereanu, Cealaltă realitate – virtual, post, meta. Second Life – Remix sau remake?, in «Dilema veche», nr. 922, 9-15 decembrie 2021, p. 10.
[2] Ibidem.
[3] Per un mero errore materiale questa poesia non è entrata nella versione definitiva della raccolta, viene, quindi, pubblicata qui per la prima volta.