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«Inventare un fiore/ cui noi siamo/ il profumo». Nichita Stănescu a ottant'anni dalla nascita
Nel 2013, Nichita Stanescu, il promotore della seconda rivoluzione del linguaggio poetico romeno, dopo Mihai Eminescu, avrebbe compiuto 80 anni di vita. La madre del futuro poeta (1933-1983), Tatiana, fu una sovietica originaria di Voronež, figlia di un generale e al tempo stesso fisico. Nichita studiò letteratura e lingua romena all’Università di Bucarest. Si laureò nel 1957. Fu sposato tre volte tra gli anni cinquanta e ottanta. Debuttò come poeta nel 1960 con la raccolta Sensul iubirii (Il senso dell’amore), che segnò il recupero delle facoltà creative di un io affrancato, libero di immaginare senza impedimento alcuno tramite il linguaggio, di approfittare del suo dono di poeta per rinnovare il mondo, malgrado un regime ideologico al quale non erano graditi troppo la libertà e i diritti individuali. Il volume d’esordio fu seguito da parecchi volumi tra i quali ricordiamo O viziune a sentimentelor (Una visione dei sentimenti), Dreptul la timp (Il diritto al tempo), 11 Elegii Ultima cină (11 Elegie, Il cenacolo), Roşu vertical (Rosso verticale), Oul şi sfera (L’uovo e la sfera), Laus Ptolemaei (libro che richiama le due modalità dantesche di concepire l’esistenza e di avvicinarsi a Dio: la vita attiva e la vita contemplativa), Necuvintele (Le non parole), În dulcele stil clasic (Nel dolce stil classico), Măreţia frigului (La grandezza del freddo), Epica magna, Operele imperfecte (Opere imperfette). Il suo ultimo libro, Noduri şi semne (Nodi e segni), dedicato al padre, è del 1982, un anno prima della propria morte in un ospedale di Bucarest, stroncato da una cirrosi.
Ha vinto molti premi nazionali e internazionali tra i quali ricordiamo «Serile de la Struga» (le Sere di Struga), «Herder Prize». È stato candidato al Nobel. Fu nominato socio post-mortem dell’Accademia Romena. Edizioni postume della sua opera appaiono nel 1985, Ordinea cuvintelor vol. I-II (L’ordine delle parole, voll.I-II), 1988, Poezii (Poesie), nel 1990, Fisiologia poeziei – proză şi versuri 1975-1983 (Fisiologia della poesia – prosa e versi 1975-1983).
Innovatore riconosciuto della poesia romena che stava attraversando un periodo d’involuzione estetica dovuta ai dogmi ideologici imposti dal realismo socialista (retorica e propaganda tipo prolettkult), Nichita Stanescu è creatore di universi immaginari dove l’astratto convive con il concreto sensibile, il sentimento con la visione, in una simbiosi linguistica, feconda e coinvolgente; sintesi stilistica ed estetica che offre la sua prospettiva unica, inedita e insolita del mondo. Solo scarcerando le parole dal loro significato convenzionale per proporre alla storia della poesia romena moderna le non-parole, si può accedere alla realtà simultanea, occulta. Il linguaggio poetico di Nichita Stanescu abbandona talvolta gli schemi della grammatica tradizionale, allo scopo di allargare l’ambito delle proprie ricerche espressive, così da farci assistere a un vero e proprio trasformismo linguistico che costituisce il fascino testuale, visionario e al tempo stesso ludico delle sue poesie. Immagini, simboli, miti, concetti matematico-fisici – assurti ad archetipi della psiche – vengono rielaborati e convogliati nelle strutture liriche affinché l’Io poetico pervenga a una vera e propria sostituzione e trasformazione della propria esistenza nella parola «organo collettivo dell’umanità» e possibiltà di eterna redenzione.
Ci imbattiamo in frequenti passaggi da una classe morfologica a un’altra, in stupende invenzioni lessicali, nell’uso frequente di gerundi oppure di pronomi alla terza persona maschile, una sorta di ritornello per poter captare echi e immagini di quella ambìta realtà parallela che sfugge a noi, comuni mortali. Spesso la geometria poetica stanesciana non ci pare estranea ai punti, alle linee e ai cerchi di Kandinsky. L’astrazione coesiste con il concreto e si ciba di esso, l’intelletto d’amor con la visione in una coordinazione linguistica destinata a scombussolare e a commuovere allo stesso tempo tramite quella prospettiva rovesciata del mondo: «Io altro non sono che/ una macchia di sangue/ che parla».
Le 11 elegie, con il loro secondo titolo Il Cenacolo, ci fanno pensare alla simbiosi cristiana e soprattutto al sacramento dell’eucaristia. Per il nostro poeta, che pagò la sua parabola lirica con la propria vita, la poesia è il luogo di celebrazione del mistero e della trasfigurazione per il tramite del vino e del pane, della parola che immortala la presenza reale del poeta e rinnova il sacrificio di colui che si è sacrificato sulla croce del simbolo. Le elegie sono infatti 12 e ciascuna di esse rappresenta un apostolo, la dodicesima essendo una anti-elegia, come la chiama il poeta stesso, alludendo alla missione di Giuda. Le tematiche del tempo, della luce, dell’assenza e della parola costituiscono le linee di forza che animano l’icastica dei labirinti mentali del promotore di una seconda rivoluzione, dopo quella fatta da Mihai Eminescu, del linguaggio poetico romeno.
Il lettore viene invocato ad entrarci per prendere parte all’epica avventura della ricerca di un linguaggio poetico che si propone di «inventare un fiore/ cui noi siamo/ il profumo». Con la sua poesia sintonizzata a quella europea, il divario venutosi a creare fra Oriente e Occidente può trovare un ideale ravvicinamento grazie alla capacità della sua opera di negare l’individuo alla materialità della contingenza, per trasferirlo in sfere più alte, di una memorabile bellezza spirituale e talvolta addirittura metafisica.
Elegia prima
Dedicata a Dedalo, il fondatore
della famosa stirpe di artisti,
i dedalidi
Egli inizia con sé e termina
con sé.
Non lo predice nessun’aura, non lo
segue nessuna coda di cometa.
Da lui non sprigiona
Nulla; ecco perché non ha un viso
né una forma. Potrebbe somiglare in qualche modo
ad una sfera,
che ha il più grosso corpo
ricoperto della più stretta pelle
possibile. Ma egli non ha neppure
tanta pelle quanto la sfera.
Egli è il dentro – compiuto,
e, benché senza margini, è profondamente
limitato.
Però, a vederlo non si vede.
Non lo segue la storia
dei propri movimenti, così
come l’impronta del ferro da cavallo
segue fedele
i cavalli...
II
Egli non ha neppure presente,
benché sia difficile immaginare
il modo di averselo negato.
È il dentro compiuto,
l’interno del punto, più pigiato
in sé del punto stesso.
III
Egli non urta contro nessuno
e niente, perché
non ha nulla che sporga fuori di sé
attraverso cui potrebbe urtarsi.
IV
Qui dormo io, attorniato da lui.
Tutto è l’opposto di tutto.
Ma non gli si oppone, e
tanto meno lo nega:
Dice No soltanto colui
che conosce il Sì.
Però egli, che conosce tutto,
ha i fogli strappati al No e al Sì.
E qui non dormo solo io,
ma anche l’intera teoria d’uomini
di cui porto il nome.
La teoria d’uomini colonizza
una mia spalla. La teoria di donne
l’altra spalla.
E non hanno neanche luogo. Loro sono
le penne che non si fanno vedere.
Batto le ali e dormo –
qui,
il dentro compiuto,
che inizia con sé
e termina con sé,
non lo predice nessun’aura,
non lo segue nessuna coda
di cometa.
Elegia întâia
Închinată lui Dedal, întemeietorul
vestitului neam de artişti,
al dedalizilor
I
El începe cu sine şi sfârşeşte
cu sine.
Nu-l vesteşte nici o aură, nu-l
urmează nici o coadă de cometă.
Din el nu străbate-n afară
nimic; de aceea nu are chip
şi nici formă. Ar semăna întrucâtva
cu sfera,
care are cel mai mult trup
învelit cu cea mai strâmtă piele
cu putinţă. Dar el nu are nici măcar
atâta piele cât sfera.
El este înlăuntrul – desăvârşit,
şi,
deşi fără margini, e profund
limitat.
Dar de văzut nu se vede.
Nu-l urmează istoria
propriilor lui mişcări, aşa
cum semnul potcoavei urmează
cu credinţă
caii…
II
Nu are nici măcar prezent,
deşi e greu de închipuit
cum anume nu-l are.
El este înlăuntrul desăvârşit,
interiorul punctului, mai înghesuit
în sine decât însuşi punctul.
III
El nu se loveşte de nimeni
şi de nimic, pentru că
n-are nimic dăruit în afară
prin care s-ar putea lovi.
IV
Aici dorm eu, înconjurat de el.
Totul este inversul totului.
Dar nu i se opune, şi
cu atât mai puţin îl neagă:
Spune Nu doar acela
care-l ştie pe Da.
Însă el, care ştie totul,
la Nu şi la Da are foile rupte.
Şi nu dorm numai eu aici,
ci şi întregul şir de bărbaţi
al căror nume-l port.
Şirul de bărbaţi îmi populează
un umăr. Şirul de femei
alt umăr.
Şi nici n-au loc. Ei sunt
penele care nu se văd.
Bat din aripi şi dorm –
aici,
înlăuntrul desăvârşit,
care începe cu sine
şi se sfârşeşte cu sine,
nevestit de nici o aură,
neurmat de nici o coadă
de cometă.
Elegia seconda, getica
A Vasile Pârvan*
In ogni incavo veniva collocato un dio.
Se si fendeva una pietra, subito vi era recato
e messo un dio,
bastava che si rompesse un ponte,
perché si collocasse nel posto vuoto un dio,
ovvero, sulle strade, che apparisse una fossa nell’asfalto,
perché vi si collocasse un dio.
Oh, non ferirti alla mano o al piede,
per sbaglio o di proposito.
Subito metteranno nella ferita un dio,
come dappertutto, come dovunque,
vi collocheranno un dio
per inchinarci a lui, perché lui
salva tutto ciò che si separa da se stesso.
Fai attenzione, lottatore, non smarrire il tuo
occhio,
perché recheranno e ti collocheranno
nell’orbita un dio,
ed egli starà lì, pietrificato, mentre noi,
le anime turbate, lo staremo magnificando...
E perfino tu ti commuoverai
magnificandolo come se fosse un estraneo
* Vasile Pârvan (1882-1927), storico dell’antichità e archeologo; il suo capolavoro, Getica, tratta della protostoria del popolo romeno. Nichita lo considera nel suo libro Antimetafisica «un modello esistenziale» che rappresenta una natura «sacerdotale di poeta vates».
Elegia a doua, getica
Lui Vasile Pârvan
În fiecare scorbură era aşezat un zeu.
Dacă se crăpa o piatră, repede era adus
şi pus acolo un zeu.
Era de ajuns să se rupă un pod,
ca să se aşeze în locul gol un zeu,
ori, pe şosele, s-apară în asfalt o groapă
ca să se aşeze în ea un zeu.
O, nu te tăia la mână sau la picior,
din greşeală sau dinadins.
De îndată vor pune în rană un zeu,
ca peste tot, ca pretutindeni,
vor aşeza acolo un zeu
ca să ne-nchinăm lui, pentru că el
apără tot ceea ca se desparte de sine.
Ai grijă, luptătorule, nu-ţi pierde
ochiul,
pentru că vor aduce şi-ţi vor aşeza
în orbită un zeu
şi el va sta acolo, împietrit, iar noi
ne vom mişca sufletele slăvindu-l…
Şi chiar şi tu îţi vei urni sufletul
slăvindu-l ca pe străini.
Quinta elegia
La tentazione del reale
Non sono mai stato adirato con le mele
perché sono mele, con le foglie perché sono foglie,
con l’ombra perché è ombra, con gli uccelli perché sono uccelli.
Ma le mele, le foglie, le ombre, gli uccelli
si sono improvvisamente adirati con me.
Eccomi portato al tribunale delle foglie,
al tribunale delle ombre, delle mele, degli uccelli,
tribunali sferici, tribunali aerei,
tribunali tenui, freschi.
Eccomi condannato per ignoranza,
per tedio, per irrequietezza,
per inerzia,
Sentenze scritte nell’idioma dei noccioli.
Atti di accusa timbrati
con viscere di uccello,
fresche contrizioni grigie, apposta per me.
Sto in piedi, la testa scoperta,
tento di decifrare ciò che mi spetta
per ignoranza,
e non posso, non posso decifrare
nulla,
e questo stato d’animo, esso stesso,
si adira con me,
e mi condanna, indecifrabile,
ad una perpetua attesa,
ad una tensione dei significati in se stessi,
fino a buscarsi la forma delle mele, delle foglie,
delle ombre,
degli uccelli.
A cincea elegie
Tentaţia realului
N-am fost supărat niciodată pe mere
că sunt mere, pe frunze că sunt frunze,
pe umbră că e umbră, pe păsări că sunt păsări.
Dar merele, frunzele, umbrele, păsările
s-au supărat deodată pe mine.
Iată-mă dus la tribunalul frunzelor,
la tribunalul umbrelor, merelor, păsărilor,
tribunale rotunde, tribunale aeriene,
tribunale subţiri, răcoroase.
Iată-mă condamnat pentru neştiinţă,
pentru plictiseală, pentru nelinişte,
pentru nemişcare.
Sentinţe scrise în limba sâmburilor.
Acte de acuzare parafate
cu măruntaie de pasăre,
răcoroase penitenţe gri, hotărâte mie.
Stau în picioare, cu capul descoperit,
încerc să descifrez ceea ce mi se cuvine
pentru ignoranţă…
şi nu pot, nu pot să descifrez
nimic,
şi-această stare de spirit, ea însăşi,
se supără pe mine
şi mă condamnă, indescifrabil,
la o perpetuă aşteptare,
la o încordare a înţelesurilor în ele însele
până iau forma merelor, frunzelor,
umbrelor,
păsărilor.
Settima elegia
L’opzione per il reale
Vivo nel nome delle foglie, ho nervature,
cambio il verde con il giallo e
mi lascio scomparire in autunno.
Nel nome delle pietre vivo e mi lascio
battere a mo di pietra cubica sulle vie,
attraversate da macchine veloci.
Vivo nel nome delle mele ed ho
sei noccioli sputati fra i denti
della ragazza persa del tutto col pensiero
dietro tardi balli d’ebanite.
Vivo nel nome dei mattoni,
con bracciali di calcina impietriti
ad ogni mano, mentre abbraccio
un possibile tuorlo delle esistenze.
Non sarò mai sacro. Molto,
troppo ho l’immaginazione
delle altre forme concrete.
E per questo motivo non ho almeno il tempo
di pensare
alla propria vita.
Eccomi. Vivo nel nome dei cavalli.
Nitrisco. Salto sopra alberi recisi.
Vivo nel nome degli uccelli,
ma soprattutto nel nome del volo.
Credo di avere le ali, ma
sono invisibili. Tutto per il volo.
Tutto,
per appoggiare ciò che esiste
a ciò che sarà.
Sporgo una mano, che al posto delle dita
ha cinque mani, che
al posto delle cinque dita,
hanno cinque mani.
Tutto per abbracciare,
dettagliatamente, tutto,
per palpare i non nati paesaggi
e graffiarli
a sangue
con una figura.
A şaptea elegie
Opţiunea la real
Trăiesc în numele frunzelor, am nervuri,
schimb verdele pe galben şi
mă las pierit de toamnă.
În numele pietrelor trăiesc şi mă las
cubic bătut în drumuri
cutreierate de repezi maşini.
Trăiesc în numele merelor şi am
şase sâmburi scuipaţi printre dinţii
tinerei fete dusă cu gândul tot
după leneşe dansuri de ebonită.
În numele cărămizilor trăiesc,
cu brăţări de mortar înţepenite
la fiecare mână, în timp ce îmbrăţişez
un posibil gălbenuş al existenţelor.
Niciodată n-am să fiu sacru. Mult,
prea mult am imaginaţia
celorlalte forme concrete.
Şi nici n-am vreme din pricina asta
să mă gândesc
la propria mea viaţă.
Iată-mă. Trăiesc în numele cailor.
Nechez. Sar peste copaci retezaţi.
Trăiesc în numele păsărilor,
dar mai ales în numele zborului,
Cred că am aripi, dar ele
nu se văd. Totul pentru zbor.
Totul,
pentru a rezema ceea ce se află
de ceea ce va fi.
Întind o mână, care-n loc de degete
are cinci mâini,
care-n loc de degete
au cinci mâini, care
în loc de degete
au cinci mâini.
Totul pentru a îmbrăţişa,
amănunţit, totul,
pentru a pipăi nenăscutele privelişti
şi a le zgâria
până la sânge
cu o prezenţă.
L’elegia dell’uovo, la nona
Mi lascio riscaldare in un uovo nero
dall’attesa del volo che vive in me;
l’uno sta insieme all’altro, non staccati,
il sé insieme al sé.
Il sentimento di un’ala mi attraversa la schiena,
la sensazione di occhio si cerca un’orbita.
Oh, tu buio pesto,
tu, nauseata nascita irrigidita.
Su di me si è adagiata un’idea
e mi cova materna.
Ora, tutto ciò che c’è è
rotondo calore deciso.
Salta da me una sorta di becco
da tutte le parti e simultaneamente.
Rifiuta di essere un obelisco
la spina dorsale intima, curvata.
Rompo il guscio della mia pelle, bruciato,
attaccato direttamente all’anima,
perché rimanga irremovibile
il mio primo tentativo d’andare.
Saltano i gusci neri, oho!
Mi trovo più grande e non volato,
attaccato a quel dove
con una volta tutt’intorno aggiunto.
Sgrano occhi con sguardi irreali
a destra, a sinistra, in alto e in basso,
partorienti teorie di re-animali,
che sanno come si muore in bellezza.
Porgo anche una piuma ossea, iridescente
tocca il nero incavo.
Saltano i gusci neri d’un tratto
ed eccomi, di nuovo, tenero,
chiuso in un uovo molto più grande,
covato da un’idea ancora più grande,
metà tuorlo, metà uccello,
in un gioco di passi furtivi.
Uovo grande! Parola sbraitata
in una perpetua crescita strappata
stalattite senza soffitto
sedotta.
Uova concentriche, nere, rotte
a turno, uno dopo l’altro.
Uccellino rigettato dal volo,
percorrendo uovo dopo uovo,
dal centro della terra fino ad Alcor,
in una ritmica, dilatata eco.
“Il sé” tenta d’uscire dal “sé”,
l’occhio dall’occhio, e sempre
se stesso su se stesso s’adagia
come una nera nevicata, greve.
Da un uovo ad un altro più grande
all’infinito nasci, non volata
ala. Solo dal sonno
può svegliarsi ciascuno,-
dal guscio della vita nessuno,
mai.
Elegia oului, a noua
Într-un ou negru mă las încălzit
de aşteptarea zborului locuind în mine;
stă unul lângă altul, nedezlipit,
sinele lângă sine.
Sentimentul unei aripi îmi curge-n spinare,
senzaţia de ochi îşi caută o orbită.
O, tu, întuneric mare,
tu, dezgustată naştere încremenită.
S-a aşezat pe mine o idee
şi mă cloceşte maternă.
Acum, tot ceea ce este e
rotundă căldură şi fermă.
Sare din mine un fel de plisc
în toate părţile şi deodată.
Refuză să fie un obelisc
şira intimă, curbată.
Sparg coaja pielii mele, arsă,
lipită de-a dreptul pe suflet,
ca să-mi rămână ne-ntoarsă
întâia încercare de umblet.
Sar cojile negre!
Mai mare mă aflu şi nezburat,
lipit de acel încotro,
cu o boltă de jur împrejur adăugat.
Scot ochi cu priviri nereale
la dreapta, la stânga, în sus şi-n jos,
născând şir de regi-animale,
care ştiu cum se moare frumos.
Întind şi o pană de os irizată
atinge negrul concav.
Sar cojile negre deodată
şi iată-mă, iarăşi, suav,
închis într-un ou mult mai mare,
clocit de-o idee mai mare,
gălbenuş jumătate, pasăre jumătate,
într-un joc cu paşi pe furate.
Ou mare! Silabă răcnită
într-o perpetuă creştere smulsă
fără tavan stalactită
sedusă.
Ouă concentrice, negre, sparte
fiecare pe rând şi în parte.
Pui de pasăre respins de zbor,
străbătând ou după ou,
din miezul pământului până la Alcor,
într-un ritmic, dilatat ecou.
„Sinele” încearcă din „sine” să iasă,
ochiul din ochi, şi mereu
însuşi pe însuşi se lasă
ca o neagră ninsoare, de greu.
Dintr-un ou într-unul mai mare
la nesfârşit te naşti, nezburată
aripă. Numai din somn
se poate trezi fiecare, -
din coaja vieţii nici unul,
niciodată.
Presentazione e traduzione a cura di Geo Vasile
(n. 7-8, luglio-agosto 2013, anno III)
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