Mircea Ivănescu: Altre poesie scelte (1968-1976)

« [...] La poesia non deve essere rappresentazione,
serie di immagini ─ così sta scritto. La poesia
deve essere discorso interiore. [...] ».
(Mircea Ivănescu, La poesia è altro?, p. 41)


Ci spostiamo tra le righe dell’antologia di Mircea Ivănescu, Altre poesie scelte (1968 – 1976) (Antologia e trad. a cura di Federico Donatiello, testo romeno a fronte, Criterion Editrice, Milano, 2020), in questa estensione dello spazio, verso questo essere parte di «qualcos’altro» che però è costantemente centro interno e ricordando ciò che affermò del poeta il critico letterario Radu Vancu: «ho capito tutta la poesia di Ivanescu: un gigantesco sforzo per diventare invisibile» [1].

Siamo nell’intersezione ed è proprio lì che prende vita la linea sottile che trascrive il sentire nell’esprimibile; poeta dei ricordi che prendono forma nell’inquietudine e si installano tra le righe, popolandosi di presenze e scene, laddove la morte diviene collante della desiderosa possibilità di vita.
In questo sottrarsi l’autore resiste ancorandosi al proprio ricordo, nell’elicoidale transizione tra il vissuto e il desiderio dell’immaginato che non può più essere reale.
Ed è di questa transizione il finale, di questo «non luogo» di cui il poeta si ciba e nel quale riverbera i propri versi, non prima di aver scoperto l’interesse per la letteratura inglese e americana e divenirne traduttore.
«La poesia è altro?»
Il debutto di Mircea Ivănescu, autore di statura europea, avverrà solo all’età di 37 anni con la raccolta Versi (Versuri, 1968), e tutta la vita resterà in quell’invisibile spazio creatosi. In una recensione della raccolta d’esordio, il critico letterario Nicolae Manolescu inserisce il poeta nella «categoria dei poeti preziosi, affettati, […] galanti» in quanto «scrive madrigali di un fascino volutamente desueto, con lieve atmosfera fin du siècle» e, fin dei conti, «petrarcheggia» [2].
Esistono poeti lontani dal frastuono del mondo unidirezionale che li circonda, prendono le distanze dall’esterno e lo convertono in spazio interno, proiezione dietro un’altra proiezione, costruzione di ambienti e di scavi nella memoria; così, a scavare, ci troviamo in un tempo che non è né passato né presente: « [...] Se in realtà io sono adesso / nel tempo di allora, e tutta questa paura delle camere deserte / di sopra è soltanto un gioco di ombre del sonno? [...]» (8, p.109), è un’interstizio in cui illuminare lo spazio ricavato, mutato in dimensione, in grado di accogliere i nostri ricordi: «[...] Scavare nella nebbia dei ricordi, nella luce soffusa: E allora inizieremmo a vedere – come dei ragni lividi – / le nostre mani, come le alziamo davanti agli occhi, mentre / procediamo / piano, come i ciechi? [...]» (11, p.113).
Ricordi come «ombre di gesti»: «[...] rimane soltanto una tovaglia sporca, su cui scivolano le ombre / dei gesti, quando muovi le mani. [...]» (Preparazioni interiori, p.137), movimenti da «ragno prigioniero»: «[...] Il solo che si muove / – senza avanzare, senza nemmeno ritrarsi indietro – / in questa alta oscurità sei tu – movimenti di ragno / prigioniero, sotto una sfera di vetro, sempre nello stesso posto, e lui non se ne accorge nemmeno / e crede di passare da un luogo, da un tempo / all’altro. [...]» (13, p.119), nello spazio che assume le sembianze delle circostanze e nell’immobilità, desidera accogliere il rifiuto: «[...] – come se l’intero tempo non fosse altro / che la ripetizione degli stessi, degli stessi pensieri / – e ricordi – e desideri. (e quando tenti di mutarli, / non rimane più nulla di vero. devi rimanere / immobile – [...]» (Perché ricordiamo, p.131), «[...] Da qui – // lo sapevo – sarebbero partite, con le impronte sulla neve, // le mie strade verso la consapevolezza, verso il rifiuto. [....]» (Danza invernale, p.37).
È il «gioco delle vetrate», gioco in cui, anche mopete, personaggio immaginario e protagonista di numerosi componimenti, compare: «[...] Spalle di ricordi, con le mani strette al petto. // a mopete venne paura – terribilmente dritto // negli occhi gli ardeva il tempo che gli era stato concesso. [...]» (24. Mopete e il gioco delle vetrate, p. 65)

La narrazione quotidiana, la correlazione ai riferimenti letterari, la meta-letteratura, il restare nel limbo dell’intersezione.
Un ricongiungersi al valore dell’esistenza stessa che scardina la «presunzione» della linearità del testo.

«[...] Questa è poesia ─
e al di là della sottile musica dissonante dei versi
dalla risonanza alquanto spenta, vi è psicologia degli abissi. [...]»

(Mircea Ivănescu, Sull’irrealtà della letteratura, p. 95)


Presentazione di Laura Capra


NOTE

1. (R. Vancu, Trasparența, Humanitaș, București 2018, pp. 120-121)
2. La recensione uscita originariamente nel 1968 è ora compresa in N. Manolescu, Literatura română postbelică. Lista lui Manolescu. 1. Poezia, Aula, Brașov 2001, pp. 103-104.







Inverno

D’inverno i lupi calano fino ai confini del villaggio
e ululano funesti, e sono pronti a squarciare
grandi brandelli di morte da qualsiasi ombra
che passi la notte per le stradine coperte di neve.

(Ognuno di noi ─ si direbbe in letteratura ─
è un villaggio assediato da memorie carnivore,
dagli occhi vitrei, con la bava putrida,
che si protendono verso il nostro volto, quando si sdraiano sul nostro petto
e straziano dal nostro corpo un assaggio
di morte.)

(Solo che noi non vogliamo fare letteratura.
Crediamo che vi sia qualcosa di falso in questo ─ come se
non potessi vivere per davvero preparandoti deliberatamente
determinati luoghi, e tempi spirituali, non foss’altro
per guadagnare tempo. Ma a noi così
pare, che vi sarebbe qualche cosa di falso.)

Dunque, quando infine giunge l’inverno,
e i lupi si ammassano ai nostri confini con il passato,
ci diciamo che il loro uggiolare funesto è solo una parvenza,
che questo accade solo nei libri,
e continuiamo a camminare la notte per le strade, senza sapere
neppure noi perché non ce ne stiamo in casa, tranquilli al caldo.
E arriva furtivamente qualche ricordo, ci afferra con forza la gamba,
ce la strappa improvvisamente dal fianco, facendo innalzare
una vela rossastra, di sangue pulsante, come quella di una nave spinta
dal vento ─ e poi fugge via con la gamba tra le zanne.
E noi ─ andiamo alla deriva, con le vele disfatte.

(M. Ivănescu, Inverno, pp.87-89)

 

13

Attraversare il tempo d’oscurità ─ e alto ─
ora, quando è iniziato il cammino verso la Terra di Giù, con le sabbie,
è di fatto semplice. Fai un passo dopo l’altro,
senza andare avanti, chiaramente, dal momento che conti i passi solo
per sapere quando alzare la mano per aprire la porta
verso la scala umida, e sempre più profondamente avvitata.
Se fuori, nel mondo degli uomini vivi, della neve,
passasse qualcuno adesso, si vedrebbero le luci scivolare
attraverso le finestre, da una parte, dall’altra della porta immensa.
Ma non passa nessuno da qui. Il solo che si muove
─ senza avanzare, senza nemmeno ritrarsi indietro ─
in questa alta oscurità sei tu ─ movimenti di ragno
prigioniero, sotto una sfera di vetro, sempre nello stesso posto, e lui non se ne accorge nemmeno
e crede di passare da un luogo, da un tempo
all’altro.

(M. Ivănescu, 13, p.119)

 

Preludio

Cioè, in un mezzogiorno
di sole opaco, bloccato tra le nubi, te ne stai immobile
ed il tempo ti scivola attorno ─ e le parole sono ovattate,
come in una stanza troppo piccola, troppo bassa, e vorresti
parlare, cercare di spiegare ─ e diventano,
le parole, filamenti ─ e si strappano ─ ed alla fine ti accorgi
che neppure ti ascoltano. Il tempo trascorre scivoloso,
da una parte, dall’altra. Ed è come se tu fossi in un libro
in cui vorresti startene per un po’vicino a creature
meravigliosamente quiete, silenziose, e neppure
troppo tristi. Solo che ogni libro
è una menzogna. Il tempo di qua, che ti passa accanto, è altro.

(M. Ivănescu, Preludio, p. 139)

 

Verità labirintiche

Non potersi allontanare per quattro mesi da uno stesso
stato d’animo. – sapere che d’ora in poi, un tempo immenso,
una stagione intera con i giorni sepolti nella neve, - ed una densa
onda di silenzio che ricopre tutto, - sarà tutto ciò che è reale. – e

ancora sapendo che quello che, in realtà, nemmeno avviene
qui – è, di fatto, la verità, e che
tutto ciò che passa da qui, con le orme nella neve, che ordinatamente
si mescolano verso la porta esteriore, non potrà mai diventare una semplice

menzogna, - quando la verità è così complessa.
(e la verità non esiste nemmeno – poiché è sepolta
Nella neve, in un tempo già da prima perduto, e che

non dovremmo abbandonare per quattro mesi – un tempo senza séguito.
di silenzio, e persistenza dell’inverno – ed immobilità -)...
e tutto è letteratura – cioè la stessa grande menzogna
(M. Ivănescu, Verità labirintiche, p.141)

 

XXV

Evidentemente esistono luoghi ─ luoghi interiori dove, stupiti,
ci imbattiamo un giorno in impronte, impronte stranissime
di passi che percorrono una regione che abbiamo creduto
che fosse soltanto nostra. Qualcuno dunque è passato per di là,
in questo tempo, durante la nostra assenza, - ha camminato
venendo da fuori fino ad uno di quei luoghi
dove transitano in molti, là si perdono le sue impronte
tra quelle degli altri. È passato per di qui, attraverso la nostra
regione più recondita. Si è fermato proprio
qui, forse più in là, per guardarsi attorno. Ora
me ne sono tornato io stesso quaggiù – e sono io a guardare intorno
per vedere ciò che ha visto questa creatura invisibile
quando ha guardato dentro di me – ed ha lasciato quelle orme andandosene.
E riprendo anch’io il cammino ─ nelle regioni interiori
scende presto la sera ─ d’inverno le giornate sono corte.

(M. Ivănescu, XXV, p.167)


(n. 11, novembre 2022, anno XII)