«Non roviniamo il gioco». 90 anni dalla nascita del poeta Mircea Ivănescu

Il 26 marzo del 1931 nasceva a Bucarest Mircea Ivănescu (scomparso a Sibiu nel 2011), uno dei più grandi poeti del ’900 romeno, e miglior modo per celebrare i novant’anni dalla sua nascita non poteva essere che l’uscita dell’antologia Altre poesie scelte (1968-1976) (testo romeno a fronte, Criterion Editrice, Milano, 2020) che raccoglie, per la prima volta in Italia, un’ampia selezione delle sue liriche, nella smagliante traduzione di Federico Donatiello, docente di Lingua e letteratura romena all’Università di Padova. Qui un assaggio di versi con la presentazione del traduttore.


La pubblicazione di un’antologia italiana delle poesie di Mircea Ivănescu colma un vero e proprio vuoto editoriale. Nonostante il suo nome suoni sostanzialmente ignoto all’orecchio italiano, Mircea Ivănescu è stato un poeta di primissimo piano della seconda metà del Novecento in Romania: autore di statura europea, con la sua personalità inconfondibile, Ivănescu ha mutato l’aspetto della poesia romena lasciando presagire per certi versi la grande stagione postmodernista.
Nato a Bucarest nel 1931, ha scelto di essere un poeta di ʽprovincia’ sia nella vita che nella letteratura: personalità schiva e umbratile, scelse consapevolmente la strada di Sibiu per allontanarsi dai clamori della capitale. Con le sue traduzioni di letteratura anglosassone e tedesca, Ivănescu ha contribuito alla diffusione di nuovi modelli letterari in Romania (storica la sua traduzione dell’Ulisse di Joyce); parallelamente, come poeta, esordiva nel 1968 quasi in tono minore, da outsider del proprio tempo, proponendo un nuovo modo di fare poesia. In una Romania dominata dalla poesia metaforica neomodernista, la vena ivanesciana si contrapponeva con il suo stile dimesso, antilirico, prosastico, apparentemente legato al vissuto quotidiano e al grigiore della vita di provincia, ma, in realtà, non meno carico di inquietudini e di interrogativi angosciosi sul senso della scrittura e della memoria.
Sfiduciato, il poeta si interroga costantemente sulle capacità della letteratura di spiegare ricordi, fatti e memorie, immagini ricorrenti e vere e proprie ossessioni che vengono costantemente sondate alla ricerca di una verità ultima. Poeta cerebrale dal sottile gioco intellettuale, Ivănescu nasconde una vena grottesca ed erudita che lo porta a dialogare con la letteratura precedente e con le arti e con l’amatissima musica: molto spesso la vita personale si confonde con i topoi letterari o, viceversa, sono i topoi stessi che vengono disperatamente usati per dare un senso alla propria vita e ai propri ricordi. 
Infine, in questo tentativo di epica del quotidiano, ci imbattiamo nel memorabile personaggio di mopete (scritto rigorosamente con la m minuscola), il protagonista alter ego in numerosi poemi dedicati a un mondo tragicomico di intellettuali: una piccola comédie humaine dai contorni grotteschi e geometrici.

Il mio primo contatto con la poesia di Ivănescu è stato nel 2010 quando ero ancora studente di Lettere all’Università di Padova. Appena tornato dall’Erasmus in Romania, sentii la necessità di mantenere i contatti con una cultura appena ʽscoperta’: fu il mio maestro Dan Octavian Cepraga a propormi di tradurre come esercizio le poesie di Ivănescu, poeta che trovai subito perfettamente congeniale. Questa antologia, oggi pubblicata con Criterion, nacque così in realtà quasi interamente negli anni stupendi dell’apprendistato e, perfezionata nel tempo, è divenuta un volume. La scelta è stata totalmente personale, cercando di proporre una serie di componimenti equilibrata e che ʽrendesse’ bene in italiano.
Tradurre Ivănescu significa fare i conti con uno stile raffinatissimo. La lingua è quella della conversazione borghese, dei cliché letterari di un ceto intellettuale cittadino e acculturato, che unisce numerosi riferimenti culturali. Ho cercato di mantenere un impasto lessicale caratterizzato da una certa, delicatissima metriotes, evitando eccessivi innalzamenti o abbassamenti di stile: la lingua di Ivănescu evita il sublime, ma anche il registro eccessivamente colloquiale, concedendosi a pochi preziosismi, che punteggiano inaspettatamente i suoi versi, ma non dimenticando mai la sua volontà di imitare il parlato.
Il centro nevralgico è la sintassi, spezzata e capricciosa, la cui resa richiede uno sforzo notevole per il traduttore: ho preferito non ʽrovinare il gioco’ ivanesciano, dando libero sfogo alla sintassi e laddove sono presenti rime (perfette o imperfette che siano) o residui di metrica ho preferito rinunciare a una trasposizione nel testo italiano proprio per non incidere sul continuum sintattico. Il mio obbiettivo è stato dunque mantenere quella delicata eleganza ʽpetrarchesca’ che è il segreto dell’arte ivanesciana, un’arte sottile frutto di un esigentissimo labor limae ma che non vuole mettersi eccessivamente in mostra. 




Gioco, la sera

Non roviniamo il gioco – questo gioco tranquillo
degli sguardi dalla finestra, mentre gli altri
giocano in casa al gioco del silenzio – e con alti
occhi rincorrono i propri sorrisi. Qualche parola
possiamo riporla, come se soffiassimo sul vetro,
e poi, quando si saranno avvicinati, la vedranno,
e, forse, la cancelleranno. E pesante
sarà la loro mano mentre scivola sul vetro. Un corallo
diventa questo tempo mentre stiamo ad osservare.
Stanchi appoggiamo i palmi sul muro – appesantiti,
attendiamo al margine dell’altro tempo.
Da qui, per noi, tutto può succedere.
Loro non lo sanno nemmeno. Per loro è soltanto un alto
gioco in cui dispongono cubi sempre identici.

 

La poesia è altro?

In poesia non devi raccontare – ho letto
il consiglio dato a un giovane poeta – pertanto non racconterò
come lei si svegliasse molto presto la mattina e seduta sul bordo
del letto
aspettasse che le si calmasse il respiro con il volto tra le mani –
e non dirò nulla del suo viso talmente stanco
che le spalle le si incurvavano, davanti allo specchio, quando
si pettinava lentamente. E non confesserò le mie paure
vicino al suo viso estraniato, distolto da me.
Non camminerò con dei versi, come con uno specchio tra le mani
in cui si riflettono le mattine di luce cinerea
prima dell’alba. La poesia non deve essere rappresentazione,
serie di immagini – così sta scritto. La poesia
deve essere discorso interiore. Insomma,
dovrei essere sempre io a parlare del suo volto ansimante,
alla ricerca del proprio respiro? Ma sarebbe allora soltanto il
modo in cui io parlo
del suo volto, dei movimenti rallentati tra strati
di torbidi rimorsi, di pensieri esclusivamente miei,
della sua immagine – soltanto un volto, un’immagine –
e lei – allora, il suo vero essere?

 

2. mopete si rilassa

leggendo un poliziesco, con la tormenta e il vento
che spruzza neve sui vetri, e la notte con le grida
dalla galleria verso cui sale la scala di legno, che cigola quando
gli uomini si avventano e inciampano nel cadavere – leggendo
questo, mopete
si ricorda che pure lui era entrato in una casa
molto tempo prima, e l’ingresso con pannelli di legno era alto,
e la scala di legno che saliva in ombre ruotanti verso l’altro
piano, dove mopete si immaginava una creatura con mani di
madreperla
che si pettinava piano e a lungo alla fiamma della candela.
il passaggio di mopete per quella casa d’inverno
è stato tuttavia reale – (mopete si dice a volte – «mi
assalgono di nuovo i ricordi. alla sera
di allora, sotto il monte, devo oppormi»).
mopete legge un poliziesco, con un sorriso innaturale.

 

5. ipostasi pacifica del cane d’aria

mopete la sera va nel parco cittadino ai piedi del monte
per portare a passeggio un cane d’aria – il suo cane personale –
così come altri hanno il proprio vizio e se ne stanno accigliati
intorno ad esso. il viale ai piedi del monte diventa una bolla
di pesciolini dorati che invisibili gli nuotano intorno,
intorno a mopete. il suo cane si arrampica tra le pietre –
mopete lo lascia andare – lui sta a pensare ai fatti suoi
come la tela di penelope, sempre disfatta presso focolari
sempre attizzati, e spenti, e di nuovo. il cane se ne sta
a volte tra gli alberi. mopete, assente,
aspetta. e più tardi, di questa lenta
ascesa per le strade con un cane d’aria dovrà pur
restare per una qualche creatura che sale
dietro le orme di mopete, del cane, la loro danza delicata.

 

How Like A Winter Has My Absence Been

L’assenza può essere davvero come una serata
invernale – il tempo si trasforma in un cristallo attraversato
da un intreccio meticoloso di rami, dal cupo
significato, nel cielo come una campana di amaro silenzio.
Nel tempo dell’assenza, quelli che rimangono
smarriscono le proprie ombre e scivolano sulla neve
come venti levatisi dalla riva – e un grande rifiuto
di qualsiasi desiderio discende assieme al sole glabro
e si fa una notte polare. Qualcuno di noi
fa ancora buchi nel ghiaccio – ma l’occhio verde
dell’acqua non riflette altro che il vento appesantito
e nessuna immagine. Nel tempo senza di lei
i lupi giungono quasi fin sotto alle mura e da
sopra, dalla torre, si sente la neve scendere, pesante

 

Sull’irrealtà della letteratura

Browning ha scritto molte poesie sui pittori del Rinascimento
italiano e sui ritratti di alcune giovani donne – alte,
fini, con i capelli nobilmente raccolti, o sciolti pacatamente
a contornarne il volto in luci dorate – (e vi aggiunge leggende
su fatti oscuri, che iniziano con normali adulteri
e si concludono con lo strangolamento della donna o l’accoltellamento furtivo
dell’amante colpevole). Questa è poesia –
e al di là della sottile musica dissonante dei versi
dalla risonanza alquanto spenta, vi è psicologia degli abissi.
In realtà, potrei tentare
un monologo di questo tipo, tortuoso, sottile
nei suoi significati apparenti (ma del quale mi immagino
che continui, sotto la linea cangiante dei versi,
fino a dire totalmente altro) –
potrei cercare di raccontare come era il suo volto,
una mattina, quando, raggomitolata nel letto,
si osservava i gesti irrequieti delle mani, sulla coperta,
e aveva gli occhi gonfi di pianto, con le sopracciglia alzate,
ed era sola, sola – come da piccola –
ed io non potevo raggiungerla. Questo non succede
mai, d’ora in poi. Per questo ritratto
non esiste leggenda che lo circoscriva perfettamente tutt’intorno,
che lo faccia diventare letteratura.

 

verità labirintiche

non potersi allontanare per quattro mesi da uno stesso
stato d’animo. – sapere che d’ora in poi, un tempo immenso,
una stagione intera con i giorni sepolti nella neve, – ed una densa
onda di silenzio che ricopre tutto, – sarà tutto ciò che è reale. – e
ancora, sapendo che quello che, in realtà, nemmeno avviene
qui – è, di fatto, la verità, e che
tutto ciò che passa da qui, con le orme nella neve, che ordinatamente
si mescolano verso la porta esteriore, non potrà mai diventare una
semplice
menzogna, – quando la verità è così complessa.
(e la verità non esiste nemmeno – poiché è sepolta
nella neve, in un tempo già da prima perduto, e che
non dovremmo abbandonare per quattro mesi – un tempo senza
séguito.
di silenzio, e persistenza dell’inverno – ed immobilità –)…
e tutto è letteratura – cioè la stessa grande menzogna.

 

i romanzi lunghi e freddi, come la coda di un ratto...

un tempo, tutto avviene da sé – la scena
in cui tutti si muovono con naturalezza, si rispondono
educatamente, si chinano a mettere la legna sul fuoco –
o qualche volta guardano dalla finestra, volgendo
agli altri le spalle – a dire se si è sciolta
la neve – la sera, gli uomini bevono uno o due bicchieri
di alcool forte, – lei si attarda, con le gambe raccolte
sotto di sé, all’angolo del letto, a leggere e con il gatto in braccio.
(il gatto fa le fusa), e, poi, d’improvviso, una sera
cambia qualcosa, impercettibilmente si scivola
in una irrealtà letteraria, come se, ad esempio, uno di loro
le chiedesse, all’improvviso, il permesso di baciarla sulla bocca.
e, per un motivo o per l’altro, lei, invece di sorridergli,
lo guardasse, soltanto, seria. da quel momento, le cose non sarebbero più
come prima. – vorrebbe dire che, la sera,
quello con gli occhiali inizierebbe a bere sempre di più,
e le mattine, di nuovo. e fuori si farebbe l’inverno sporco
della fine della vacanza – e il pelo del gatto
odorerebbe di cognac perché lui gli ha rovesciato, malignamente,
un bicchiere, di nascosto, sulla schiena. e il tempo
diventerebbe una confusione immobile, lunga
come la coda di un ratto – che il gatto, ora arrabbiato,
non avrebbe più voglia di catturare con la zampa.

 

XXV

Evidentemente esistono luoghi – luoghi interiori dove, stupiti,
ci imbattiamo un giorno in impronte, impronte stranissime
di passi che percorrono una regione che abbiamo creduto
che fosse soltanto nostra. Qualcuno dunque è passato per di là,
in questo tempo, durante la nostra assenza, – ha camminato
venendo da fuori fino ad uno di quei luoghi
dove transitano in molti, là si perdono le sue impronte
tra quelle degli altri. È passato per di qui, attraverso la nostra
regione più recondita. Si è fermato forse proprio
qui, forse più in là, per guardarsi attorno. Ora
me ne sono tornato io stesso quaggiù – e sono io a guardare intorno
per vedere ciò che ha visto questa creatura invisibile
quando ha guardato dentro di me – ed ha lasciato quelle orme
andandosene.
E riprendo anch’io il cammino – nelle regioni interiori
scende presto la sera – d’inverno le giornate sono corte.

 

Il gatto si lega alla casa

La mattina sono tornato a casa – mi sforzavo di non pensare.
Dovevo soltanto prendere alcuni libri – sono entrato rapidamente.
Dentro, l’ingresso oscuro, con i mobili pesanti, accalcati,
e lo specchio profondo, sulla credenza in fondo, a spiarmi
chissà da quando – (per quanto rapidamente mi sia protetto il capo,
e mi sono sorpreso a far sobbalzare la mano sulla guancia,
ho fatto in tempo a vedermi – dovrà rimanere per sempre
questo racconto di immagini di me stesso che entro,
una mattina, molto dopo l’alba, d’estate, quando si fa luce
nella casa deserta, in cui non ho più dormito da molto tempo?)
Ho attraversato rapidamente il corridoio. Nella mia stanza era
quasi buio
– le tende abbassate – il letto con le mensole e la cassapanca, che
oscillava
quando mi sono fermato, disorientato, sulla soglia, a ricordarmi
cosa volessi
cercare. Oh!, avrei voluto stare sul bordo del letto, con la testa tra
le mani.
Ho attraversato le stanze. Quiete. Aria chiusa. Non so più
cosa abbia fatto – non pensavo a nulla. Quando sono uscito
nel cortile – alla luce, all’aria? e ho sceso gli scalini,
ho visto nel cortile piccolo di dietro, il gatto. Sedeva, calmo,
e mi guardava – senza meraviglia, senza riconoscermi, come
un’ombra.
Ma quando mi sono diretto verso di lui, è fuggito,
voltandosi a guardarmi. Quando sono uscito sulla mia strada
era mattina inoltrata – l’estate, la luce in cui
da piccolo me ne andavo a scuola, anche allora senza pensieri.
Molto più tardi mi sono accorto che non mi ero neppure reso conto
del momento in cui ho iniziato a pensare, allora, la mattina, a qualcos’altro.
Il gatto non l’ho più visto già alcuni giorni dopo.









Presentazione e traduzione di Federico Donatiello
(n. 4, aprile 2021, anno XI)