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«Ode alla lingua italiana». Versi di Filippo Salvatore
Con il titolo Ode alla lingua italiana, pubblichiamo una selezione di poesie di Filippo Salvatore, saggista, poeta e professore associato di Italianistica alla Concordia University di Montreal, che, tra l’altro, studia da decenni l’evoluzione della cultura e della letteratura italocanadesi. Il poema Ode alla lingua italiana dà conto della composita realtà storica e sociale che l'italiano, come lingua, esprime al giorno d'oggi, mentre Fratelli d'Italia è stato scelto dalla sede centrale della Società Dante Alighieri di Roma come esempio di poesia multiculturale. La traduzione dei versi proposti si può leggere nell’edizione romena del presente numero, alla pagina accessibile qui.
Ode alla lingua italiana
I.
Lingua d’Italia, sei voce di multiple
identità, cavo di ruga di tempo,
cicatrice di ferite di tante vite.
II.
Sei eco di spruzzo sugli scogli,
di onde di marea che sale
e si ritrae su pietre levigate
o sulla sabbia falba di isole
e di coste d’una lunga penisola.
III.
Sei sibilo di scirocco, bora, maestrale
tra le gole, le cime e i crepacci
del Carso, delle Dolomiti e del Monviso,
dell’Etna, dello Stromboli e del Vesuvio,
della Sila, del Gennargentu e del Gargano,
del Matese, della Majella e Gran Sasso.
IV.
Sei eloquio, rima, melopea,
alla corte dell’imperatore Federico,
grugnito di banchiere che calcola
tassi e interessi sul Ponte Vecchio
al gorgoglìo della corrente dell’Arno.
Sei canto di paradiso, guaìto d’inferno
canto carnascialesco, segreto di congiura
sogno di amanti e pena di affranti.
Sei il ʻme ne fregoʼ della camicia nera,
l’invettiva di chi fu arso vivo
per eresia nella città dei papi,
di chi pagò appeso a Piazza Mercato
l’illusione che dà la parola libertà,
o morì uscendo di trincea il quel di Asiago
o sulla sponda del Piave nel fiore degli anni.
V.
Sei alito ansante di modella in bilico
su tacchi a spillo alla sfilata di moda
sotto le stelle a Trinità dei Monti.
Sei urlo di mattanza alla tonnara,
acuto di tenore, gorgheggio di soprano.
Sei melodia di coro nei conventi
e preghiera in seminario o sull’altare.
Sei saggezza di chi usa la zappa
e fischia tra vigneti, uliveti e aranceti,
di chi cerca la gloria affinando le parole
o calcola le note per comporre concerti.
Sei turpiloquio di bettola e di bordello,
cagnara di ultrà sugli spalti, sospiro
di chi si riposa in baita o in trullo,
singhiozzo di chi perde il primo amore.
VI.
Sei il pane per chi s’inventa
tra lacrime e sudore un futuro migliore.
Sei miraggio, pianto di dolore
e di speranza da carrette di mare
con accenti di oasi, savane, altopiani.
VII.
Sei formula per l’orbita di Giove,
di emicicli, di satelliti medicei
e di nano-velocità dei neutrini.
Sei frantumo di tanto fatuo rock,
rombo di motore di cavallo rampante,
dolce vita di paparazzi su lambrette.
Sei pane amore e fantasia di fusti
poveri ma belli su grandi schermi,
sorriso di veline in palinsesti spazzatura
e di soubrette pronte al bunga
bunga senza naturale sprezzatura.
Sei il politichese dell’onorevole corrotto
che tuona dal suo scranno in parlamento.
Sei minaccia su pizzini di chi vive di pizzo
e spergiura, uccide e non è uomo d’onore.
VIII.
Sei luce di occhi blu, verdi, neri
di bimbi color neve, miele, cioccolata.
Sei il sapore in bocca della natia patria mia.
Sei il dolce sì del Bel Paese che ha
tanti figli e amanti su tutti i continenti.
Fratelli d’Italia
I.
La musica in Piazza XXIV Maggio
Il giorno del santo patrono Adamo
è di Verdi e di Puccini. La prima
cornetta intona le note e rivive
il dolore degli Israeliti senza più terra,
Il dramma di Madama Butterfly.
II.
All’angolo, nel bar sotto i portici,
Abdù, il dodicenne che stamattina
ha comprato il mio stesso pane dal fornaio
e all’alza bandiera, con la mano sul cuore
davanti al monumento ai caduti
di tutte le guerre, ha cantato
Fratelli d’Italia con altri scolari,
saluta gli amici che portano a spalla
per i vìcoli del centro storico la statua
d’argento del benedettino Adamo,
di Nicola, vescovo di Mira in Anatolia,
di Antonio il portoghese, di Sebastiano,
di frate Francesco e di sorella Chiara.
III
Spicca sul petto del primo cittadino
la fascia tricolore tra il fumo
degli scoppi sul sagrato, il làbaro,
i cappelli a pennacchio dei carabinieri,
la porpora del vescovo, i chierichetti,
le suore in nero, il bianco delle vergini,
la confraternita impettita al completo,
la marcia della banda, il muggire
dei buoi, il suono dei campanacci,
lo stridore delle ruote del carro
sulle pietre vive del selciato, l’eco
della melopèa stonata delle zitelle.
IV
Attònita la madre guarda Fatima
ridere con Noemi e rispondere
in dialetto al telefonino.
Senza velo è il viso
e nera ha la criniera di capelli
di leonessa mediterranea.
V
Bogdan, il muratore, mentre beve
una nastro azzurro con Adamo
il falegname e con Alì, il venditore
ambulante di tappeti, nota le differenze
tra le statue e le icone bizantine
della sua Craiova o di Timisoara.
VI.
Al parco giochi a Castellara,
anfiteatro naturale, echi di gioia
sulla giostra volante di Eva,
di Myriam, di Margherita, di Mihai
e di Ekaterina, la biondina ucraina.
Unica la raccomandazione delle mamme
in lingue diverse: - Non farti male! -
VII.
Ecco la realtà del tre giugno
in un borgo dell’ùmile Italia,
captata di nascosto, vissuta
di rimando dall’aedo frentano
che cinque dècadi fa
provò la gogna dell’esilio.
VIII.
Ride in lontananza, splendida
al tramonto, la rosea Majella
al Gran Sasso, suo geloso amante.
Avvolto nella foschia di Lèsina
è il Gargano e gialle si stagliano
le Diomedee, con un tocco di verde,
nel lenzuolo blu dell’Adriatico.
Venerdì Santo
Ad Elena
1.
O come sibila il vento e sferza il vetro,
o come sbattuti cadono dal cielo
i fiocchi di neve che a mulinelli
s’avvitano attorno agli aceri nudi;
o come ricamano, caduchi diamanti,
il rettangolo della mia finestra!
Quanto triste, madre, in questa
veglia è il viver mio di esule
che pane salato d’altri mangia
e nascoste lacrime versa
e sogna il tuo sorriso perso!
2.
In questa vigilia quando muore
e risorge il Figlio del Padre Nostro
o Vergine Madre, figlia di tuo Figlio,
scolpito porto negli occhi
che non si chiudono il mare
giallo dei girasoli ondeggianti
nella brezza di giugno nelle
distese pianure lungo le rive
del Prut che limpido sgorga
dalle vette bianche dell’Hoverla!
3.
È quasi Pasqua, ma ancora sibila
forte la tramontana da Nunavut
e gridi di dolore mi trasporta del suo
popolo antico che rischia di morire
nel nostro mondo di macchine
possenti, inquinanti, indifferenti.
4.
Pocutia, Cetatea de Balta, Bucovina
Transilvania, Bessarabia: o come dolce
è il suono sulle mie labbra d’insonne!
Baia, Suceava, Iasi, Chisinau,
o aviti gioielli della Tara Moldovei,
in petto sepolti, in petto vivi vi porto.
O Tara de Sus e Tara de Jos,
voi siete le mie due mammelle
che nutrono gli indelebili ricordi!
5.
E nel dormiveglia ecco Bogdan con Dragos,
Stefan cel Mare e Alexandru cel Bun,
e dietro di loro, ecco i duri, feroci seimeni,
giannizzeri ma anche nemici degli ottomani
e i boiari barbuti eletti allo Sfatul,
pastori contrari al vacarit di Iancu Sasul.
E s’avanza in armi, splendente, Mihai
Viteazul, primo padre dell’unita patria trina
e sgorga a fiotti il sangue dei fidi
caduti del principe Dimitrie a Stanilesti;
e l’anima vende e l’onore del popolo
per trenta denari Costantin il fanariota
e Sturdza critica Ghica con una copia
dello Statuto Organico in mano,
né riesce ad intendersi con Cuza.
6.
Calmata s’è la tormenta
e con i primi bagliori dell’alba
mi si oscurano pesanti le palpebre.
È questa la vita, una notte bianca?
Perché, madre, m’hai messa al mondo?
Chi sono, espatriata, in terra straniera?
Figlia tua resto e umano innesto
di daci, illiri, latini,
valacchi, slavi, unni,
turchi, tartari, ebrei,
e prego con la croce romana e bizantina,
e con la falce di luna del Profeta
e con la stella di Davide, rè di Gerusalemme
e mi nutro di parole dure,
come teschi di bue, ma che hanno l’odore
del placido Tevere, del lungo Danubio
e del marittimo Volga e sapore di vino
aspro, come il rude letto del Nistro.
7.
Ed è a Montreal, falsa rotta verso l’oriente,
al fragore delle rapide del San Lorenzo
che mi rimescolo ed esisto raminga
tra saltimbanchi di tanti meridiani,
tra visi diversi, spinti dalla stessa fame,
tra ulissidi stufi di piccole Itache,
tra atletici sciacalli che si nutrono di sangue,
immemori della morte e della resa dei conti.
8.
S’è schiarito il cielo e s’alza timido,
giallognolo il sole. Ovattata è ancora
la città avvolta in un candido manto.
Oggi, Cristo, è il giorno della tua morte
e della nostra umana resurrezione.
Mi guardo allo specchio e mi scopro
diversa, rinata, nuovamente antica
e moldava mi vedo e più che moldava,
libera aquila in volo dalle cime dei Carpazi
sui grattacieli dell’Hudson, sui grandi laghi
e su cordigliere, pianure e ghiacciai di Madre Terra.
Il distacco da te, madre, e l’usura del tempo
sono dolore risorto in amore imperituro.
Filippo Salvatore
(n. 9, settembre 2012, anno II)
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