|
|
I «Versi esicasti» di Enrico DʼAngelo
Enrico D’Angelo, direttore della collana «I poeti della Smerilliana» delle Edizioni Di Felice, ha voluto mettere la sua nuova raccolta di poesie, Versi esicasti, sotto il segno della spiritualità ortodossa, riportando in apertura la citazione del filosofo romeno Constantin Noica: «L'importante è ciò che resta della libertà – non soltanto in colui a cui è stata tolta, ma anche in colui che gliel'ha tolta –, ciò che resta umano nelle ore di totale annullamento dell'umano; così come è importante ciò che resta proprietà dell'uomo, quando gli è stato tolto tutto».
Pubblichiamo una selezione di poesie, precedute dalla Lettera dalla Romania a un poeta italiano di Bruno Pinchard (traduzione dal francese di Luigi Francesco Clemente).
a Enrico DʼAngelo, salve
La tua nuova raccolta di poesie, caro Enrico, richiede qualche riflessione. E poiché lʼhai messa sotto il segno della spiritualità ortodossa, poiché lʼhai aperta con la citazione di un filosofo romeno particolarmente provato dallʼoppressione di uno Stato totalitario, ho creduto bene di attendere a un lungo soggiorno in Romania per inviarti le parole di amicizia che ti avevo promesso. Ti scrivo nel vento della collina, il tuono in lontananza, le bestie passano lungo le strade, i ciuffi dʼerba risplendono, dagli alberi già cadono i frutti maturi. Potrei declamare Pavese, ma è DʼAngelo che oggi mi stringe. I Dialoghi con Leucò appartengono ai campi deserti e agli dèi dispersi dei moderni, i dialoghi di DʼAngelo iniziano con lʼicona e finiscono col canto del cigno. Decisamente, non si tratta della stessa campagna né degli stessi dèi, e la fine non è un suicidio, ma un volo.
Ti scrivo, poeta adriatico, da un paese senza tempo, da colline che tu non hai mai visto e bevo lʼacqua da un pozzo cui il tuo canto non ha ancora attinto, ma vedo il monastero dalle frecce dʼargento che sogni nella tua solitudine: anticipo il tuo ritiro, intuisco il tuo distacco, faccio spazio al tuo silenzio. E ti leggo allʼincontro di lingue sorelle, lʼitaliano della tua anima, il francese di chi scrive, il rumeno dei nostri idilli. Le tre lingue si confondono nellʼaria calda, i ricordi si disperdono o si rafforzano a seconda del movimento delle nuvole sullʼimmensa pianura, i Latini si ritrovano e si perdono, i paesi confondono le loro età: i vinti, i vincitori, gli avi e gli eredi. Sento quasi, attraverso lʼeco delle nostre lingue particolari, il vagito di una lingua comune, come se nel nostro presente estremo ci fosse dato di conciliare storie separate... In mezzo a venti tali da render difficile lʼorientamento, son sicuro almeno di questo: se non ci fosse la poesia – e la tua poesia –, non sapremmo tracciare una linea dei nostri sentimenti né dei nostri saperi, senza speranza resteremmo alle prese coi segni, credendoci «ricercatori» e aumentando lʼignoranza. Ma poiché il verso va al segno, poiché la memoria si costringe alla successione dei metri, il distacco trova un suolo, lʼesicasmo dellʼartista trova il suo compimento: preghiera in quanto opera, e silenziosa serenità in quanto perfezione di parola.
Non vedo quale altra religione ti appartenga, Enrico, se non quella dei poeti ed è proprio perché dal monastero sento risuonare le ore nellʼaria che vibra, che posso dirti che il tuo rito non è di convinzione, ma di perfezione; il tuo ritiro non è di contrizione, ma di assoluzione; la tua fede non è di confessione, ma di realizzazione. Insisto su questa differenza di vocazioni: a noialtri, gente di parola, è possibile servire le religioni, ma a precise condizioni. Innalziamo da noi stessi la nostra chiesa, costruiamo un tempio, se si vuole, ma le cui pietre non sono le membra di una comunità alla ricerca della sua unità, ma le parole che cercano le proprie affinità. La nostra opera di raccoglimento, è vero, solo con difficoltà si aprirà alle condizioni della vita sociale e senza dubbio siamo incapaci a unire degli individui spesso ridotti dalla disgrazia a una condizione selvaggia. Ma accettiamo questi limiti e rivendichiamo la nostra differenza. La confusione ci fa orrore, ecco perché non proviamo simpatia per i poeti militanti o per coloro che cadono nella predicazione. I poeti sono familiari del bando e dellʼesilio. È la condizione stessa di un verso veramente puro.
È difficile, per me, nel concerto delle lingue che ho attraversato per venire fino a te, dire in maniera sufficiente fino a quale folle esigenza di diamantaire tu spinga il desiderio di questa differenza. Mi basti ricordare, malgrado la mia inevitabile sordità a certe sottigliezze del verso italiano, che tu appartieni allʼetà manierista del sonetto, al seguito delle confidenze di Tasso o delle ellissi di Marino, e che cerchi di confrontare questa passione della forma al respiro dellʼanima contemporanea. E non per niente tu riprendi in due punti dei sonetti di Shakespeare, poiché questo fu anche il suo compito, come fu già di Giordano Bruno o, da noi, di Maurice Scève: riprendere il programma formale del petrarchismo per liberarlo a delle esperienze interiori o cosmiche che non appartengono immediatamente ai registri codificati di questa poesia
troppo spesso piú elegante che espressiva. I maestri hanno tagliato questo dilemma e ci hanno trasmesso questo suono unico, fatto di concentrazione, di grandezza e di distacco, rintracciabile ancora nelle Grazie di Foscolo, piú che nei Canti di Leopardi. Il secolo delle avanguardie, piú tardi, ha avuto grandi difficoltà a conservare questa memoria della concisione nel distacco, e in Francia è forse sin da Apollinaire che si sono mantenuti dei lampi di classicismo in rigoroso confronto con la modernità dei sentimenti e delle scene. Eugenio Montale se ne è ricordato e la sua poesia vi attinge il suo fascino.
Ma oggi la poesia versa deliberatamente nelle giustapposizioni avventate, motivo per cui ricevo con un misto di rispetto e di incanto il pudore dei tuoi versi, poeta dal nome dʼangelo, e sognerei che le tue celebrazioni segrete fossero raccolte da qualche Parnasso, perché tu conosca la lode che meriti e i benefici del giudizio sapiente che ti spetta. Ma credilo bene, se immagini un timido passante sulla collina rumena colta da un temporale, se lo vedi che entra nella chiesa e per un poʼ trova riparo sotto le cupole, questo sarà il tuo amico francese, che accenderà la candela di cera giovane e per te affiderà le sue intenzioni, prima di abbracciare lʼicona sulla quale ha inizio il tuo vespro.
Bruno Pinchard
Della mano
Della mano sia sorte la carezza
sí da dirsi mano che più non scorda
questo di noi intenso e privato ardore
che infinito se stesso invera il cielo;
tace dunque il pensiero e lo si apprezza
quassú nel firmamento dei ricordi
se gradino a gradino nel pudore
qual risposta dʼAmore ascende e vela
col dentro il fuori, cedendo al divino
il nostro e suo fra nobili destino.
Tempi
Questo giorno come questa pagina
svolta che non sa se terminare a ieri
o essere per lʼindomani, che estrema
ritenta la luce proprio ove intimo
tremore è lʼultimo pensoso sguardo;
e, tenera in sé di segni e di sogni,
in noi cosí resta incontro del tempo
con il tempo, quando ci leggeremo.
Serale aria
Quella serale aria dicembrina
in fondo la luce in ogni raggio
di sole spenge, tacita scrutando
il proprio giorno giungere di stella
per noi cuori dʼeleganti zolle dʼombra
di quella tuttavia stagione dʼonda
che profonda affiora di stupore
informando compagnie galleggianti
che allʼeco rinvia del firmamento
quasi noi fossimo lʼascolto di là
ove del dubbio è tempo, e con piú fede.
A una straniera
Mi chiedi forse semplici parole
per scriverti poesie, ed io ti sorrido
perché per riuscirci dovrei dapprima
imparare a scriver senza dolore;
ma questo (che tu non sappia, mi fido)
è solo del cielo, rima o non rima.
Enrico D'Angelo
(n. 3, marzo 2013, anno III)
|
|