La destrutturazione drammatica del Sé: «Human Alert» di Dora Pavel
Nessuno avrebbe potuto prevedere, percorrendo i versi strani, ermetici e al contempo taglienti pubblicati con parsimonia in alcune raccolte tra il 1989 e la fine degli anni ’90 (Narațiuni întâmplătoare, 1989; Poemul deshumat, 1994; Creier intermediar 1997), la futura evoluzione della scrittura di Dora Pavel. L’autrice di Cluj incarna, nella sua eccentricità, un caso davvero unico nella letteratura rumena. Nata poetessa, durante la maturità Dora Pavel si tramuta inaspettatamente in una romanziera dotata di una forza evocativa perturbante, atipica nel panorama della prosa rumena contemporanea. A partire dal primo romanzo Agata murind (2003) fino al più recente Bastian (2020), la scrittura borderline di Dora Pavel si concretizza in una prosa che se da un lato appare iper-concentrata e minimalista, dall’altro è segnata profondamente da sedimentazioni epiche dense e labirintiche, proponendo al lettore una forma particolare di «neo-gotico». Un gotico ibrido, che emerge dall’abisso di identità liminali e dalla loro psiche oscura e frammentata, ma anche un gotico residuale, rimodellato e proiettato da una sensibilità postmoderna in un nuovo organismo paradossale che ho voluto definire come neuro-gotico [1]. Nei thriller metafisici e apparentemente destrutturati di Dora Pavel i ‘mostri’ non appartengono al campo del Soprannaturale o del Fantastico, non provengono mai da mondi paralleli – infra-mondi o para-mondi – ma si generano piuttosto dalle (e nelle) menti alienate e abiette che popolano, infettandolo, il quotidiano. Così come inaspettatamente, agli inizi del nuovo millennio, Dora Pavel abbandona la poesia per il romanzo, nel 2021, dopo 24 anni, l’autrice ritorna alla poesia con il volume Human Alert, pubblicato presso Casa de pariuri literare, diretta dal poeta Un Cristian.Scritta freneticamente in soli due mesi, durante un periodo di cupo isolamento e in un momento di incertezza collettiva dovuta alla crisi pandemica da COVID-19, la raccolta Human Alert rappresenta un ulteriore esordio all’interno della sua longeva carriera letteraria. Come afferma, difatti, la stessa Dora Pavel, nel percorso di un autore non esiste un unico, bensì una «cavalcata di debutti», cosicché per la generazione di lettori più giovani, che non hanno conosciuto la sua poesia degli anni ’90, questo volume può rappresentare davvero un «nuovo debutto» [2]. Avendo manifestato nel corso degli anni, in varie interviste, un credo totale nei confronti del romanzo, ritenuto come un genere superiore rispetto alla poesia e come la sola forma che le abbia offerto «la massima libertà di pensiero, di sentimento e di espressione» [3], in Human Alert Dora Pavelsembra testimoniare, in modo sottilmente polemico, un certo distanziamento dalla stessa poesia come atto creativo e una profonda nostalgia del genere romanzesco. Del resto, il legame tra questa raccolta e i romanzi pubblicati nel corso di quasi un ventennio è molto più rilevante rispetto a quello che Human Alert intrattiene con le raccolte poetiche degli anni ‘90. Oltre alla presenza di veri e propri nuclei narrativi, disseminati (e a volte dissimulati) abilmente nei versi, alcune poesie, nel loro configurarsi come frammenti o embrioni di romanzi, rimandano sotterraneamente alle ‘situazioni-limite’ che caratterizzano, in modo singolare e scioccante, la prosa paveliana. Ogni poesia sembra essere pronunciata non tanto dalla sua autrice, quanto piuttosto da uno dei personaggi tormentati che costellano i suoi romanzi, poiché, aldilà delle riflessioni polemiche nei confronti del genere poetico, riemergono dappertutto immagini, temi e motivi ossessivi che rimandano alla sua prosa neuro-gotica, là dove il macabro, coltivato sempre senza censure e in modo spontaneo e non gratuito, si fissa in un orizzonte esclusivamente psichico. Parole stridenti ed eccessive, a volte brutali, che riaffiorano nel plasma della pagina come flegma purulento, come relitti di una condizione umana in costante stato di allerta, assediata da morte, scetticismo e pazzia, e che mostrano impietosamente la disintegrazione di identità precarie e fragili, la destrutturazione drammatica del Sé, alienato e de-centrato, spinta fino all’assurdo e al grottesco, i lati oscuri e abietti della psiche (ma anche del corpo), che si incarnano in alterità liminali quasi mostruose, la trasgressione dei limiti e la decostruzione delle immagini normative della sessualità, che favoriscono l’emersione di una sessualità perturbante e abnorme. In modo paradossale, senza manifestare un credo totale nei confronti del genere poetico, consapevole di scrivere poesia durante una breve pausa dal romanzo e «solo per diletto» [4], non per reale affinità, Dora Pavel consegna in Human Alert alcune delle poesie più suggestive pubblicate negli ultimi anni in Romania.
NOTE
[1] Cfr. Giovanni Magliocco, Neuro-Goticul Dorei Pavel, in «Steaua», n. 8, 2021, anul LXXII, pp. 4-5.
[2] Dora Pavel, Nu există un debut, in Un Cristian (coord.) Despre debut. Istorii personale, București, Casa de pariuri literare, 2021, pp. 83‒89.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
Destroy & Live
Ripudiare verso per verso richiede genio
il genio richiede confort
come minimo un lavoro part-time di pomeriggio o di sera
come minimo tecnico delle luci nel club Destroy & Live
per non trovarti faccia a faccia con i conoscenti
per non parlare
soprattutto per non parlare
è un nonsense sapere prima quali enunciati usciranno dalla tua bocca
con quali effetti, quanto nocivi
quali orecchie trasparenti potrebbero captare le tue parole gettate
lì a caso
come riparazione
in inquadratura dal basso
scegli l’acustica di un cortile rettangolare abbandonato
il riverbero dello spazio vuoto
rifugiati là
ti tendi da solo una mano
urli quanto vuoi
detesti ciò che vuoi
dai alla tua autoflagellazione gloriosa
un’iniezione nuova
Morire dormire
Esci dall’ingegneria delle vecchie creazioni
escine completamente e volontariamente
senza vomitare convulsamente accanto alla grondaia che non c’è più
senza schizzare verde con tutto l’imbarazzo per ciò che hai scritto
lo sai benissimo: non fanno più male né i giorni in cui ti leghi da solo al guinzaglio
né i piedi contratti durante la tua danza diabolica in loden e calzini
sulla scrivania
hai gettato hai distrutto tutto
quanta stanchezza nelle tue vene
forse tutto ciò che scrivi qui è puro inganno
è solo un coagulo sospetto spuntato nel plasma della pagina
all’interno di una logica provvisoria
e l’ascesso in cui nuotavi fino a non molto tempo fa da un’isola all’altra
senza il potere di qualche naufragio
non era che il riflesso di un accattonaggio elevato
esistono sindromi molto più economiche
malattie molto più promettenti
per arrivare ad essere ciò che desideravi da tanto:
una banale vittima degli assembramenti umani
il corpo dei tuoi libri con desideri decimati
che trovi in vendita dappertutto
se devi iniziare l’opera di annientamento della tua creazione
non contare più su parole preziose
su brutte copie e piagnistei diventati cliché
su ciò che adesso potrebbe ancora lasciarti sul volto qualche nuova malformazione
sii melodrammatico
posa per una rivista
canta per i soldati
poi sforzati di morire di dormire
qui l’asse di legno costa meno che da qualsiasi altra parte
La vita senza romanzo
Il rifiuto di un bacio domenicale
ti svegli coi gomiti graffiati sul davanzale
alle tue spalle, la calura di un interno decadente
l’ombrello nel vaso pieno di serpenti rinsecchiti
il calamaio senza inchiostro
i fianchi sudati dell’ultimo western con la pistola roca
piantata nel palato
e all’orizzonte solo le creste del romanzo
puoi divenirne proprio tu il protagonista
una forma d’umorismo genuino
una semplice proiezione del rettile mutante con lo zoccolo spaccato
che può ancora saltare creativamente all’orizzonte nella ghiaia
esposto come te alle radiazioni dell’ideale
accenni una riverenza anticipata davanti al solo che
può guarirti dalla fame, dall’irreale e dall’assurdo
come da una coscienza troppo acuta
a condizione che oggi tutti tacciano:
oggi-ho-voglia-di-romanzo
il solo desiderio diventato cliché
trascinato rozzamente qui sulla pagina
recrudescente inguaribile
Di sinapsi in sinapsi
Una colonna di demoni disciplinati
bene istruiti si ferma notte dopo notte
alla stessa ora davanti alla vetrina del libraio
obbligati ad aspettare
di vederlo radere al suolo un’intera biblioteca
innalzata a stento durante il giorno
non sono demoni sono cortei che stanno per distruggere
per entrare per rovistare tra i suoi pannelli
sono cortei di creature bipedi
di consistenza infinitesimale
che somigliano ad essere umani
non sono esseri umani
sono protoplasmi della mia mente
che prendono un aspetto umanoide
sono pseudopodi dalle labbra serrate e ingorde
in cerca di avanzi
si arrampicano di sinapsi in sinapsi
sugli spigoli di quercia verso le placche dei pannelli rovesciati
per raggiungere gli scaffali e vendicarsi
prendersi finalmente la soddisfazione
di invadere le pagine alterate
dire la verità
squamare il loro ventre rigonfio di lodi false
bruciarle
Colpevole è la tua paura
Forse colpevole è stata la tua insicurezza
indifese sono le tue associazioni di idee –
le tue donne vecchie con i capelli innaturalmente neri
col volto rugoso
e il collo sfrangiato
(il ragazzo che aveva ironizzato su di loro è morto da tempo)
forse colpevole è stata la tua rabbia
il crollo del tuo rigore sul non-rigore
per divorarsi l’un l’altro
per rodersi a vicenda la pelle assottigliandola fino al sangue
spandendola al sole
come fanno le contadine con i panni lavati sopra arbusti e cespugli
sicuramente colpevole è la tua paura
nessun esercizio di stile ti sopravvive più
il tuo corpo si contrae in un gelo narrativo
i pavimenti si innalzano
il soffitto scende
le pareti minacciano
hanno artigli
marciano verso di te
con i piedi con la testa con le mani
li spingi via li allontani
vecchio aborto con i capelli innaturalmente neri
Ossigeno azoto carbonio silicio
L’hanno cercato al cimitero
l’hanno trovato
l’hanno riesumato
hanno verificato le sue impronte
le palpebre da cieco piene di radici
la pelle del viso
appesa agli zigomi come le sue tende
lacerate legate con corde
ma il vivo che un tempo aveva fornito loro scenari di scrittura
che proclamava il rifiuto della propria morte dopo quello troppo tardivo
della propria nascita
prevedendo coorti di individui che sarebbero nati
sulla sua strada
solo sulla sua strada – Lavoisier
sempre dalla parte dei numeri pari
il vivo che loro avevano soprannominato
Il-vecchio-con-i-capelli-intrecciati-con-la-schizoidia-recitata-
e-il-nervo-degli-occhi-invaso-dalle-termiti
ha testimoniato loro che adesso
da morto
non capisce più nient’altro
non digerisce più nient’altro
Lavoisier il decapitato l’ha lasciato fuori
ossigeno azoto carbonio silicio
Nella base militare
La brutalità ci salva tutti
il nostro punto forte nel dolore è la brutalità
l’appartenenza alla stessa truppa
alla stessa base militare
mi ricordo la guardia
il cambio di pattuglia in cui ci sniffavamo gli uni gli altri
a piccole dosi
le condanne
le emicranie i gemiti le ulcere
le emorragie come modo di esistenza
quando donavamo il sangue a distanza
trafitti da migliaia di aghi
troppo spesso di notte
anche adesso lasciamo scivolare fino ai piedi i nostri equipaggiamenti
finché non ci liberiamo delle nostre inibizioni
della curiosità dei passanti eccitati
finché non sentiamo i nostri sessi bramare
per le pulsazioni di altri e ancora altri
ordini di mobilitazione
oggi cediamo
chiamiamo di nuovo la poesia
e la poesia ritorna
– breve estensione di felino colpito
sorpreso a rubare
fino a non molto tempo fa sembrava spartire qui
avvisi
ordini
falsificazioni
flegma purulento nelle nostre gamelle
adesso nulla può più toglierci la frenesia del sequestro
il sudore
la bestialità
il rancio quotidiano di abitudini omicide
noi sappiamo che un giorno usciremo da qui
noi sappiamo che usciremo quando usciremo
solo per cacciare dita grassocce di donna
tranciate in pietre preziose
il solo piacere che ci tiene ancora in vita
come l’estasi-di-scriverci-sopra
Piattino con monete
Lei – uno scheletro fatto con minuzia, lustrato a lungo
lui – un cieco con le palpebre non abbastanza incollate
con il loro rilievo irregolare
con i globi oculari che si muovono eternamente sotto le palpebre
lei – trampoli obliqui di mimo stradale
attaccati senza cartilagini da un lato e dall’altro
nei cardini del bacino
lui – che pigia la sua mano vogliosa
sulle sue ossa vibranti
trasparenti
finché non ne penetra la valle stretta
e profonda
lei – che salta come bruciata ai lati
guardandolo dall’alto
col trucco che si scioglie
col solo tessuto vivo e attivo che possiede ancora
un occhio untuoso che scorre & scorre
& scorre
si fa strada sul volto
scivola sul labbro lo solleva
si insinua dentro
illumina il palato
– il piattino in cui i mimi si lanciano da soli monete
inscritte con le parole di Bernhard
che non si saziano mai di ascoltare:
“Esistono difatti solo fallimenti”
Esecuzione & infertilità
Una pioggia di proiettili
– una furtiva
rapida esecuzione
steli neri di sambuco crescono tra le falangi
degli inumati a poca profondità nella fossa comune
senza sforzo i gambi si fanno strada in superficie
le teste dei fiori riempiono il campo con un aroma soffocante
nessuno immagina da dove venga questo prato
setoso
di un nero intenso lucente
e soprattutto che cosa giaccia al di sotto
un ragazzo ha reciso un fiore di sambuco e con esso
l’asprezza della natura assetata di morte
sul luogo puro ha amato una donna
ha costruito una casa
gli ospiti cantano festeggiano nell’attesa
nell’atrio i donatori di sperma offrono i loro recipienti
giganti aridi neri
Poesia d’amore
Una mattina con la sua parola papale pacata mansueta
tra le lenzuola
la sorella spacca il pelo in quattro
il fratello spacca lei
finché le loro funi di discesa non vengono sputate fuori
dalla tosse da tabacco dell’ultimo vulcano
aldilà della porta
aldilà delle finestre spalancate
nello scampanio del letto incestuoso
le fruttivendole si leccano le dita
numerano le banconote con cui daranno loro fuoco
li bruceranno fino alla fine
li renderanno cenere
Apocalittica
Bruciano le parrucche apocalittiche
bruciano i peli di fil di ferro nero dei tuoi pettorali di top model
gli spray fissanti esplodono con te
con gli hair-stylist e con tutto il resto
non chiamarmi più dallo stesso numero
non ti riconosco più
non ho più tempo per il tuo corpo che pulsa
per il tuo catafalco
capiscilo una buona volta
non ho più voglia di risponderti
me ne sono andata a vedere i cameramen brulicare intorno ai suicidi
che imprecano allo sbando
calpestandosi in lista d’attesa
sotto il tavolo autoptico
Senza reggicalze
Sei appena salita sulla capote della macchina
e la ripresa filmata ha deviato verso l’altro tuo corpo
salito anch’esso sulla stessa capote
tanta timidezza repressa
ti dicono: la tua retorica è solo un continuo gioco sessuale
senza una grammatica del ritmo
senza reggicalze, corsetti e lozioni calmanti
senza il kit per tatuaggi
che attraversi asettico la tua bocca
il vero visionarismo resta solo
quello del visionario turbolento:
lo psichiatra
che si depila l’ascella
che disinibito si rosicchia le unghie dei piedi
davanti a te
volendo trasmetterti la sua aura di falsa intimità
Inquietudini amnesiche
Ancora un feto gettato nella fontana
ancora un uccello che si gratta sopra il feto gettato nella fontana
la tua paura alla quale nemmeno oggi nessuno dà
la più piccola attenzione
il sanatorio è un parco della cortesia
un secolo di riverenze davanti ai camici bianchi
specialisti in inquietudini amnesiche
senza interventi “chirurgici” d’urgenza
laggiù la nevrastenia può essere controllata non-stop
le poche distorsioni ammesse
per niente bizzarre
hanno anche loro un programma diurno stabilito con rigore:
alle quattro – il gioco comune delle maschere dietro le grate
alle cinque – la parata dei veterani Alzheimer lasciati liberi per le strade
alle sei – la cena pronta scaduta spremuta coi piedi
alle sette – la camicia di forza indossata a suon di musica
durante la notte – il feto che nuota nel canale
le scosse elettriche
lo scuotimento del tuo pensiero con il rombo del motore in folle
Pazzia in controluce
Un solo viaggiatore
un solo sopravvissuto
un organismo invertebrato molle pulsante
infesta ancora il tuo abisso metaforico
le tue opzioni sono infinite:
opali e mattatoi
istinti e rigori
leggi miti e mappe
castigo non ancora rivolto verso sé stesso
molle pulsante
con i suoi nervi arrossati
con i suoi contrari e le sue turbolenze imperative
con i suoi territori ancora non battuti
riponila
guarda la tua pazzia in controluce
con lei esiste ancora una speranza
che il mondo non invecchi più velocemente
e che il cerchio della sua dimostrazione non venga chiuso
Clone
Non calpestare torsoli
il clone ha la schiena dritta
le mani dietro la schiena
non scimmiottare il suo esercizio
la sua sana andatura
non fare il suo gioco non accrescere le rughe sul suo viso
non desiderarle come baratri dai quali non puoi più uscire
non cercare di vedere dove potrebbe cominciare lui
senza fermarsi
né dove potresti fermarlo tu senza che possa cominciare
stai buono accanto a lui e aspetta
aspetta e basta con la spalla accanto alla sua spalla
con la malattia accanto alla sua malattia
impara tu stesso a maneggiare la pinzetta con cui
estrarti anche gli altri cloni umidi dalla provetta
allinearli sul vassoio
leccarli avidamente
lavarli con la tua lingua materna
solo allora sbrigati ad incollarti a lui
calmo, affascinato e condannato
come un recinto sul quale hanno urinato sangue
Collage digitale
L’involuzione comincia dalle unghie
dapprima le unghie si riassorbono nelle falangi
le falangi nell’omero
l’omero nella clavicola
la clavicola nelle costole
le costole nello sterno
il cranio nella spina dorsale
così nei piedi
le falangi si ritraggono nelle tibie
le tibie nell’osso sacro
l’osso sacro nel bacino
in simultanea
gli organi molli si tuffano anche loro gli uni negli altri
in una continua tempesta di assimilazioni e di odori
di mormorii plasmatici e rifrazioni
la nevrosi del cuore nelle suture chirurgiche
i solventi del sangue nell’embrione della madre
il pigmento della madre nell’uomo
l’adesivo dell’uomo a ritroso nella madre
l’utero della madre nel non-pensiero
il non pensiero nella non-fede
la non-fede nella riverenza
sbandierata in modo stereotipato tra fondali cellulari e sipari
scoperta e calpestata anch’essa tempestivamente
sotto il collage digitale di un artista
Come se qualcuno mi stesse chiamando
Non arrampicarti con il tuo sorriso perverso
hai rughe scolorite nel dondolo organico
la voce di gatta spelacchiata scruta
i tuoi riflessi condizionati
per te il giornale si apre sempre al “crimine dell’anno”
ho ascoltato il mio cuore incidermi lo sterno
per uscirne fuori abbandonarmi
lasciare totalmente a vista il mio respiro
– un mucchio di nevrosi senza padrone
dimenticate in cima alle scale
portate via dal ciclone
la città ribolle nella fiacca
le malattie soffrono di mimetismo
il morbillo soffre di mimetismo
la scabbia e l’itterizia soffrono di mimetismo
la creazione e la procreazione soffrono di mimetismo
non ho nessuno con cui umiliarmi
i miei sensi si inginocchiano davanti a me
rifiutano di avere ancora coscienza
di conservare tutto ciò che mi ha tenuto finora in vita
mi rivedo dritto, verticale
un embrione salvato tra le tenaglie, linfa e sangue
un fluido fosforescente scolato giù dal porpora materno
quando mostrai senza permesso la mia nudità
nella loggia più illuminata
(un tempo le riflessioni vuote si adagiavano qui
nella semioscurità del secolo
con un raffinamento mai visto)
non voltare la testa
– come se qualcuno mi stesse chiamando –
potresti cadere direttamente nelle zanne delle ambizioni arrugginite
con la tua mancanza di prudenza
(nelle tue ferite trasudano licheni)
nell’avanscena
il fallimento è inevitabile
lancio i dadi dal balcone
li seguo con lo sguardo
proprio adesso
intravedo il mio volto in mezzo gli altri
A cura di Giovanni Magliocco
(n. 11, novembre 2022, anno XII) |