Violenza soave, precisa, rossa. Alla memoria della poetessa Angela Marinescu

Spesso, quando si cerca di descrivere l’opera di un artista di chiaro valore, è facile scivolare in categorie assolute e correre il rischio di apporre etichette roboanti (il «più grande scrittore», il «maggior poeta») e spesso abusate, per definirne le qualità creative. Personalmente, non ho mai troppa fiducia in questo tipo di categorizzazioni sebbene, alle volte, esistano eccezioni che richiedono il superlativo.
È senza dubbio il caso di Angela Marinescu, una voce poetica che assai difficilmente perderà la sua unicità e forza nel panorama della poesia romena contemporanea, soprattutto adesso, quando la sua voce si è spenta.
Angela Marinescu, al secolo Basaraba-Angela Marcovici (8 luglio 1941 – 3 novembre 2023), debutta nel 1965 sulla rivista letteraria Tribuna di Cluj e quattro anni dopo, nel 1969, pubblica la sua prima raccolta di versi intitolata Sânge albastru (Sangue blu). Seguiranno molti altri volumi di poesia, prosa diaristica e saggistica ma, in tutto ciò che ha scritto, come segno inconfondibile del suo pensiero creativo e artistico, la voce della poetessa si mostra «stridente, sdegnata, a volte cinica» (nelle parole del critico letterario Bogdan Crețu), unica per sincerità e per lo spirito di rivolta che porta con sé, solitaria per gli stessi motivi.
Il lirismo di Angela Marinescu dà voce alla sensibilità ulcerata e ossessiva di una donna eternamente combattuta tra necessità creativa e necessità emotiva, marcata da una costante tensione visionaria e metafisica che ci riconduce alla poesia neoespressionista romena del dopoguerra. Terza costola del postmodernismo romeno degli anni ’80, il neoespressionismo rimane legato ai grandi temi del modernismo (amore, morte, sofferenza) ma lo fa aderendo a una poetica del trauma che esaspera i limiti e oscilla tra estasi onirica e intransigenza interiore, urgenza etica e negatività (Postmodernismo romeno, Mircea Cărtărescu. Ed. Humanitas, 2010).
La ricerca interiore e artistica di Angela Marinescu è simile a una patologia dell’autenticità e della confessione, implacabile e cruda, egocentrica e precisa come un bisturi che brilla e recide viscere e spirito, con orrore ma allo stesso tempo con voluttà e sensualità, per definire un lirismo che ripudia convenzioni ed etichette ufficiali, costante rivolta dell’io oltraggiato: Credo che in generale i miei testi non siano tanto cultura o sottocultura, quanto, semplicemente anticultura. Perché in assoluto non ho mai creduto di compiere un gesto di cultura, scrivendo. Piuttosto si trattava di una rivolta nel sottotesto perché, contro la mia volontà, mi sono ritrovata a scrivere e non a vivere, dichiarava Angela Marinescu in un testo del 2010.
Ancora, nello stesso testo (la prefazione alla sua antologia Blindajul final)la poetessa ci offre un altro elemento definitorio della sua poetica e che, a mio parere, la rende ancora una volta unica nel panorama della letteratura contemporanea romena postdicembrista:

Quanto al comunismo, […] vi prometto che non rinuncerò, profondamente o superficialmente, a «lui», per me padre e madre, la terra in cui sono discesa fino alla deformazione, sempre pensando che, senza la sua follia e il suo esacerbato erotismo, senza la sua forza intellettuale e la sua abiezione, non sarei stata me stessa. Sono stata il prodotto del comunismo, così come sono stata figlia di mia madre e di mio padre […], sono (io e la mia poesia) un prodotto strettamente comunista, pigro e carnivoro come lui, povero e vivo come lui, insoddisfatto e sdegnato come lui, timido e aggressivo come lui, profondamente imperfetto perché profondamente impossibile e aristocratico, perciò teso all’autodistruzione fino all’ultimo, come lui.

Salutiamo così una donna e un’intellettuale libera e ribelle, forte e terribilmente fragile, con la certezza che la sua eredità poetica non sarà dimenticata troppo presto.




sono una donna che vuole cavare sangue dalle sue stesse poesie
alle sue poesie soltanto apparterrà il sangue
non sarà sangue appesantito da informazioni estranee
ho versi soltanto miei
“profuma di diamante”
è un verso mio e mio soltanto
e presuppone il mio odio per la materia
sebbene io m’immerga nella materia come nel ventre materno
quand’ero un feto brutto, viscerale, in piena trasformazione
in cielo come in terra avviene la trasformazione che percepisco
invano sembra essere la bellezza fuori da noi
la bellezza è solo nella nostra interiorità
interiorità significa follia
la follia è l’unico strumento che cambia il mondo
secondo la scienza, la follia è
il topo meccanico
che danza nelle compatte tenebre
del pianeta

 

La voce di Ifigenia

Sono circondata, senza possibilità di fuga.
Gente, vicini, poeti, consanguinei,
Parenti lontani. Cosa potrei fare?
Scappo di casa invano.
La morte mi aspetta tra quelle pareti, non per strada


Racconto invernale

Spesso d’inverno osservavo l’umile uomo che
da un angolo di strada andava a sedersi sui gradini anneriti di fumo
della cattedrale di Santo Iosif e tagliava una pagnotta
con un coltello di ferro.

Arrivavano in gruppi gli sportivi e, soprattutto, i campioni;
il bersaglio era esattamente al centro.

Ho sollevato una mano e ho fatto ordine.
Ha ingoiato carne e ho fatto la guerra.
Mi sono strappata i capelli e ho fatto poesia.

Con il corpo che giace sui gradini anneriti di fumo,
l’Animale Sacrificato ancora rantola
e il sangue schizza
sul volto di chi lo sacrifica.

 

Urlo

Mai potrò amarti in modo diverso
Da questo: al di sopra ogni altra cosa.

Le nostre vite si disperdono anzitempo
Come una profonda ferita che si rimargina.

I nostri colori sono vividi,
Ma sbiadiscono sulle grandi altezze.

Similmente a croci di legno soccombiamo.

Mai potrò amarti in modo diverso
Da questo: al di sopra ogni altra cosa.

 

La superficie del delirio

la liberazione è stata realmente un atto. Ho guardato dentro di lei
alienata e piena di timore. Quella mattina L’ho visto
rifiutare la vita, con spaventosa precisione.

Attraverso una gola, tra i canali, nella nebbia: questo è il cammino su cui
faccio ritorno, definitivamente, sconvolta. Più che
sconvolta: aggressiva. Con il rivestimento rosso della retina distaccata
come un’isola di umanità.

Intuisco l’insidia, la sovversione, l’essenza.

E il volto di chi muore è il volto stesso della morte
e il volto di chi gioisce è il volto stesso della gioia
e il volto di chi scrive.

 

Proiezioni nel futuro

presto
arriveranno l’inverno e il gelo
definitivi
e bianchi come un occhio cieco
in cui ti lanci
e urti
contro l’odio marginale
di uno sguardo
fallito

 

Il tuo corpo

Il tuo corpo è sottilmente tagliato dalla lama
E azzurra è allora la luce che riverberati dall’interno
Come un animale sventrato.

E allora dovrò venirti dietro
Seguendo il suo passo rarefatto,
Seguendo la linea di assoluta perfezione
Con cui hai coricato
Inquieto
Il campo di grano, verso sera.

Ti raggiungerò
Con la testa viva
che penzola di stanchezza

Con il petto corroso
Senza carne
Con occhi
Senza palpebre.

E come un uccello, che in assoluta solitudine,
Rinuncia alla sua preda urlando,
Ti dimenticherò.

 


A cura di Clara Mitola
(n. 12, dicembre 2023, anno XIII)