Max Marra, l’inquieta bellezza della materia. Testo critico di Teodolinda Coltellaro Max Marra, calabrese, è artista di fama internazionale, la cui opera multidisciplinare denota grande vitalità e forza espressiva. Il critico d’arte Teodolinda Coltellaro analizza i 40 anni di ricerca esposti nella mostra antologica «Max Marra, l’inquieta bellezza della materia» aperta al museo MARCA di Catanzaro fino al 7 settembre 2021. Pubblichiamo la versione integrale del testo critico presente nel catalogo, concesso in esclusiva.
Egli, con il proprio lavoro di ricerca, teso a verificare le più insondate qualità espressive della materia, esplora la dimensione fenomenologica delle cose reali, reinventando, istante dopo istante, tra libertà e norma, tra razionalità e avventura, nell’atto stesso del fare, le regole necessarie all’esistenza dell’opera, senza confini precostituiti o argini fittizi frapposti tra categorie espressive e linguaggi diversi.
Fin dall’inizio è la materia la dimensione elettiva dell’indagine di Marra; è la materia la densa stratificazione originaria in cui ritrovare il nucleo essenziale dell’esistere, in cui l’essere stesso delle cose si costituisce e a cui il suo stesso fare creativo riconduce incessantemente; è la materia l’estensione in cui si dispiega il suo procedere esplorativo, di cui coglie le suggestioni evocative, le infinite possibilità formali, sempre inedite e feconde, quelle stesse che la natura organica dei materiali suggerisce. Egli, nella massa di residui oggettuali, di scarti, di rifiuti che ingombra il quotidiano, legge una superiore similitudine con il vivere sociale che respinge ai margini, che abbandona gli ultimi, tutta quell’umanità ferita, offesa dai soprusi dei giorni. D’altronde, il movente originario di tutto il suo fare artistico è sostanzialmente umano e sociale. Non ha paura di ‘sporcarsi’ le mani nella materia Marra. Il suo è il lavoro di una mano pietosa che non teme di estetizzare la sporcizia [1]. Recupera poveri resti di cose scongiurando la loro estrema dissoluzione, il disfacimento della loro esistenza oggettuale, recuperandoli ai processi dell’arte, alla dimensione sacrale dell’opera. Riesuma cose la cui parabola storica è declinata, ma la cui apparente inerzia è agitata ancora da residui spasmi vitali, restituendo a esse una nuova esistenza, tramutando la morte in rinascita. È il periodo a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, quello in cui la sua ricerca si indirizza in forme di integrazione tra scultura e pittura, in cui realizza assemblaggi polimaterici, installazioni che nascono da contaminazioni linguistiche, da ibridazioni frutto di un processo conoscitivo che affonda l’indagine in un’immensa distesa traboccante di materie e materiali. Nel silenzio delle cose gli giunge il canto profondo della materia che, da «costruttore d’armonie» – come ama definirsi –, trasforma, plasma, sublima in «oggetti poetici». Le sue opere sanno di scultura e di pittura senza esserlo, riecheggiano tracciati concettuali, di informale-materico, rievocano sentieri di un’arte povera che scava nelle emozioni, degli altri e proprie, un’arte che cura le ferite della quotidianità, ne soccorre e lenisce le lacerazioni con la sua prodigiosa capacità creativa che si nutre dei valori essenziali della memoria, senza lasciarsi imbrigliare da regole, ma dando sostanza poetica alle vibrazioni dei materiali.
«Nel mio lavoro artistico – sottolinea Marra – ricorrono iuta e corda, stoppa e cere, catrame, oli, ossidi, carbone, come pure materiali e reperti di archeologia industriale passata e recente. Tutto il mio fare ha la memoria del vissuto»[2].
Per Marra questo è un periodo ricco di sollecitazioni operative, di fondamentali esperienze formative dovute anche alla nascita del collettivo interdisciplinare Osaon, cui l’artista aderisce fin dal suo atto fondativo, avvenuto nel 1986 con l’apertura di uno spazio multimediale a Milano e la pubblicazione di un omonimo bimestrale. In quegli anni per Milano (la «Milano da bere», in cui tutto sembra possibile e a portata di mano) Osaon rappresenta un esempio unico e fondamentale di cultura autogestita che veicola contenuti di grande valenza etica e in cui l’opera è il risultato di una totalità poetica di azioni creative, aperte a tutti gli sconfinamenti linguistici in una sostanziale artisticità mobile e trasgressiva. Non a caso lo stesso nome Osaon, identificativo del gruppo, composto dalla voce verbale osa rafforzata dall’avverbio inglese on è un invito a osare, a spingersi oltre le mura abituali del pensiero, a operare, agire insieme con l’intento di indicare nuovi modelli di progettualità artistica ma anche etico-sociale-comportamentale, ideando, producendo e proponendo cultura. In esso Marra opera in perfetta sintonia con Luigi Bianco, Mario De Leo, Flavio Piras, Nicola Frangione, Teresio Zaninetti e altri. Quello di Osaon è un momento fertile di proposte innovative, di ricerca e sperimentazione, di opere collettive, proiettate verso un’arte totale, cui ognuno dà il proprio apporto ideativo e creativo, di mostre, di eventi in cui i linguaggi poetico, teatrale, musicale, artistico, performativo, interagiscono e dialogano in modo non programmato. Nel periodo ’88-91, in parallelo con le sperimentazioni e interazioni linguistiche di Osaon, Marra realizza i cicli di opere Francesco è solo e A.S.P (l’acronimo sta per Appunti Sul Ponte). Con la serie Francesco è solo propone un originale, ulteriore, attraversamento della materia creativa che affonda fin nelle radici della propria storia, nei territori mentali del ricordo, nel nome del santo di Paola.
La serie A.S.P. è l’equivalente artistico di un «cantiere aperto», un ponte tra le due regioni (quello mai nato tra la Calabria e la Sicilia, fonte di speculazioni e sperperi), un collegamento concettuale realizzato attraverso parole, colore, oggetti, reperti fotografici. Un susseguirsi di appunti, di scritte, di immagini che segnano gli Involucri-pacchetti A.S.P. trasformandoli in altrettanti racconti-denuncia; in essi, metaforicamente, è racchiuso l’urlo dei più deboli, imbrigliata la forza del loro agire morale. Sono opere simboliche delle derive del potere in tutte le sue forme: ‘gabbie’ in cui si spegne il pensiero libero, di per sé rivoluzionario, asservito ai giochi sordidi di chi governa i destini del popolo.
Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 la produzione di Marra si arricchisce di nuovi lavori in cui è ancora protagonista la materia; una materia inquieta, tormentata che assomma in sé l’angoscia, la tragicità del vivere, le ansie, le sofferte decisioni della vita morale. Sono le opere della serie Pance ferite in cui la materia è pulsazione visibile, energia organica compressa che provoca l’aggetto del supporto, il suo rigonfiamento, spingendo fino al limite estremo di resistenza il tessuto formale dell’opera, tendendolo fino alla sua lacerazione. La pancia racconta l’epica del corpo; è il centro della vita fisica di cui regola i ritmi della corporeità, è densità magmatica, in continuo sommovimento; essa è per Marra il centro del mondo, di cui si può avere conoscenza solo facendo esplodere la sua volumetria affinché da essa fuoriescano tutto il marcio di cui è piena, tutte le negatività, tutto il malessere accumulati dall’essere umano.
Già nel 1992, dal nero antracite del riquadro-cornice (frammento essenziale dell’opera), dalla sua densa fisicità, dai suoi flebili chiarori metallici, emergono le volumetrie, morbide e sinuose, delle Dune d’oriente; esse vibrano di echi profondi, di accordi che si smorzano nella tensione di vigorose geometrie. Le volumetrie delle Dune d’oriente attenuano il pesante incombere della materia e il loro morbido gioco di rientranze e sporgenze non dà più forma all’angoscia, non cela la cruda verità d’evento della realtà esistenziale, ma rivela le calde vibrazioni cromatiche dei deserti d’oriente, forme bizzarre simili a «tappeti-aquiloni» (come le definisce l’artista), superfici pittoriche che conciliano il volo e l’allontanamento dal caos della civiltà occidentale.
Al corpus di lavori Bianchi miraggi del ’94 rimandano le opere Campi di cosmos che, in una complementarietà di pensiero creativo e di valori cromatici, si alternano alle opere Portali silenti, del 2009.
In effetti, il percorso evolutivo di Max Marra appare come una sorta di itinerario spirituale, un graduale cammino di purificazione dalle scorie del mondo, di ascesi dagli abissi della sofferenza umana verso l’orizzonte radioso del cielo, in un continuo interrogarsi sul senso più profondo dell’esistenza, sul destino ineluttabile dell’uomo. La vitalità, la forza espressiva dei suoi bianchi, da Campi di cosmos a Campi di Témenos, oggi traducono la feconda pienezza di un segno profetico che più volte si è annunciato, per manifestarsi, in tutta la potente bellezza del suo dire, nella corporeità visiva dell’opera, nel suo essere frammento di materia esistenziale.
In questa dimensione di serenità esistenziale, di volo mentale nei «cieli di cosmos», liberi e assoluti, Marra ripercorre cammini già attraversati in un continuo viaggio rigenerativo alle sorgenti della propria storia creativa. Con la serie delle Timbriche, infatti, riprende una ricerca del 1989, vivificandola di nuova linfa, di nuova sostanziale pienezza, di variazioni strutturali essenziali e libere, di accadimenti segnici che ne determinano la singolare unicità e intensità poetica. Nella forza arcaica del gesto che pressa sulla carta un timbro, da lui stesso realizzato, Marra declina un nuovo tracciato artistico di forme e segni. La forma tondeggiante del timbro dai bordi scabri, imprime, segna e definisce spazi e vie per ulteriori interventi creativi. Dalle macchie irregolari che si aprono ai cieli bianchi delle superfici, sospese tra visione immaginifica e memoria, partono filamenti segnici che si dipanano in sempre nuovi giochi compositivi, quasi divertissement, che sviluppano fluidi andamenti curvilinei, evoluzioni di estrema levità e raffinatezza, altrettanti trepidi grovigli di emozioni, incogniti ideogrammi che raccontano di misteriosi mondi interiori. Oltre alle Timbriche, impreziosiscono la recente produzione di Marra, altri bianchi, altri Cieli, Tracce di cosmos in cui la materia inquieta smorza le sue asperità in ulteriori modulazioni, in impalpabili sentieri di luce, in un viaggio esplorativo non più oppresso dalla temporalità delle cose, dalla loro ansiosa fisicità. Sono opere in cui sottili e resistenti frammenti di arbusti assecondano il gesto plastico dell’artista; si flettono cedevoli, simili a corde tese, segnano la corporeità della tela bianca, in una continua filiazione di valori formali, in cui le volumetrie sono poco più che tenui dislivelli, corrugamenti cutanei, leggeri movimenti di sporgenze e rientranze che generano delicate definizioni di spessori. Anche le cuciture, che un tempo suturavano la pelle ferita dell’opera, ora sono segni di un vasto repertorio con cui l’artista costruisce equilibri compositivi, con cui dispiega pensieri, descrive paesaggi dell’anima. Ogni opera è una preziosa partitura di motivi ritmici, musicali, di valori poetici che si incorporano di materia, che diventano essi stessi materia, sublimata nella liricità profonda di un canto.
Teodolinda Coltellaro NOTE |