Max Marra, l’inquieta bellezza della materia. Testo critico di Teodolinda Coltellaro

Max Marra, calabrese, è artista di fama internazionale, la cui opera multidisciplinare denota grande vitalità e forza espressiva. Il critico d’arte Teodolinda Coltellaro analizza i 40 anni di ricerca esposti nella mostra antologica «Max Marra, l’inquieta bellezza della materia» aperta al museo MARCA di Catanzaro fino al 7 settembre 2021. Pubblichiamo la versione integrale del testo critico presente nel catalogo, concesso in esclusiva.


Ripercorrendo all’indietro la storia creativa di un artista, si può tentare di risalire fino al punto germinale della sua sintassi espressiva per poi ripercorrerne il cammino in una retroversione evolutiva con la consapevolezza delle stazioni intermedie, ciascuna fondamentale per quella successiva. Anche l’opera di Max Marra si offre a questo particolare principio interpretativo. Infatti, attraversando a ritroso l’estensione del suo cammino artistico, si scopre l’essenza generativa dei suoi lavori creativi, si individuano le diverse fasi di ricerca, altrettante espressioni di un continuum operativo coerente in cui si placa, in modi sempre nuovi e diversi, l’urgenza dell’agire creativo, un agire che rimanda sempre e comunque a una motivazione etica di fondo.
Il disegno, in particolare, contrappunta e accompagna le diverse fasi di ricerca e sperimentazione del lavoro artistico di Marra, quasi controcanto, a volte anche dissonante, o armonia di canto. Il disegno, la sua irruenza segnica, la sua forza espressiva, la sua fisicità che si nutre della corporeità del gesto (sotteso rinvio all’espressionismo del «Die Brücke» e, in particolare, di Kirchner e Nolde) attraversa la sua operatività, resta la trama conoscitiva portante del suo fare. Alimentato dalla sua straordinaria capacità immaginativa, diventa una inarrestabile eruzione di tracce, segni, figurazioni dalle inaspettate qualità plastiche, dalla consistenza quasi materica.


Max Marra. L’inquieta bellezza della materia, esposizione retrospettiva
Museo MARCA di Catanzaro, 25 giugno - 7 settembre 2021,
a cura di Teodolinda Coltellaro
(Crediti foto: Luigi Angiolicchio)


Egli, con il proprio lavoro di ricerca, teso a verificare le più insondate qualità espressive della materia, esplora la dimensione fenomenologica delle cose reali, reinventando, istante dopo istante, tra libertà e norma, tra razionalità e avventura, nell’atto stesso del fare, le regole necessarie all’esistenza dell’opera, senza confini precostituiti o argini fittizi frapposti tra categorie espressive e linguaggi diversi.
Così il disegno, la tridimensionalità scultorea, la pittura, l’installazione non sono categorie assolute del fare artistico, ma modi scelti, di volta in volta, dalla materia per farsi immagine, per sperimentare contaminazioni linguistiche inusitate, travasi, correlazioni, possibilità combinatorie, in un processo continuo, reificante e aperto a sempre nuove soluzioni creative.



Struttura, 1987, 170x80x90 cm, polimaterica


Fin dall’inizio è la materia la dimensione elettiva dell’indagine di Marra; è la materia  la  densa  stratificazione originaria in cui ritrovare il nucleo essenziale dell’esistere,  in cui l’essere stesso delle cose si costituisce e a cui il suo stesso fare creativo  riconduce incessantemente; è la materia l’estensione in cui si dispiega il suo procedere esplorativo, di cui coglie le suggestioni evocative, le infinite possibilità  formali, sempre inedite e feconde, quelle stesse che la natura organica dei materiali suggerisce. Egli, nella massa di residui oggettuali, di scarti, di rifiuti che ingombra il quotidiano, legge una superiore similitudine con il vivere sociale che respinge ai margini, che abbandona gli ultimi, tutta quell’umanità ferita, offesa dai soprusi dei giorni. D’altronde, il movente originario di tutto il suo fare artistico è sostanzialmente umano e sociale. Non ha paura di ‘sporcarsi’ le mani nella materia Marra.  Il suo è il lavoro di una mano pietosa che non teme di estetizzare la sporcizia [1]. Recupera poveri resti di cose scongiurando la loro estrema dissoluzione, il disfacimento della loro esistenza oggettuale, recuperandoli ai processi dell’arte, alla dimensione sacrale dell’opera. Riesuma cose la cui parabola storica è declinata, ma la cui apparente inerzia è agitata ancora da residui spasmi vitali, restituendo a esse una nuova esistenza, tramutando la morte in rinascita. È il periodo a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, quello in cui la sua ricerca si indirizza in forme di integrazione tra scultura e pittura, in cui realizza assemblaggi polimaterici, installazioni che nascono da contaminazioni linguistiche, da ibridazioni frutto di un processo conoscitivo che affonda l’indagine in un’immensa distesa traboccante di materie e materiali. Nel silenzio delle cose gli giunge il canto profondo della materia che, da «costruttore d’armonie» – come ama definirsi –, trasforma, plasma, sublima in «oggetti poetici». Le sue opere sanno di scultura e di pittura senza esserlo, riecheggiano tracciati concettuali, di informale-materico, rievocano sentieri di un’arte povera che scava nelle emozioni, degli altri e proprie, un’arte che cura le ferite della quotidianità, ne soccorre e lenisce le lacerazioni con la sua prodigiosa capacità creativa che si nutre dei valori essenziali della memoria, senza lasciarsi imbrigliare da regole, ma dando sostanza poetica alle vibrazioni dei materiali.


Memoria, 1986, 134,5x100 cm, tm su cuoio


«Nel mio lavoro artistico – sottolinea Marra – ricorrono iuta e corda, stoppa e cere, catrame, oli, ossidi, carbone, come pure materiali e reperti di archeologia industriale passata e recente. Tutto il mio fare ha la memoria del vissuto»[2].
Così si mostrano a Marra le gigantesche, potenti e nere locomotive, meravigliosi monumenti d’assemblaggio meccanico di straordinaria bellezza; sono incredibili condensati di vissuto (custoditi nel deposito locomotive della stazione di Paola di cui era dirigente capo suo padre)che a lui sembravano installazioni, altari evocativi dell’uomo; allo stesso modo la spiaggia, adiacente al deposito, si offre allo sguardo con l’antica sapienza di gesti con cui i pescatori adoperano pece calda e stoppa, riparano reti e barche, risanano vele che poi  tendono al vento. Tutti materie e materiali che si ritrovano nelle grandi installazioni di Marra, nelle opere tridimensionali, negli oggetti incisi, scavati, negli scarti e recuperi sottratti all’abbandono, nei grovigli materici che diventano forme, corpi, simboli primordiali nell’immaginario della memoria.



Bronx, 1987, 130x160x10 cm, materiali vari su tavola


Per Marra questo è un periodo ricco di sollecitazioni operative, di fondamentali esperienze formative dovute anche alla nascita del collettivo interdisciplinare Osaon, cui l’artista aderisce fin dal suo atto fondativo, avvenuto nel 1986 con l’apertura di uno spazio multimediale a Milano e la pubblicazione di un omonimo bimestrale. In quegli anni per Milano (la «Milano da bere», in cui tutto sembra possibile e a portata di mano) Osaon rappresenta un esempio unico e fondamentale di cultura autogestita che veicola contenuti di grande valenza etica e in cui l’opera è il risultato di una totalità poetica di azioni creative, aperte a tutti gli sconfinamenti linguistici in una sostanziale artisticità mobile e trasgressiva. Non a caso lo stesso nome Osaon, identificativo del gruppo, composto dalla voce verbale osa rafforzata dall’avverbio inglese on è un invito a osare, a spingersi oltre le mura abituali del pensiero, a operare, agire insieme con l’intento di indicare nuovi modelli di progettualità artistica ma anche etico-sociale-comportamentale, ideando, producendo e proponendo cultura. In esso Marra opera in perfetta sintonia con Luigi Bianco, Mario De Leo, Flavio Piras, Nicola Frangione, Teresio Zaninetti e altri. Quello di Osaon è un momento fertile di proposte innovative, di ricerca e sperimentazione, di opere collettive, proiettate verso un’arte totale, cui ognuno dà il proprio apporto ideativo e creativo, di mostre, di eventi in cui i linguaggi poetico, teatrale, musicale, artistico, performativo, interagiscono e dialogano in modo non programmato. Nel periodo ’88-91, in parallelo con le sperimentazioni e interazioni linguistiche di Osaon, Marra realizza i cicli di opere Francesco è solo e A.S.P (l’acronimo sta per Appunti Sul Ponte). Con la serie Francesco è solo propone un originale, ulteriore, attraversamento della materia creativa che affonda fin nelle radici della propria storia, nei territori mentali del ricordo, nel nome del santo di Paola.
S. Francesco da Paola per Marra non è soltanto il più alto esempio di moralità e giustizia, ma è l'uomo stesso colto nella sua solitudine, nella sua fragilità esistenziale, nell’angoscia del proprio cammino quotidiano; Francesco, come con tenera intimità lo chiama l’artista, è, in questo, metafora dell’uomo contemporaneo.
Le opere di questa serie, nella loro pesante e incombente corporeità, riempiono la coscienza, pesano sulla vita morale e la condizionano; d’altronde, Marra non separa mai la spiritualità dalla materia. L’opera è gravità di materia in cui si scioglie il grumo impuro dell’esistenza; in cui il dolore e la sofferenza umana si sublimano nella contemplazione di S. Francesco, nella sua solitudine che è ponte spirituale necessario, indispensabile tra l’uomo e il mistero della fede, tra l’artista e il mistero dell’opera.



A.S.P., 1989, 150x130 cm, tm su legno


La serie A.S.P. è l’equivalente artistico di un «cantiere aperto», un ponte tra le due regioni (quello mai nato tra la Calabria e la Sicilia, fonte di speculazioni e sperperi), un collegamento concettuale realizzato attraverso parole, colore, oggetti, reperti fotografici. Un susseguirsi di appunti, di scritte, di immagini che segnano gli Involucri-pacchetti A.S.P. trasformandoli in altrettanti racconti-denuncia; in essi, metaforicamente, è racchiuso l’urlo dei più deboli, imbrigliata la forza del loro agire morale. Sono opere simboliche delle derive del potere in tutte le sue forme: ‘gabbie’ in cui si spegne il pensiero libero, di per sé rivoluzionario, asservito ai giochi sordidi di chi governa i destini del popolo.
Nei successivi anni dal ’89 al ’94 nascono i Pacchetti, realizzati con pagine pubblicitarie di quotidiani e manifesti pubblicitari su cui l’artista interviene con cancellature affidate all’immediatezza del gesto pittorico, lasciando intravedere di essi solo alcuni spazi e caratteri grafici funzionali al messaggio poetico-emozionale che, di fatto, demistifica il potere subliminale del messaggio pubblicitario, le sue potenzialità persuasive. I Pacchetti hanno un volume, un aggetto del supporto. In questo costituiscono il preludio alle volumetrie, che saranno una costante del lavoro di Marra.



Pancia ferita, 1990, 36x31x8 cm,  tm su tela


Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 la produzione di Marra si arricchisce di nuovi lavori in cui è ancora protagonista la materia; una materia inquieta, tormentata che assomma in sé l’angoscia, la tragicità del vivere, le ansie, le sofferte decisioni della vita morale. Sono le opere della serie Pance ferite in cui la materia è pulsazione visibile, energia organica compressa che provoca l’aggetto del supporto, il suo rigonfiamento, spingendo fino al limite estremo di resistenza il tessuto formale dell’opera, tendendolo fino alla sua lacerazione. La pancia racconta l’epica del corpo; è il centro della vita fisica di cui regola i ritmi della corporeità, è densità magmatica, in continuo sommovimento; essa è per Marra il centro del mondo, di cui si può avere conoscenza solo facendo esplodere la sua volumetria affinché da essa fuoriescano tutto il marcio di cui è piena, tutte le negatività, tutto il malessere accumulati dall’essere umano.
Nella sua corporeità di materia, la ‘pancia ferita’ è carne viva che sconvolge la coscienza. L’artista, da sensibile medicante, si prende cura delle lacerazioni, amorevolmente le cuce, invocando la cicatrizzazione della pelle sofferta, squarciata dalle ferite, percorrendo il corpo dell’opera con un colore gravido di sofferenza in cui vibra comunque la speranza della luce. Quella speranza della luce attraverso cui sublimare le umane sofferenze, attraverso cui liberarsi delle ‘zavorre-pance’, dall’opprimente peso della corporeità (io stesso leggero, svuotato dal putridume viscerale – scrive Marra). E la materia febbrile, sensibile, leggera delle opere Code comete è il mezzo che permette all’artista di librarsi in  volo negli spazi tersi e sereni dell’anima, verso i cieli della pulizia morale.



Veduta della mostra


Già nel 1992, dal nero antracite del riquadro-cornice (frammento essenziale dell’opera), dalla sua densa fisicità, dai suoi flebili chiarori metallici, emergono le volumetrie, morbide e sinuose, delle Dune d’oriente; esse vibrano di echi profondi, di accordi che si smorzano nella tensione di vigorose geometrie. Le volumetrie delle Dune d’oriente attenuano il pesante incombere della materia e il loro morbido gioco di rientranze e sporgenze non dà più forma all’angoscia, non cela la cruda verità d’evento della realtà esistenziale, ma rivela le calde vibrazioni cromatiche dei deserti d’oriente, forme bizzarre simili a «tappeti-aquiloni» (come le definisce l’artista), superfici pittoriche che conciliano il volo e l’allontanamento dal caos della civiltà occidentale.
«Il materiale ora è tela con l’aggiunta di corde tese. Il ritmo è geometrico. I tiranti sono il lungo ombelico che tiene l’aquilone legato alla terra (forse è un mio bisogno). La penitenza non è mai troppa per sognare il cielo e la sua purezza» [3].
Nello stesso periodo Marra realizza Linee di tensione, lavori d’assemblaggio polimaterico molto grafici ed essenziali, opere apparentemente fragili, con cui ritorna a essere marinaio di navi per viaggiare. Con esse sperimenta la tensione di giochi geometrici leggeri e felici, propiziatori di verità che gli permettono di tendere le vele al vento dell’infinito.

Le volumetrie delle Dune d’oriente sono distese materiche che, definendo un universo di modulazioni formali, si aprono, quasi naturalmente, ai valori luminosi del bianco. E, infatti, già dal 1994 nascono i Bianchi miraggi in cui la materia, animata da una ricca vita inferiore, cresce, si muove, spinge avanti il corpo dell’opera: è la pelle del cielo che si apre e si offre alle infinite variazioni dell’orizzonte temporale dell’uomo, alla spazialità della sua esistenza. La materia di Marra è carne sensibile, è corpo, ma è anche dimensione in cui giungono a soluzione le ansie, le sofferte decisioni della vita morale, in cui si scrive la storia, ora sublime ora impastata di terra, d’una esperienza umana, quella dell’artista stesso.
«Cosa cercavo? – si interroga Marra – Cercavo la leggerezza mentale e una leggerezza interiore del corpo con le viscere svuotate dalle complicazioni del quotidiano. Cercavo lo svuotamento e la purificazione di tutto me stesso, per guardare da un punto di vista aereo. Dall’alto verso il basso con una prospettiva che allontanasse e allargasse di molto l’orizzonte in una luce di miraggio creativo (…)» [4].

E ancora, in alcune riflessioni dense di vibrazioni poetiche, scrive: «Nei Bianchi miraggi, geometrie dolci fanno pensare a giardini prediletti dove la meditazione diviene preghiera tra l’uomo e il sacro. I giardini sono spazi carichi di viaggi dell’anima e della coscienza. La pianta medita la vita nel seme, nella nascita, nei battiti, fino alla naturalezza della sua fine. Se avessimo la saggezza della vecchiaia e posassimo le orecchie sull’erba che cresce, sentiremmo il suo alito di vita» [5].
Bianchi sono i cieli accecanti di luce della sua terra; bianchi i pesanti sudari che a capelli sciolti nel dolore, alle donne del suo Sud, celano la morte; bianchi i vortici di   memoria che si ripetono negli occhi socchiusi  abbacinati dal sole. Sotto le palpebre giovanili, scorrono, velocemente, festuche accese di colori e il bianco della luce si ricompone, in un sovrapporsi di istanti magici. E così, il bianco è mistero, è miraggio, è abbaglio magico, è purezza della visione che si rivela alle estensioni profonde dell’essere, ma è, soprattutto, momento sorgivo di future declinazioni creative.



Campi di cosmos, 2006, 100x120x12 cm, tm su iuta


Al corpus di lavori Bianchi miraggi del ’94 rimandano le opere Campi di cosmos che, in una complementarietà di pensiero creativo e di valori cromatici, si alternano alle opere Portali silenti, del 2009.
Portali silenti sono pause di silenzi in cui il nero, denso e bituminoso, diventa spartito segnico, armonia di linee, scrittura che affiora tra i sedimenti pittorici, che attraversa il ripetersi di rilievi diventando forza creativa, sostanza poetica. In essi, Marra esplora le dense stratificazioni della materia, ne definisce risalti e increspature, ne misura l’intenso pulsare, ne attraversa la pesante oscurità fin nelle distese più riposte e profonde, per trarne sottili luminescenze, riverberi di luce.
«La lunga ricerca di Campi di cosmos, nell’accensione della monocromia del bianco, – spiega Marra – presenta cuciture, sbalzi di volumi, corde tese a sorreggere tele in tensione sovrapposte l’una sull’altra e a creare schemi di geometrie astratte» [6].
I bianchi sono comparsi e ricomparsi, in un continuum di assenze e ritorni, lungo il percorso evolutivo dell’artista, simili a condensati di energia creativa che premevano alle soglie della coscienza.



Miraggio cosmos, 2008, 70x60x6 cm, tm su tela


In effetti, il percorso evolutivo di Max Marra appare come una sorta di itinerario spirituale, un graduale cammino di purificazione dalle scorie del mondo, di ascesi dagli abissi della sofferenza umana verso l’orizzonte radioso del cielo, in un continuo interrogarsi sul senso più profondo dell’esistenza, sul destino ineluttabile dell’uomo. La vitalità, la forza espressiva dei suoi bianchi, da Campi di cosmos a Campi di Témenos, oggi traducono la feconda pienezza di un segno profetico che più volte si è annunciato, per manifestarsi, in tutta la potente bellezza del suo dire, nella corporeità visiva dell’opera, nel suo essere frammento di materia esistenziale.
Egli, sapiente e avventuroso argonauta di questo straordinario cosmo infinito, ne indaga l’aggregazione fisica, i processi di accumulo e sedimentazione, il principio strutturale, l’interna spinta tensiva. Con gesto tenero e deciso, quanto di delicata carezza, sfiora, disegna, incide le superfici, articola armonie di scritture, modula geometrie di segni, morbidi, senza spigoli, che raccontano del destino di purezza che li ha generati.
In un continuo risalire la sua biologia memoriale, la materia plasmata da Marra si rivela dimensione sacrale, organicamente fusa allo spirito. In essa si celebra la fecondazione creativa del segno, l’incubazione e la nascita stessa del bianco che avvicina lo spirito alla dimensione divina, ai misteri del cosmo, a quei cieli bianchi in cui si nutre la speranza, in cui si celebra il valore salvifico dell’arte, in cui l’opera è estensione di eterea leggerezza esistenziale, di elevazione dall’opprimente gravità del vivere.



Notturno cosmos, 2009, 90x100x15 cm, tm su iuta


In questa dimensione di serenità esistenziale, di volo mentale nei «cieli di cosmos», liberi e assoluti, Marra ripercorre cammini già attraversati in un continuo viaggio rigenerativo alle sorgenti della propria storia creativa. Con la serie delle Timbriche, infatti, riprende una ricerca del 1989, vivificandola di nuova linfa, di nuova sostanziale pienezza, di variazioni strutturali essenziali e libere, di accadimenti segnici che ne determinano la singolare unicità e intensità poetica. Nella forza arcaica del gesto che pressa sulla carta un timbro, da lui stesso realizzato, Marra declina un nuovo tracciato artistico di forme e segni. La forma tondeggiante del timbro dai bordi scabri, imprime, segna e definisce spazi e vie per ulteriori interventi creativi. Dalle macchie irregolari che si aprono ai cieli bianchi delle superfici, sospese tra visione immaginifica e memoria, partono filamenti segnici che si dipanano in sempre nuovi giochi compositivi, quasi divertissement, che sviluppano fluidi andamenti curvilinei, evoluzioni di estrema levità e raffinatezza, altrettanti trepidi grovigli di emozioni, incogniti ideogrammi che raccontano di misteriosi mondi interiori. Oltre alle Timbriche, impreziosiscono la recente produzione di Marra, altri bianchi, altri Cieli, Tracce di cosmos in cui la materia inquieta smorza le sue asperità in ulteriori modulazioni, in impalpabili sentieri di luce, in un viaggio esplorativo non più oppresso dalla temporalità delle cose, dalla loro ansiosa fisicità. Sono opere in cui sottili e resistenti frammenti di arbusti assecondano il gesto plastico dell’artista; si flettono cedevoli, simili a corde tese, segnano la corporeità della tela bianca, in una continua filiazione di valori formali, in cui le volumetrie sono poco più che tenui dislivelli, corrugamenti cutanei, leggeri movimenti di sporgenze e rientranze che generano delicate definizioni di spessori. Anche le cuciture, che un tempo suturavano la pelle ferita dell’opera, ora sono segni di un vasto repertorio con cui l’artista costruisce equilibri compositivi, con cui dispiega pensieri, descrive paesaggi dell’anima. Ogni opera è una preziosa partitura di motivi ritmici, musicali, di valori poetici che si incorporano di materia, che diventano essi stessi materia, sublimata nella liricità profonda di un canto.
La materia di Marra è, ora più che mai, candida distesa da cui affiorano e si propagano portati d’energia luminosa, in cui vibrano mutevoli tessiture di bianco, luoghi di intensa spiritualità che l’artista, poeticamente, definisce: «spartiti dell’anima, pause di preghiera, aliti di umana speranza di fronte alla porta del cielo, Portale Bianco da attraversare» [7].

   
 


Corpo cosmos, 2017, 80x60x9 cm, tm su iuta




Veduta della mostra




Veduta della mostra




Veduta della mostra



   

Teodolinda Coltellaro
(n. 7-8, luglio-agosto 2021, anno XI)





NOTE

1. L. BIANCO, Le pance orfane di Max Marra ovvero “dune d’oriente”, testo critico pubblicato su “Images Art Life”, Lug. Ago. Sett.  1993.
2. Dagli appunti di Max Marra.
3. Ibidem.
4. Ibidem.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. Ibidem.