Il romanzo di una vita: «Poveri corpi» di Sonia Larian La scrittrice Sonia Larian (pseudonimo di Ariane Leibovici-Lewenstein) «è andata a morire un po’» (direbbe Marin Sorescu) il 23 gennaio 2016 a Parigi. Era nata nel 1931, a Bucarest. Laureatasi alla facoltà di Lettere dell’Università, dopo aver debuttato nella stampa in 1947, fece il suo esordio editoriale nel 1952 con dei racconti per ragazzi (alcuni tradotti in tedesco, serbo, russo e lituano), l’unico modo che trovò per pubblicare senza dover sottostare ai compromessi ideologici. I suoi quattro titoli più notevoli del genere sono: Cutia de sticlă (Editura Tineretului, 1957), Șmecherul în Paradis (Ed. Tineretului, 1957), Povestiri extraordinare la grădiniță și la școală (Ed. Tineretului, 1961) e Continentul colorat (Ed. Tineretului, 1964). Il suo primo «vero» romanzo, cioè Biblioteca fantastică (Cartea Românească, 1976; Litera, 1994), ricevette il premio dell’Unione degli Scrittori di Romania. Però il suo capolavoro rimane il secondo romanzo, Bietele corpuri (Cartea Românească, 1986; Polirom, 2004). Poveri corpi Un sogno Una tale andava da tante Lucy. Oppure: aveva l’opportunità di incontrarla. (Lei trovandosi sempre Laggiù, là dove sapevamo, comunque da qualche parte in un altro luogo; ma forse non proprio così lontano, come si pensava o come sapevamo; ed ecco che in quel momento riuscivo in qualche modo a ristabilire il contatto con lei, potevo in qualche modo comunicare di nuovo con lei.) Trasmettevo attraverso quella persona (una donna che conosco da molto tempo, fin dalla mia giovinezza, e che, in quel sogno, aveva riacquistato l’aspetto di quando aveva vent’anni, molto più fragile, più esile), trasmettevo dunque attraverso quella ragazza fragile di tanto tempo fa (oggi sparita, ormai inesistente nella realtà, cioè una specie di ombra, pure lei), trasmettevo questo a tante Lucy: dille così..., e poi dille così..., parlale: di Monco il cane. (Dando a quelle parole: di Monco il cane, il senso o l’intonazione di: lei saprà..., capirà subito!, e insistendo nel dirglielo, per sottintesi, era esattamente ciò che io volevo trasmetterle, il senso di: voglio che io e lei parliamo di Monco il cane, che lo rievochiamo: che ce lo ricordiamo insieme, noi due, avremmo tante cose da raccontarci...; e poi, in una sorta di prolungamento, ugualmente sottinteso: vorrei tanto – qualora ci siano ancora, qualora continuino a esistere dei desideri, ciò che quel sogno stesso, svoltosi sotto una luce un po’ indifferente, in un registro quasi impercettibile, quieto, sembrava mettere assai in dubbio –, ci terrei senz’altro, mi piacerebbe, anzi, più di tutto mi piacerebbe, mi starebbe a cuore chiacchierare proprio con lei, espressamente con lei, di Monco il cane). – Monco, con una n? mi chiedeva, grave, seria, la suddetta Persona (l’ombra dei suoi vent’anni, quella fragile ragazza di tanto tempo fa). – Monco, con una n? (Voleva dire: con una n in mezzo, dopo la o e prima della c? – e io sapevo che era esattamente questo che intendeva domandarmi). Davanti a me c’era un foglio, su cui erano scarabocchiate alcune parole, buttate giù alla rinfusa, senza un ordine a caso, senza capo né coda, sparse ai quattro venti – su un foglio del resto assai spoglio –, e io continuavo a rigirare quel pezzo di carta, cercando da qualche parte una n da mostrarle; una n inserita in qualche parola: come se non ci fosse stato un altro modo, o di cui io forse non mi avvedevo, per indicare, per mostrare, per designare a quella persona la lettera n. E poi di colpo un mucchio di fogli, una pila enorme di fogli scritti – eppure su nessuno di quei fogli, in tutta quella massa di parole, riuscivo a trovare una n da mostrarle, o non riuscivo a trovarne una acconcia, il che in qualche modo era peggio ancora; più doloroso ancora; c’era, c’era stata, se non andavo errata, all’inizio, proprio all’inizio e sul primissimo foglio, quello che sembrava il più spoglio di tutti, ci era comparsa sopra, a un certo punto, una specie di n ma una di aspetto assai sgradevole: terribilmente incerta, confusa; contorta, deforme; non avrei potuto definirla come una n; non era nemmeno una n nel vero senso della parola, una n plausibile, una n credibile (anche se era, nelle sue intenzioni, proprio quella lettera così incerta e deforme, così striminzita; ma finii per smarrire anche quella; e altre n, con cui sostituirla, non ne vedevo da nessunissima parte, non se ne trovavano più.) – Con una n di narice, mi sembrava di averle detto all’inizio, proprio all’inizio, ancor prima di mettermi a cercarla. Eppure non riuscivo a trovare quella n, per mostrargliela. Doloroso pareva soprattutto, nel sogno, quel tremendo contrasto: tra la rapidità con la quale sapevo, ero persuasa che si sarebbe potuto trasmettere il mio messaggio (lei, tante Lucy, avrebbe capito immediatamente tutto ciò che io volevo trasmetterle attraverso le suddette parole su Monco il cane: cioè che noi due parlassimo a quattr’occhi del suo ex cane Monco, del suo ex cane adorato che in seguito era diventato mio – lei avrebbe capito in un millesimo di secondo il mero significato di quelle parole) e la difficoltà di ordine tecnico, insormontabile, che all’improvviso dovevo affrontare, contro cui tuttavia andavo a scontrami: di non trovare una sola n acconcia, una che fosse chiara e vera, per mostrarla alla mia messaggera (come se tutto, assolutamente tutto, fosse dipeso da ciò); o magari non ne ero io in grado: ero io incapace di trovarla.
Testo di Sonia Larian
Presentazione e traduzione a cura di di Anca-Domnica Ilea (n. 3, marzo 2016, anno VI) |