Leonardo Sciascia e le favole del Potere

Come annunciavo nel numero precedente a proposito della nuova rubrica, io mi propongo di riportare all’attenzione dei lettori romeni, ma anche di quelli italiani, in più numeri successivi di questa rivista, lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia (1921-1989), coscienza civile viva dell’Italia nella seconda metà del Novecento. Più precisamente mi propongo di rimettere in discussione opere e aspetti meno noti della sua creazione letteraria, soprattutto quelli che mi sembrano di una scottante attualità. Oggi vorrei tornare agli esordi letterari di questo scrittore, poco conosciuti anche in Italia.

La prima opera di Sciascia, Favole della dittatura, appare nel 1950, dunque a breve distanza dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, devastante anche per l’Italia, e dalla fine della dittatura fascista. E un piccolo volume che comprende ventisette brevi favole in prosa, ispirate a Esopo, a Fedro, agli Animali parlanti dell’abate Giambattista Casti e alle storielle allegoriche e satiriche del volume Esopo moderno di Pietro Pancrazi, giornalista e scrittore talentato del periodo interbellico. Il volume si apre con due epigrafi che rinviano non ai modelli letterari del genere, ma a due realtà vicine e recenti: una citazione dalla Fattoria degli animali di George Orwell che suggerisce la ferocia grottesca del regime stalinista, e una frase di Leo Longanesi che si riferisce alla boria ridicola del regime fascista. Le favole, brevi scenette allegoriche, mettono in evidenza la sostanziale somiglianza fra i due regimi totalitari, la loro inesausta arroganza, il trionfalismo, la menzogna, il trasformismo e il servilismo, la fuga da ogni responsabilità e l’adulazione da parte degli intellettuali. I modelli letterari ispiratori appaiono molte volte in modo esplicito dando vita a un gioco intertestuale in cui la variante sciasciana si costruisce come assunzione e, allo stesso tempo, rovesciamento o critica del modello. Emblematica è la prima favola che cita esplicitamente quella di Fedro del lupo e dell’agnello. In Fedro il lupo, desiderando di mangiare l’agnello, tenta di giustificarsi moralmente accusandolo di varie colpe immaginarie e quando l’agnello dimostra la loro infondatezza, il lupo dichiara che lui ha comunque fame e lo mangerà lo stesso. Ecco la versione di Sciascia che esordisce con l’incipit della favola latina:

«Superior stabat lupus: e l’agnello lo vide nello specchio torbo dell’acqua. Lasciò di bere, e stette a fissare tremante quella terribile immagine specchiata. “Questa volta non ho tempo da perdere”, disse il lupo. “Ed ho contro di te un argomento ben più valido dell’antico: so quel che pensi di me, e non provarti a negarlo.” E d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo».   

La nuova favola si presenta come una cupa continuazione di quella antica, perché il lupo di Sciascia conosce le argomentazioni con cui nella favola di un tempo l’agnello ha cercato di scampare il pericolo e sa anche, proprio come allora, che le giustificazioni e le teorie sono una perdita di tempo, quando quello che detiene il potere intende esercitarlo. Il lupo e l’agnello sanno che il gioco ha una sola regola, cioè che le regole le fa e le cambia il più forte a suo piacimento. La morale delle favole di Sciascia è contenuta tutta in questa fretta del lupo: l’umanità è già fin da ora il luogo dove si può essere soltanto o lupo o agnello, dove – come direbbe l’Adelchi di Manzoni – non resta che fare il torto o patirlo, il luogo che non ammette né speranza né utopia. Questa è, in effetti, la prospettiva che rivelano le favole di Sciascia, cioè la convinzione oscura che il potere può fare a meno delle ragioni e persino della ragione (idea che, come ho mostrato nel numero precedente di questa rivista, diventa esplicita nel romanzo Il Contesto). Di più, l’esercizio del potere è tanto più inebriante e affascinante proprio quando si allontana dalla ragione, come nella favola del cane e del coniglio:

«C’era luna grande; e il cane dell’ortolano e il coniglio, divisi dal filo spinato, quietamente parlamentarono. Disse il coniglio: “Gli ortaggi tu non li mangi; il padrone ti tratta a crusca e calci. La notte potresti serenamente dormire, lasciarmi un po’ in pace tra le verdure e i meloni. Che tu mi faccia paura, non vuol dire che la tua sia migliore condizione della mia. Dovremmo riconoscerci fratelli”. E il cane lo ascoltava, pigramente disteso, e il muso sulle zampe. E poi: “Quello che tu dici è vero; ma per me non c’è niente che valga il gusto di farti paura”».

Il critico Gianni Scalia osserva che, al pari di Fedro, Sciascia sta dalla parte dei vinti (e a Fedro, dico io, si potrebbero aggiungere Manzoni, Verga o, per restare più vicino, tutta la generazione dei neorealisti), ma che, a differenza di Fedro, elimina la morale dalla conclusione e con essa la sua antifrasi liberatrice senza lasciare alle vittime nessuna speranza, neppure quella di una lezione per il futuro: lo schermo favolistico non protegge e non si apre verso un futuro, ma si chiude come una conchiglia e reca in sè la realtà come una fatalità immanente e senza speranza. Ma leggiamo quest’altra:

«Da anni il cane, quando pieno di noia si acculava ai piedi del padrone, amava la fresca sensazione che le scarpe gli davano: il padrone usando sempre una buona vernice alla trementina. Così, lentamente, il pensiero dei calci ricevuti e da ricevere, si fuse in quell’odore gradevole, acquistò una certa voluttà. La pedata fu soltanto un odore.
Ma un giorno il padrone usò altra vernice, di un odore più torbido, come di petrolio e di sego. Da allora le pedate riempirono il cane di disgusto».

Riconosco che in questi nostri giorni le mie scelte dai testi sciasciani non sono innocenti e che spero che il lettore vada al di là del piacere letterario offerto dalle citazioni. Ma non posso ignorare tuttavia l’osservazione fatta in una recensione a questo piccolo volume – di un autore allora ancora sconosciuto – da Pier Paolo Pasolini sulla limpidezza cristallina dello stile di Sciascia. Con la sua eccezionale sensibilità linguistica, Pasolini è il primo ad attirare l’attenzione su un fenomeno che, per gli altri, diverrà evidente molto più tardi, cioè che in Sciascia lo stile si costituisce come la sola forma possibile di ottimismo e di redenzione dalla cupezza del pensiero, come la sola speranza di fare ordine in un mondo mal ordinato.




Smaranda Bratu Elian
(marzo 2017, anno VII)