Quel potere sotterraneo che nega la democrazia. Rileggere Sciascia Dopo 22 interviste con insigni personalità italiane e romene, pubblicate in questa rivista, è venuto il momento di proporre qualcosa di nuovo, pur senza rinunciare del tutto alle interviste: una rubrica nella quale – con la collaborazione di tutti i colleghi italiani e italianisti, che qui invitiamo a partecipare – riportare alla memoria collettiva testi e autori da non dimenticare. Inizierò con Leonardo Sciascia (1921-1989) cui intendo consacrare la prima serie di articoli. Perché Sciascia? Perché lo conosco bene e perciò spero di presentarlo correttamente; perché gli ho dedicato una monografia pubblicata sia in Romania sia in Italia, insignita dell’importante premio letterario Ennio Flaiano, che speravo destasse l’interesse degli editori romeni per questo scrittore e, dato che questo non è avvenuto, lo ripropongo qui e ora. «Ho scritto questa parodia [...] partendo da un fatto di cronaca […]. Un divertimento. Ma mi andò per altro verso: ché ad un certo punto la storia cominciò a muoversi in un paese del tutto immaginario; un paese dove non avevano più corso le idee, dove i principî – ancora proclamati e conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava. Un paese immaginario, ripeto. E si può anche pensare all’Italia, si può anche pensare alla Sicilia; ma nel senso del mio amico Guttuso quando dice: “Anche se dipingo una mela, c’è la Sicilia”. La luce. Il colore. E il verme che da dentro se la mangia? Ecco, il verme, in questa mia parodia, è tutto d’immaginazione. Possono essere siciliani e italiani la luce, il colore (ma ce n’è poi?), gli accidenti, i dettagli; ma la sostanza (se c’è) vuole essere quella di un apologo sul potere nel mondo, sul potere che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa». Ecco la trama: in uno stato e in un tempo immaginari, viene assassinato prima un procuratore, poi, uno dopo l’altro, una lunga serie di giudici con cariche sempre più alte. Le indagini sono condotte dall’ispettore di polizia Rogas, il protagonista del romanzo, che, pur avendo un gran numero di qualità di investigatore, è caratterizzato fin dall’inizio dall’autore con un singolo tratto: «aveva dei principi, in un paese in cui quasi nessuno ne aveva». Analizzando, con la meticolosità e l’intelligenza di Hercule Poirot, gli affari loschi e complicati delle vittime, Rogas riesce a ricostruire la complessa rete di interessi e relazioni finanziarie, politiche, giuridiche e mediatiche che unisce tutti quelli che si trovano al potere, scoprendo, in altre parole, di avere a che fare con una sorta di mafia. D’altra parte intuisce, con il fiuto di un Maigret, che l’assassino deve essere una persona sola che non agisce all’interno dei meccanismi di potere. Tutti gli indizi, infatti, lo conducono allo psicopatico Cres che, condannato anni prima ingiustamente, ha perso fiducia nella giustizia della società e, perciò, se la amministra da solo, uccidendo, uno dopo l’altro, i giudici; Cres conduce quindi una guerra personale contro la magistratura, cioè contro uno dei poteri dello stato. Nel romanzo, dunque, l’indagine di Rogas si divide ben presto in due direzioni che sembrano non intersecarsi: una all’interno delle strutture del potere, l’altra nei meandri della mente dello psicopatico. Questo finché le rivelazioni graduali della prima gli confermano che i misfatti e i delitti non sono un’eccezione, ma sono perpetrati anche da chi fa e rappresenta la legge. È naturale perciò che, man mano che entrambe le indagini progrediscono, Rogas inizi sempre più a capire l’assassino e a dargli ragione: cioè che, di fatto, dovrebbe difendere lo stato proprio da chi lo rappresenta: «In pratica, si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, che lo detenevano. Lo Stato detenuto. E bisognava liberarlo». «– Pazzesco sì – disse il ministro. – Ma io, caro ispettore, appunto giuoco su queste loro pazzesche reazioni. Ci sto in mezzo alternando la protezione alla minaccia.Più credono alla minaccia e più io alzo il prezzo della protezione. Perché gruppi come quelli di Galano e di Narco, e specialmente quello di Narco, di cattolici rivoluzionari, a me fanno comodo. Mi fanno comodo quasi quanto la catena dell’Onesto Consumo, che come lei sa è cosa di Narco. Per dirla brutalmente: consumo (è la parola che fa al caso) l’uovo di oggi e la gallina di domani, stando con loro. L’uovo del potere e la gallina della rivoluzione…Voi sapete qual’è la situazione politica; della politica, per così dire, istituzionalizzata. Si può condensare in una battuta: il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale; e specialmente se su quella poltrona – indicò la sua dietro la scrivania – venisse ad accomodarsi il signor Amar. Ora la visione del signor Amar che da quella poltrona fa sparare sugli operai in sciopero, sui contadini che chiedono acqua, sugli studenti che chiedono di non studiare: come il mio predecessore buonanima, e anzi meglio; questa visione, debbo confessarlo, seduce anche me. Ma oggi come oggi è un sogno. Il signor Amar non è un imbecille: sa benissimo che io su quella poltrona ci sto meglio di lui; e ci sto meglio nel senso che tutti stanno meglio mentre ci sto io, il signor Amar compreso». Voglio dire che, anche se a mo' di parodia, Il contesto presenta la fenomenologia di una società dominata da un potere sotterraneo che è la negazione puntuale del sistema democratico. E se gli italiani considerassero tale visione obsoleta, buon per loro! Io li consiglierei tuttavia di leggere il romanzo per deliziarsi di questa obsolescenza, che per altri obsolescenza non è.
Smaranda Bratu Elian |