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Anteprima alla traduzione romena delle
Due lezioni di Galileo sull’Inferno di Dante
Quest'anno, quando ovunque si commemora il settimo centenario della morte del padre della letteratura italiana, Dante Alighieri, la casa editrice Humanitas si prepara a pubblicare per la prima volta in romeno il piccolo ma significativo testo galileiano, contenuto nel volume IX dell'Edizione Nazionale delle opere del grande scienziato, intitolato Due lezioni all'Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante. L’edizione, tradotta da chi scrive, è accompagnata da immagini e dalla prefazione di un eccezionale interprete di Dante e insigne conoscitore di Galileo, Horia Roman Patapievici. Galileo propone, possiamo dire, in queste lezioni un approccio fantascientifico a rovescio: perché, se la fantascienza parte da presupposti scientifici certi che poi sviluppa oltre i limiti della scienza (odierna) in un universo immaginario, in Galileo le cose accadono esattamente al contrario: partendo dalla finzione dantesca, egli cerca di istituire un universo scientificamente possibile. Ma prima di riferirci alla dimostrazione di Galileo è bene sapere che le sue lezioni dantesche rimasero sconosciute nella Biblioteca Rinucciniana di Firenze fino al 1855, quando furono finalmente pubblicate, e che non sono molto conosciute neanche oggi e neanche in Italia.
Nel 1587-88, quando fu chiamato dall'Accademia Fiorentina per tenere le due lezioni, Galileo aveva solo 24 anni. Cosa intendeva l'illustre accademia con questa chiamata e perché scelse proprio questo giovanotto per raggiungere la sua meta?
Rispondiamo con ordine partendo dalla premessa che sta alla base dei fatti: cioè che Dante fonda i molteplici significati del suo poema sulla cosmologia e geografia del suo tempo, da lui perfettamente conosciute; in più, che alle sue sterminate conoscenze il Poeta aggiunge la sua eccezionale percezione e rappresentazione visiva, probabilmente senza pari nella letteratura mondiale. Ne deriva la particolare precisione delle sue descrizioni che in tutte le epoche hanno nutrito la passione di tanti illustratori della Divina Commedia, e nel Rinascimento anche l’aspirazione di rappresentare geometricamente l'unico regno, cioè l'Inferno, situato su, o più precisamente, dentro il pianeta che ci è familiare e che ogni epoca crede di conoscere: la Terra. La curiosità matematica suscitata dall'Inferno dantesco appare, sembra, sin dai primi commenti del poema (come nell’ Ottimo Commento del 1333-1334), però nel Rinascimento – quando si prefigura la nascita della scienza moderna – essa animò il grande architetto Filippo Brunelleschi, ammiratore di Dante, e ancor di più il suo discepolo, amico e biografo, Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497). Manetti, che frequentava i luminari dell'Umanesimo fiorentino e possedeva una buona formazione scientifico-matematica, si dedica al commento della Divina Commedia ma soprattutto allo studio e alla rappresentazione della geometria dell'Inferno. Questa sua rappresentazione apparve nel 1481 nell’introduzione al commento alla Divina Commedia del grande umanista fiorentino Cristoforo Landino, e nel 1506 come opuscolo autonomo accompagnato da immagini a cura del discepolo di Manetti Girolamo Benivieni, grande dantista pure lui. Il commento di Landino, considerato canonico per tutto il Cinquecento, e la rappresentazione matematica dell’Inferno di Manetti assicuravano da parecchi decenni, anche al tempo di Galileo, l'egemonia fiorentina sugli studi danteschi. Tuttavia, nel 1544 un nobile lucchese, Alessandro Vellutello (1473 - 1550), letterato, autore di apprezzati commenti critici, pubblica La Commedia di Dante Alighieri con la nuova esposizione di Alessandro Vellutello, che comprendeva un commento molto diverso da quello del Landino e una rappresentazione geometrica dell'Inferno dissimile da quella del Manetti. Nel suo volume Vellutello non solo contradiceva la visione manettiana sull'Inferno, ma la ironizzava pure, e con essa ironizzava anche l'Accademia Fiorentina, baluardo dell'egemonia culturale e linguistica fiorentina. Dopo parecchio tempo, cioè nel 1587, l’Accademia Fiorentina decide di ristabilire il proprio prestigio incrinato e chiama una persona di fiducia a dirimere la questione. La persona di fiducia è stata individuata nel giovane Galileo Galilei. Perché lui? Perché a quel tempo Galileo si era già distinto per i suoi studi sul pendolo e per l'invenzione della bilancia idrostatica, era conosciuto come valente matematico e inoltre era nobile e fiorentino.
Galileo è quindi chiamato a mettere a confronto le due rappresentazioni geometriche dell'Inferno, quella del Manetti e quella del Vellutello, e a dimostrare la superiorità della prima, cioè di quella fiorentina. Ed è proprio quello che Galileo fa. Non entreremo qui nella sostanza delle dimostrazioni geometriche galileiane, che, sebbene estremamente rigorose, sono chiaramente manipolate a favore di Manetti. Vogliamo solo vedere come si intravede in questo scritto giovanile il futuro grande progetto galileiano. Diamo un'occhiata a come inizia Galileo le sue lezioni sull'Inferno: prima confessa la sua fiducia nelle capacità e nella volontà umana di conoscere il mondo in un modo specifico : “per lunghe osservazioni, con vigilie continue, per perigliose navigazioni, misurare e determinare gl’intervalli de i cieli, i moti veloci e tardi e le loro proporzioni, le grandezze delle stelle, non meno delle vicine che delle lontane ancora, i siti della terra e de i mari”; poi delimita il suo approccio, che, essendo applicato a una finzione e non basato sull'esperienza e sull'osservazione diretta, non potrebbe essere veramente scientifico: poiché l'Inferno «il quale, sepolto nelle viscere della terra, nascoso a tutti i sensi, è da nessuno per niuna esperienza conosciuto». Ecco un’anticipazione del futuro metodo scientifico, che da sensate esperienze passa a necessarie dimostrazioni. Mancando l’esperienza diretta, le «necessarie dimostrazioni» si baseranno, annuncia Galileo, solo sulle parole del «corografo et architetto sublime» che fu Dante, cioè sulla conformità al testo dantesco. A queste anticipazioni del pensiero scientifico si aggiunge subito una terza in cui identifichiamo una delle coordinate del futuro grande progetto galileiano. Rivolgendosi direttamente ai suoi nobili ascoltatori, ecco cosa dice loro (non senza un pizzico di ironia): «non sia grave alle vostre purgate orecchie, assuefatte a sentir sempre risonar questo luogo di quelle scelte et ornate parole che la pura lingua toscana ne porge, perdonarci se tal ora si sentiranno offese da qualche voce o termine proprio dell’arte di cui ci serviremo, tratto dalla greca o da la latina lingua, poi che a così fare la materia di cui parleremo ci costringe». Si tratta del linguaggio, più precisamente di un linguaggio nuovo, quello della scienza, che almeno in Italia comincerà proprio con Galileo. In un secolo in cui la scienza si scrive in latino, Galileo considera fin da giovane che il volgare, che si può avvalere di termini specifici presi dalla scienza classica, merita di essere la lingua della nuova cultura, non solo perché la sua ricchezza offre il serbatoio da cui estrarre la nuova terminologia, non solo perché esso consente già la chiarezza e la precisione di cui la scienza ha bisogno, ma anche perché accessibile a tutti; è in volgare (non in quello forbito, manierista e barocco, ma in quello nobilmente semplice, chiaro, rigoroso) che deve parlare la nuova scienza. E Galileo offre sin da queste lezioni dantesche un campione della sua prosa successiva, precisa, diretta, terminologicamente innovativa; questa affermazione mostra quanto egli era già consapevole dell'importanza del linguaggio nella trasmissione della scienza. Perché il grande progetto galileiano comprenderà non solo scoperte e teorie scientifiche e a una metodologia capace di liberare la scienza dalla filosofia e dalla religione, ma anche la volontà di inserire la nuova scienza nella cultura del suo tempo: Galileo è convinto che la scienza deve appartenere a tutti, non solo a un’élite, perciò riterrà che la sua missione era anche quella di trasmetterla: in un linguaggio tanto specifico quanto accessibile; per questo scriverà tutte le sue opere importanti in italiano, non in latino; per questo, due secoli più tardi, il grande poeta e filologo Giacomo Leopardi considererà Galileo il miglior scrittore del Seicento.
Chiudiamo questa breve presentazione dichiarando ai nostri lettore perché, secondo noi, meritano di essere lette ancora, qui e adesso, le geometrie galileiane sull’Inferno dantesco: prima, perché, come già detto, sono una lezione di rigore e di stile; poi, perché rivelano una lettura sorprendente della Divina Commedia, dimostrando ancora una volta la poliedricità dei grandi capolavori letterari; anche perché esse ci fanno vedere come la scienza moderna germogli nella mente di uno dei suoi fondatori, Galileo Galilei; e, non da ultimo, perché esse ci insegnano che le scienze esatte e le discipline umanistiche, per tanti secoli intimamente intrecciate e nei più recenti infelicemente separate, dovrebbero ancora una volta darsi la mano per trasmettere le grandi conquiste scientifiche in una lingua accessibile a tutti noi, ripristinando così la fiducia nella scienza, di cui la nostra società – lo dimostra l’attuale pandemia – è tanto carente.
Smaranda Bratu Elian
(n. 10, ottobre 2021, anno XI)
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