I segreti di un successo editoriale: «Quel che affidiamo al vento» di Laura Imai Messina

«Questa storia è ispirata a un luogo che esiste realmente, a nord-est del Giappone, nella Prefettura di Iwate.
Un giorno, un uomo installò una cabina telefonica nel giardino della sua casa ai piedi di Kujira-yama, la Montagna della Balena, subito accanto alla città di Ōtsuchi, uno dei luoghi più colpiti dallo tsunami dell’11 marzo 2011.
All’interno è posato un vecchio telefono nero, non collegato, che trasporta le voci al vento.
Migliaia di persone vi se recano in pellegrinaggio ogni anno».

È l’epigrafe e insieme il segreto del successo del romanzo: perché si costruisce a partire da una realtà in sé stessa affascinante e poetica: l’esistenza di un «telefono del vento», così chiamato perché privo di connessione, al quale, in un posto isolato del Giappone, migliaia di persone vengono per illudersi di parlare con i cari defunti, in realtà affidando le proprie parole al vento.  Il tema del racconto è, genericamente parlando, la forza curativa dell’autoillusione nell’elaborazione del lutto. Ma tale autoillusione ha alcune caratteristiche essenziali e sconvolgenti, e ciò soprattutto perché appartengono alla realtà concreta non alla finzione romanzesca: il fatto di essere consapevole, mista di sentimento e di volontà, e creatrice di un’emozione liberatoria. La trovata di questa realtà è il colpo di genio della giovane autrice di questo libro che quest’anno sarà tradotta e pubblicata in venti lingue (e, a detta dell’autrice, si progetta già come film), fra cui anche in romeno (presso la casa editrice Humanitas di Bucarest). Sarà solo un fuoco d’artificio? Un successo effimero, come tanti nell’editoria globalizzata dei nostri giorni?  Forse, ma tanto vale cogliere il bello, il vero e l’umano della storia che si tesse intorno.

Ma chi è quest’autrice italiana innamorata del Giappone e applaudita, ora come ora, un po’ ovunque? Nata a Roma nel 1981, Laura Messina (sposata Imai) si è laureata in lettere all’Università La Sapienza. Il suo amore per il Giappone è progredito gradualmente: iniziato con il fascino per la grafica della scrittura giapponese, è proseguito con l’interesse e la curiosità per la lingua giapponese, poi, catalizzato dal trasferimento in Giappone, si è finalizzato con un nuovo percorso esistenziale: un dottorato presso la  Tokyo University of Foreign Studies, una carriera di docente di lingua italiana in alcune prestigiose università di Tokyo, un matrimonio con un giapponese, due figli  italo-giapponesi e una produzione letteraria in progress (in italiano sul Giappone) pubblicata, dal 2014 in poi, da importanti case editrici italiane. L’autrice dichiara di scrivere i propri libri nei caffè di Tokyo o sui treni con cui raggiunge le due località, di residenza e di lavoro, Kamakura e Tokyo. Intanto, già dal 2011 ha creato in italiano il blog «Giappone Mon Amour» e la relativa pagina facebook che, nel tempo, sono diventati, con i loro cento mila iscritti, un apprezzato ponte di comunicazione e di scambio culturale fra l’Italia e il Giappone.

Il suo primo romanzo, Tokyo Orizzontale (Piemme, 2014), la storia di quattro giovani che si intersecano a Tokyo in tre giornate che cambiano la loro vita, inaugura alcuni dei temi che sembrano diventare costanti nella sua creazione: la presenza determinante della metropoli giapponese, il tema dell’incontro fortuito che riplasma le esistenze, il finale speranzoso – perché, da come scrive, Laura Messina  sembra una persona equilibrata e speranzosa – un’altra chiave, secondo me, dei suoi successi. Poi, nel 2018 sono apparsi altri due volumi: per Piemme, il romanzo Non oso dire la gioia, e per Vallardi, il bestseller WA. La via giapponese all’armonia – un viaggio attraverso 72 parole giapponesi che simboleggiano e racchiudono in sé il fascino e l’essenza del Giappone. Per quest’estate, con un po’ di ritardo dovuto al coronavirus, è prevista la pubblicazione presso Einaudi anche di Tokyo, tutto l’anno, passeggiate letterarie per Tokyo, accompagnate dalle illustrazioni del noto maestro italiano Igort.

Come già detto, Quel che affidiamo al vento ruota intorno al telefono terapeutico; esso guarisce i personaggi che vi si incontrano e vi si rivelano nelle loro tragedie e nelle loro speranze. Protagonista è una donna, Yui, che ha perso la madre e la figlia di tre anni nello tsunami del 2011. Dopo questa tragedia avvenuta qualche anno prima sotto i suoi occhi, Yui è devastata e incapace di darsi una ragione di vivere. Lei continua a lavorare a una radio di Tokyo dove conduce una trasmissione interattiva; ed è proprio da uno degli ascoltatori che arriva a sapere del telefono del vento. Incredula, decide di vederlo con i propri occhi. Ne derivano i viaggi regolari a quel lontanissimo giardino sulla montagna, l’incontro con vari personaggi colpiti da vari lutti di cui veniamo a conoscere le storie e le reazioni, l’incontro con il medico Takeshi (che al telefono del vento racconta alla moglie morta di cancro, della figlia che, dopo la morte della madre, ha smesso di parlare) che lentamente diventerà suo amico, suo compagno, suo marito e, alla fine, il padre del suo nuovo bambino. La difficile guarigione di Yui è continuamente attraversata da visioni della tremenda esperienza dello tsunami e del post-tsunami, quella da sfollata fra sfollati disperati e dall’incombente presenza dell’assenza della bambina perduta. E contemporaneamente Yui lotta con contro sé stessa, per adattarsi alla nuova speranza di una nuova famiglia, di una nuova vita. Ma la speranza è accompagnata dalla paura, legata principalmente alla bambina di Takeshi che sarebbe diventata sua figliastra, ma anche all’idea delle nozze, e più genericamente, la paura di parlare al telefono del vento, ossia di credere all’accettazione del passato dopo aver cementificato dentro di sé la certezza della sua impossibilità. Eppure, come dicevo, l’happy-end è garantito. Un po’ troppo preparato, troppo prevedibile, troppo convenzionale. Benché sensibile alle sfumature psicologiche, l’andamento narrativo è tuttavia piuttosto scontato, ma tale difetto è controbilanciato sia dalle macchiette che costellano l’universo del telefono del vento con le loro storie, sia dalla suggestività e forza della descrizione di due cataclismi naturali: lo tsunami e il tifone contro cui lotta Yui per salvare la cabina telefonica. Sono questi dei tratti di una tale suggestività cinematografica che, prima di aver saputo della preparazione del film, mi chiedevo come mai non l’avesse già scovato qualche regista. E questa è un’altra chiave del successo del libro. Ma il fatto che questo successo sia internazionale si deve, secondo me, anche ad alcune altre caratteristiche: lo stile semplice e scorrevole; la struttura fatta di capitoli brevissimi, interrotti da piccoli inserti di svariati elenchi che frammentano in modo inaspettato il testo e vi aggiungono veridicità; i dialoghi frequenti e alla mano; la presenza bene dosata di peculiarità della vita giapponese, tali da dare una coloritura locale ed esotica alla storia; e, al contrario, l’universalità del tema (l’elaborazione del lutto) e della psicologia e del comportamento dei personaggi,  globalizzati in un mondo globalizzato. Breve, piacevole, di non difficile e di non inutile lettura, il romanzo dovrebbe avere successo anche in Romania.


Smaranda Bratu Elian
(n. 6, giugno 2020, anno X)