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Dal coronavirus alla «peste di Caragea» o che cosa ci insegna la letteratura
Ho osservato, in questi ultimi giorni, non senza una nascosta soddisfazione, sulla stampa italiana, sui blog accessibili alle scuole, in dichiarazioni di presidi e insegnanti, un frequente riferimento alle orrende epidemie di peste del passato così come esse ci sono state trasmesse da due grandissimi scrittori: Boccaccio e Manzoni. Gli autori di tali riferimenti ne derivavano conclusioni piuttosto divergenti sull’attuale pandemia: chi suggeriva che l’umanità sarà, forse, cambiata nella tecnica ma non nell’etica, cioè che è rimasta ugualmente irresponsabile, indisciplinata, indifferente e tutto sommato cattiva; chi invece, più speranzoso, suggeriva che quell’immagine del passato potesse aiutare il presente a essere più responsabile e a comportarsi meglio. La mia soddisfazione derivava non solo dal mio desiderio professionale di avvicinare i giovani di oggi alla letteratura dei grandi classici, cui i detti riferimenti venivano in aiuto, ma soprattutto al fatto che i loro autori, per avere un vero impatto sui lettori, non avevano riproposto documenti storiografici, bensì testi letterari, in altre parole loro guardavano alla letteratura non in quanto materia scolastica, ma in quanto tesoro documentario e sapienziale dell’umanità. Questa prospettiva ottimista, nonché le conclusioni divergenti dei vari interventi suaccennati, mi hanno suggerito di presentare ai lettori italiani della nostra rivista un episodio romeno uguale a quello boccacciano e manzoniano, probabilmente poco conosciuto all’estero, episodio desunto da un altro testo letterario esemplare: «la peste di Caragea» nell’epistolario di Ion Ghica.
Ion Ghica
Ion Ghica (1816-1897), personalità poliedrica dell’Ottocento romeno (economista, ingegnere, professore, massone, agente segreto, bey di Samos; prima dell’Unità dei Principati Romeni rivoluzionario, e poi, diplomatico, più volte ministro e presidente dell’Accademia Romena) ma soprattutto grande intellettuale e fine osservatore della società, in quanto scrittore ha lasciato alla cultura romena un unico capolavoro: Lettere a Vasile Alexandri. Si tratta di un celebre epistolario definito da quel critico geniale che è stato George Călinescu «il nostro museo Carnavalet, organizzato da un bravo artista» o, per essere più espliciti, l’affresco più autentico e vivace della storia e della vita romena di buona parte del nostro Ottocento, ricavato da un’eccezionale collezione di vivaci campioni. Fra cui, appunto, «la peste di Caragea».
Si tratta della peste che colpì la Valacchia per quasi tre anni a cominciare dal 1813, la più violenta e devastante mai affacciatasi da queste parti e uno degli eventi più brutti della storia romena. L’epicentro è stata proprio la capitale, Bucarest, che in quell’occasione si vide decimata di circa 70.000 abitanti (secondo i documenti dell’epoca), ossia metà della sua popolazione. Il nome con cui è rimasta nella storia è dovuto non solo al fatto che l’epidemia è scoppiata all’indomani dell’arrivo da Costantinopoli del nuovo principe fanariota, Ioan Gheorghe Caragea, che così cominciava il suo breve regno valacco, ma anche alla generale ipotesi che il paziente zero (nella terminologia di questi giorni) fosse proprio un accompagnatore del principe. Eccetto l’isteria degli untori, l’andamento del contagio (all’inizio non preso in considerazione, poi scatenatosi in un totale sconvolgimento sociale, sanitario ed esistenziale), nonché le misure delle autorità (deboli all’inizio, poi più strutturate, tramite provvedimenti, lazzaretti, ospedali, proibizioni e restrizioni di vario tipo, ma sempre ritardatarie e inferiori alle necessità del contagio) sono incredibilmente simili a quelli della grande peste del Seicento descritta mirabilmente da Manzoni. Prima di riportare, come esempio, un brano di Ion Ghica vorrei fare alcune osservazioni suggerite dalle similitudini fra le pesti descritte nella letteratura e da essa eternate, che forse potrebbero interessare la nostra situazione attuale: la prima, che da tutte risulta che le rispettive epidemie sono durate più di quanto si pronosticava dalla popolazione e dalle autorità; poi, che sempre le misure adottate sono state inferiori e tardive rispetto all’andamento del contagio; che tutte a un certo momento sono finite non tanto per gli sforzi umani di arginarle ma per un loro misterioso andamento naturale; che tutte hanno esacerbato tanto il lato buio quanto quello luminoso della natura umana, come una lente di ingrandimento; che tutte hanno risuscitato un’interpretazione religiosa del fenomeno con il conseguente ammonimento apocalittico; e che il dopo-epidemia è stata una seconda lente di ingrandimento, non tanto della natura umana, quanto della natura della rispettiva società.
Il brano di Ion Ghica che voglio riportare si riferisce al fenomeno dei ciocli, ossiaquei personaggi loschi, in maggior parte già scampati alla malattia, incaricati dal comune oppure volontari, che passavano ogni giorno per le strade per raccogliere i morti dalle varie case – insomma, in tutto e per tutto i monatti di Manzoni. E proprio per questa similitudine tradurrò il termine romeno con quello manzoniano. (Ma qui chiedo massima indulgenza perché la mia traduzione non renderà sicuramente il profumo ottocentesco dello stile di Ghica, ma la crudeltà della situazione sì). Scrive Ghica:
Il Principe Caragea
«Di peste si era già vista nel paese, ma gli annali della Romania non ricordano un’epidemia più terribile della peste di Caragea! Mai questo flagello ha fatto tante vittime! Morivano fino a 300 persone al giorno e si crede che il numero dei morti in tutto il paese superasse i 90.000. Il contagio era così pericoloso che il minimo contatto con una casa infestata portava la morte a un’intera famiglia, e la sua violenza era tale che un uomo colpito dalla peste era un uomo morto.
Il terrore era entrato in tutti i cuori e aveva fatto scomparire ogni sentimento di amore e di dedizione. La madre abbandonava i figli, il marito, la moglie in mano ai monatti, gente sconsiderata e senza timor di Dio. Tutti gli ubriaconi, tutti gli scapestrati si attaccavano un fazzoletto rosso al collo, si arrampicavano su un carro a buoi e andavano a saccheggiare casa per casa, cortile per cortile. Entravano giorno e notte nelle abitazioni della gente e acchiappavano tutto ciò che gli capitava sotto mano: denaro, argenteria, orologi, sciarpe ecc. senza che nessuno osasse reagire. La gente li rifuggiva come la morte, perché questi si caricavano i malati o i morti in spalla, li scaraventavano sul carro, alla rinfusa, e partivano col carro colmo verso Dudești o verso Cioplea, dove erano ammassati gli appestati; ti veniva la pelle d’oca solo a sentire le efferatezze e le bestialità fatte da questi delinquenti ai poveri cristiani caduti nelle loro grinfie.
Rare volte il malato arrivava ancora in vita ai campi degli appestati. Molte volte una mazzata in testa faceva in un batter d’occhio ciò che la malattia avrebbe fatto in due-tre giorni!... E forse chi moriva in questo modo era più fortunato, perché più malaugurati erano quelli gettati in terra vivi e nudi, senza un lenzuolo o una coperta, sul suolo umido e gelato. Le strida e i lamenti di quei disgraziati si sentivano a mezzora dal campo di Dudești …!
In seguito a parecchie scene orribili, mostruose e bestiali, avvenute in quei campi – dove uno di questi scellerati era stato squarciato con i denti da un giovane che difendeva l’onore della sua sposa, colpita dalla peste proprio nel giorno delle nozze – e alla conseguente rivolta degli appestati, che assalirono coi bastoni i monatti uccidendone una decina, l’autorità prese finalmente la misura di organizzare una specie di servizio sanitario. Essa incaricò alcuni impiegati del comune ad accompagnare i monatti casa per casa e a gridare dalla porta: “Tutti sani qua dentro?”
Uno di questi, in un rapporto al suo superiore, scriveva: “Oggi abbiamo raccolto 15 morti, ma abbiamo potuto seppellirne solamente 14, perché uno è scappato e non abbiamo potuto raggiungerlo!”
[...] Le rapine e le ruberie furono inaudite. Molte fortune e molte case di lusso furono erette a Bucarest in seguito alla peste di Caragea con gli averi dei poveri malati».
A quasi duecento anni dalla peste di Manzoni, quella descritta da Ghica è su per giù identica o peggiore. Se questo dimostri lo sfasamento dei Principati Romeni nell’Ottocento oppure la persistenza della malvagità umana in circostanze dello stesso tipo, giudichino i «miei venticinque lettori» (come direbbe Manzoni). Ma tutto sommato la letteratura ci insegna che stiamo meglio: il coronavirus gode di un servizio sanitario decisamente superiore, le autorità si muovono, di monatti non se ne vedono in giro così che, ora come ora, la gente teme più il virus che le violenze degli umani, e di questi, più l’incoscienza che la malvagità; e se dopo l’epidemia, qualche casa di lusso si ergerà con gli averi dei malati di oggi, pazienza! Significa che almeno in parte, come ben si sa, la storia si ripete.
Smaranda Bratu Elian
(n. 4, aprile 2020, anno X)
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