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Simona Sora e il suo «Hotel Universal»: una storia senza tempo
L’Hotel Universal, nell’antico centro storico di Bucarest, ombelico di un mondo orientale, è stato un bordello, poi un rifugio della Securitate in epoca comunista, e infine un ostello per studenti bohémien dopo la rivoluzione del 1989. Lo abitano personaggi bizzarri: il professore di lingue antiche Pavel Dreptu, l’aspirante suicida Mohicano, Aliona la chiromante e Maia, giovane inquilina che intesse una storia lunga 150 anni tramandata per linea matriarcale assieme alla ricetta segreta della marmellata di rose. Decine di storie si stratificano l’una sull’altra in una costruzione ipnotica che ondeggia tra realismo magico, memoria e premonizione.
Già tradotto in francese e croato, Hotel Universal di Simona Sora esce a febbraio anche in Italia, pubblicato da Bottega Errante nella traduzione di Sara Salone.
Simona Sora, pubblicista, negli ultimi vent’anni si è occupata di critica e analisi letteraria. Ha tradotto diverse opere dallo spagnolo e insegnato Letteratura romena e Teoria editoriale all’Università di Bucarest. Già nota e pluripremiata per i suoi saggi letterari, esordisce nella narrativa con il romanzo Hotel Universal, nominato libro dell’anno 2012, insignito del Premio dell’Accademia romena «Ion Creangă» per la prosa e presentato da Mircea Cărtărescu alla Fiera di Lipsia 2017 come una delle migliori opere della letteratura romena contemporanea.
La grazia che chiedo
«Un uomo che ti ama ti insegna a morire. Non ti mostra la sua paura, non ti illude con le parole. Ti mostra – attraverso strade che percorre senza di te – come vedere la morte prima che essa veda te». Maria piccola sapeva come distinguere gli uomini. Leggeva nel loro sguardo, nella pelle del viso, sulle labbra e nella voce se sapevano qualcosa di quell’amore di cui le aveva parlato Maria grande durante tutta la sua infanzia e adolescenza. Si chiamavano entrambe Maria, ma siccome Maria piccola non sapeva pronunciare la r, col tempo la chiamarono tutti così come lei si chiamava da sola: Maia, con una i allungata.
Forma di difesa all’inizio, la frase era finita col tempo a recitarsi da sé, nella sua testa: «Un uomo che ti ama ti insegna a morire». Gli uomini invece volevano insegnare a Maia a vivere, a piangere, a ridere, ad accoglierli in lei tremante di desiderio, ad attenderli poi felice, come se non avesse sentito la loro paura e il loro orgoglio, come se non avesse udito la loro voce gutturale, come se non avesse conosciuto la loro vigliaccheria e la loro indifferenza.
Maia avrebbe voluto pregare come le aveva insegnato, ancora prima di parlare, Maria. Stava sullo sgabello verde con lo schienale nella stanza di Maria, ma le veniva in mente solo una frase che aveva incollato – durante la sua gioventù già trascorsa – al proprio respiro: «Un uomo che ti ama ti insegna a morire». A morire, però, era stata Maria, la nonna che l’aveva cresciuta e che, con il pugno di ferro, aveva fatto in modo che non cambiasse. Maria era stata l’azimut che Maia non era mai riuscita a superare e ora, nella semioscurità della stanza piena di icone di Maria, nel cimitero migliore della città, Maia riusciva solo a ricordare l’incanto nel ricevere il potere di distinguere gli uomini.
Alla veglia funebre c’erano state solo donne, le tre figlie di Maria, le tre nipoti e le sue due pronipoti, sorvegliate da una terza che non aveva avuto il permesso di nascere e che se ne stava – solo per quell’occasione – appollaiata sull’armadio a tre ante dove Maria aveva conservato, nell’arco di cinquant’anni, gli abiti con cui l’avevano vestita per l’ultima volta. Gli uomini erano partiti tutti, era andata così, alcuni erano in viaggio, altri nelle vicinanze, per le incombenze della sepoltura. I più, tuttavia, erano morti negli ultimi anni, come d’accordo. Tanto che a tavola erano rimaste solo loro nove (anzi dieci), dopo aver sfamato due o tre turni di amiche, vicine, vaghe conoscenze del quartiere, tutte donne. Tre di loro si chiamavano Teodora: la figlia maggiore di Maria, la primogenita di questa e la bambina di Maia; la seconda figlia di Maria era Elena, alta, con il naso greco; la figlia Zoica non l’aveva ereditato, ma era la più dotata a vedere Maria ancora seduta a capotavola a ridere, perché Maria rideva moltissimo e in modo contagioso. Maia stava accanto alla terza Maria, la rinnegata e mai ricevuta prima d’allora, fuggita il più lontano possibile da storie di morte e regole ferree.
Avevano finito di mangiare le pietanze del digiuno (erano nel periodo di digiuno breve dei santi Pietro e Paolo) – antipasto di funghi, sarmale, gli involtini in foglia di cavolo ripieni di riso, e baclava, un dolce di pasta fillo ripieno di noci– tutto preparato da Maria prima di andarsene, e avevano lavato i piatti con calma, chiamato poi due taxi su cui erano salite in gran fretta. A parte le due bambine, tutte avevano in braccio pentole, porcellane, bicchieri portati per la veglia e ora da riportare a casa, che suonavano, per strada, come campanelle scheggiate. Solo in taxi, quando si accomodò accanto all’autista, sistemandosi ai piedi i sacchetti con i piatti, Maia si accorse di non avere la borsetta. Dopo un attimo di stupore (quale donna perde la borsetta, il luogo dei luoghi, la custode dei quattro oggetti fondamentali – venti anni fa: lo specchio, la matita per il trucco, la boccetta di Lanvin e la cipria; ora: il portamonete con le tessere, il cellulare, la penna nera e il coltello svizzero più complesso del mondo?), Maia saltò giù dal taxi e corse all’appartamento di Maria.
Entrava sempre correndo nel vecchio condominio 28 nel quale Maria si era trasferita dopo aver venduto la casa di Handor, situata su uno dei rilievi più alti del comune di Poiana Sibiului. Entrava correndo nell’ingresso, saltava due, tre gradini alla volta, lanciando un’occhiata veloce alla cassetta della posta, e percorreva in fretta il lungo corridoio che portava all’appartamento 8, varcando la porta lasciata sempre aperta, perfino nei periodi in cui nella città transilvana giravano bande sospette di contrabbandieri d’oro. Si fermò e cavò la chiave di tasca, aprì e restò immobile accanto all’appendiabiti vuoto, di ferro battuto: dalla casa proveniva un profumo di rose, un aroma caldo e fragrante. Non ricordava di aver aperto alcun barattolo di marmellata, tuttavia c’era lo stesso profumo del giugno precedente, quando ne aveva preparata l’ultima scorta insieme a Maria – epilogo tardivo dopo le sette scorte di marmellata fatte insieme fino a quando, a quattordici anni, Maia aveva sostituito la piccola città di provincia con una altrettanto piccola, ma più grigia e più proletaria; in quella città transilvana nessuno faceva quella marmellata, era un dono ereditato dalla nonna di Maria, Rada, la bulgara originaria di Varna, che l’aveva inventata più di cent’anni prima, quando aveva incontrato – orfano e per tre quarti morto dalla preoccupazione – Vasile Capşa di ritorno dalla Crimea.
Ogni anno, Maria raccontava a Maia la saga gastronomica del più triste dei dodici figli di Constantin Capşa, il pellicciaio, e ogni volta aggiungeva un nuovo dettaglio dimenticato, inventato o taciuto fino a quel momento. Solo l’ultimo anno, il settimo da quando preparavano insieme i dodici vasi di marmellata di rose, le aveva raccontato nei particolari ciò che le aveva nascosto fino ad allora: da dove venivano le rose rosse come il sangue, come si saggiavano i petali, e come si preparavano per la cottura, tagliando via la parte bianca con le forbici. Fino ad allora, quando arrivava nella cucina di Maria – correndo a perdifiato nelle due strade, nel vicolo e nel corridoio che le separavano – aveva sempre trovato il catino pieno di petali rossi già pronti: centododici grammi esatti.
Avevano iniziato a fare insieme la marmellata (di cui Maia si era stancata presto preferendole sia la composta di mele cotogne che i sorbetti dell’Alimentara) poco prima che lei compisse otto anni, sempre in un fine giugno, caldo di giorno, fresco verso sera e addirittura freddo la notte. Da bambina, a volte, Maia sentiva uno strano bisogno di vedere Maria; le capitava all’improvviso mentre leggeva, mentre giocava con Daniela, la ricciolina bionda, e doveva correre alla porta, vestendosi e infilandosi le scarpe. Arrivava da lei e non sapeva cosa dire a sua nonna, si sedeva a tavola e mangiava, anche se non aveva fame, oppure, se era sabato, prendeva il pane per la messa da portare a padre Ştefan, che stava nella loro stessa strada.
Tuttavia, la mattina in cui prepararono per la prima volta la marmellata di rose, Maia aveva dormito fino a tardi, aveva cucinato con calma dei french toast (che lei chiamava bundaş kenir), e aveva già visto buona parte del film della Telecinemateca, in replica, quando era squillato il telefono. Era Maria, le occorreva tutto l’acido citrico che avevano in casa, ma non subito. «Più tardi» le aveva detto lentamente, arrotondando ogni vocale con la sua voce sottile, «dopo che il film è finito, dopo che hai mangiato, e soprattutto dopo aver spento il gas». Maia era abituata al fatto che sua nonna sapesse tutto quello che faceva, era vero che aveva lasciato il fornello acceso anche quella volta, con il fuoco al minimo, per ore. Non era normale, tuttavia, che non dicesse nulla di quanto accaduto il giorno prima.
Maia era sola, come tutte le sere ormai da diverso tempo (sua madre si recava alla scuola serale, suo padre andava tutti i giorni a prendere l’acqua minerale, comprava decine di bottiglie da cui sceglievano solo quelle senza residui e odori strani). Suonava il violino, per l’esattezza fingeva di esercitarsi, seguendo le note sullo spartito e battendo il ritmo più forte del necessario. Nessuno le aveva chiesto se volesse suonarlo. L’avevano portata alla scuola di musica vicino alla chiesa riformata per una prova attitudinale, che aveva sostenuto suonando Vivat veselia, e l’avevano iscritta a violino, nella classe della signorina Florian, un’arpia che viveva solo per il sangue. La portavano a violino tutte le settimane e la lasciavano nella stanza buia, illuminata dal lampo verde negli occhi della strega. Doveva esserci un motivo per cui le facevano questo, e Maia cercava di resistere fino a che si concludeva l’ora in cui veniva paragonata a tutti gli erbivori che conosceva. Tuttavia, da qualche tempo la signorina Florian si era stancata: ogni volta che Maia sbagliava (e il terrore la faceva sbagliare a ogni battuta), la colpiva svelta, in mezzo alla testa, lungo la scriminatura, e l’archetto di imitazione Stradivari (di cui l’arpia era tanto orgogliosa) si spostava dalla sommità del capo alla fronte, dalla fronte agli occhi, seguendo il ritmo brusco che Maia era arrivata, dopo alcuni mesi, ad approssimare abbastanza bene. Ancora molti anni dopo essere sfuggita alla tortura, qualsiasi accordo di violino le provocava un dolore lancinante che partiva dalla sommità della testa e si allungava fino agli occhi, serrati nell’attesa. Nei quattro anni in cui si erano svolte le lezioni non aveva raccontato a nessuno quanto accadeva nella vecchia casa vicino alla chiesa riformata; aveva concluso la sua storia con il violino con un esame penoso, superato con il minimo dei voti sotto lo sguardo carico di disprezzo della signorina Florian.
Quella sera, alla vigilia del giorno in cui prepararono la marmellata di rose di Rada per la prima volta, Maia stava fingendo di esercitarsi da più di un’ora. Iniziava correttamente – si re do do si re sol si re do do si sol la fa sol –, quindi liberava la mano sinistra sulla tastiera del violino, che lanciava un patetico stridore, mentre lei batteva il ritmo sul pavimento. Se avesse messo da parte il violino e avesse fatto gli stessi movimenti bruschi, ma con altri muscoli del suo corpo piccolo e tozzo, nei due anni trascorsi da quando era iniziata la tortura accanto alla chiesa riformata, sarebbe certamente dimagrita, smaltendo i mucchi di biscotti farciti alla crema, le sfogliatine e le fette di rigojanci, immancabili sul tavolo del soggiorno. Le ci volle più di un’ora per realizzare che era sola in casa, che faceva stridere lo strumento e batteva solo per poter rispondere onestamente alla domanda: «Ti sei esercitata con il violino?», posta – a più voci – da tutti quelli che avrebbe visto quella sera, compresa sua nonna. Quando capì, si fermò di colpo, esausta, lo sguardo fisso sul quadro che ricopriva quasi tutta la parete sopra il leggio per lo spartito, opera di un amico dei suoi genitori: un vecchio con la barba bianca, a piedi nudi, che suonava il violino sulla riva di un ruscelletto, in cui si riflettevano la luna e le stelle. Lasciò il violino sul letto, meditò per qualche secondo di distruggere l’archetto con il ginocchio destro, per liberarsene almeno per qualche giorno, finché non gliene avessero comprato un altro, non sarebbe stata la prima volta, poi uscì nel piccolo corridoio, all’ingresso dell’appartamento, senza pensare a nulla. Là sedeva – su una sedia alta come uno scranno – un altro vecchio, anch’esso con la barba bianca, che la guardava dritto negli occhi. Rimase colpita, si era solo esercitata, non aveva nemmeno spezzato l’archetto, non aveva rotto neanche un parabrezza da molto tempo. Ma quando il vecchio le sorrise e, dopo qualche secondo, le tese la mano con il palmo in su, lei si spaventò a morte, tornò di corsa in soggiorno, aprì la porta del balcone tremando, e salì sopra la balaustra, restando così, in equilibrio, fino a quando, dalla scuola, comparve suo padre, carico di bottiglie di acqua minerale Boholt.
Maia era seduta sullo sgabello e preparava le rose: prendeva i petali a uno a uno, li disponeva nel catino, e poi provava a strofinare ognuno con un pizzico di acido citrico: se il petalo si scuriva, lo buttava via, se il dito con cui lo sorreggeva diventava rosso come il sangue, lo conservava. La prima volta che prepararono la marmellata di rose insieme, le due Marie testarono le rose, poi tagliarono la parte bianca dei petali con le forbici e sfregarono le foglie con lo zucchero finché non si furono ammorbidite. Le sistemarono nel catino e le coprirono, e Maria grande ci fece sopra una croce con l’indice. Lo sciroppo lo faccio domani, disse poi, e mandò Maia a casa senza chiederle nulla del visitatore della sera precedente. E quando, in corridoio, pronta per uscire, Maia tentò di dire qualcosa – voleva solo sapere chi fosse quell’anziano sorridente con il quale era rimasta occhi negli occhi per più di un minuto, ma soprattutto voleva sapere cos’avrebbe dovuto fare invece di scappare terrorizzata sul balcone – la nonna tagliò corto, con la sua voce acuta e fredda: Come posso sapere chi era? Ce ne sono tanti in quella vostra casa. Come faccio a sapere quale era, di loro?
A cura di Sara Salone (n. 4, aprile 2023, anno XIII)
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