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Silvia Colfescu: Zie favolose e altre storielle bucarestine
Questo libricino, pubblicato dall’editrice Vremea nel 2013, raccoglie una decina di ritratti di donne singolari che sono state per Silvia Colfescu (autrice del libro e direttore editoriale della suddetta Vremea), delle meravigliose zie, o semplicemente donne che hanno lasciato un segno indelebile nella sua vita. Come lei stessa illustra nella prefazione, queste erano «zie reali, zie adottive e anche zie dei miei amici, donne che, a prima vista, erano (e alcune sono tuttora) molto diverse le une dalle altre, ma che sotto un certo aspetto si assomigliavano: erano tutte delle sopravvissute, donne dallo spirito di acciaio – è vero, spesso nascoste in morbide vesti di seta.»
Zia Sanda, zia Nina, zia Valerienne e le altre, eccentriche protagoniste di questi racconti ambientati nella Bucarest degli anni Venti e Trenta del Novecento, narrati con dovizia di particolari e capaci di strapparci qualche sorriso. Un universo femminile dal gusto piacevolmente rétro, al quale Colfescu ci permette di affacciarci, quasi ci mostrasse il contenuto di un antico portagioie.
Breve storia, che non è una storia, di una zia che non era proprio una zia
e di certe posate d'argento che non erano affatto d'argento
Fra le numerose anziane signore, zie o meno, che mi hanno arricchito l’infanzia e la gioventù, ve n'era una molto simpatica, una mezza zia per osmosi, direi, dal momento che era amica per la pelle di due zie autentiche.
Come le zie in questione, viveva in condizioni economiche che si potevano definire modeste – e questo per usare un eufemismo spesso d'obbligo allora come ora.
Per farla breve, viveva dando lezioni di piano ai figli delle famiglie amiche, in cambio di un compenso tanto modesto quanto la sua vita.
Aveva un nome russo, ma noi bambini la chiamavamo signora Nina, senza aggiungere «Alexeievna» come sarebbe stato opportuno secondo l'usanza russa.
Non sapevamo granché di lei, perché i genitori ci proteggevano dalle conoscenze inadeguate del momento, ma più tardi ho scoperto che era la nipote di una nobile famiglia di origine russa, il cui antenato era venuto in Romania un centinaio di anni prima per rincorrere la bellissima figlia di un boiaro, che si era lasciata conquistare a gran fatica.
Il russo si era trasferito al seguito della sposa, nell'accogliente Moldavia, portando con sé, come dote, la madre, sei servitori fedeli e un patrimonio consistente. Dopo cinquant'anni i loro discendenti si erano trasferiti a Bucarest. Dopo cent'anni quasi tutti questi beni di famiglia, matrimoniali e patrimoniali erano decaduti per morte naturale, vendita, confisca eccetera, ovvero erano stati inghiottiti dal tempo e dalle vicende della storia.
Alla signora Nina tuttavia ne erano giunti due, che amava come la luce degli occhi: una scatolina rotonda d'oro, con il coperchio decorato di pietre preziose multicolori, e un grande servizio di posate d'argento russe, file e file di ventiquattro posate dalle innumerevoli forme, tutte con i manici splendidamente cesellati con ghirlande di fiori che incorniciavano il blasone di famiglia.
La signora Nina usava entrambe le reliquie: aveva sempre in tasca la scatolina d'oro, piena di caramelle, che dava come ricompensa ai suoi allievi che eseguivano correttamente gli arpeggi al pianoforte. E mangiava ogni giorno con le posate degli avi, poiché riteneva fosse meglio non avere cibo in tavola che non avere l'argenteria.
Tuttavia, un giorno, quando cominciò a profilarsi la chiara possibilità che il cibo mancasse frequentemente da tavola, la signora Nina prese in considerazione l'idea di separarsi dalle ultime rimanenze dell'antica ricchezza familiare. Della scatolina d'oro, non se ne parlava neppure, perché era uno strumento di lavoro, con il cui aiuto si guadagnava da vivere. Restavano le posate. Non tutte. Pensò di non abdicare del tutto al suo stile di vita, bensì di venderne diciotto di ogni set e conservarne sei per uso personale.
Perciò ne diede notizia e, in breve tempo, una delle zie-amiche le trovò un acquirente. Era un medico che l'aveva in cura, un medico rinomato, che guadagnava piuttosto bene e a cui il prezzo chiesto dalla signora Nina sembrò... modesto.
Si presentò alla venditrice, si meravigliò nel vedere il tavolo su cui le posate erano sistemate in fila come un intero esercito in armatura, prese in mano ciascuna posata e la guardò con attenzione: erano tutte contrassegnate con cinque marchi, lettere cirilliche, animali, numeri. Persuaso, tirò fuori il denaro e se ne andò con l'ammasso di metallo in una piccola valigia.
A casa, consegnò la valigia alla moglie, come regalo per il venticinquesimo anniversario di matrimonio.
Dopo i primi abbracci, la moglie osservò attentamente le posate che pure loro avevano disposto in fila sul tavolo della sala da pranzo, inarcò le sopracciglia e andò a prendere un bracciale d'argento. Quando lo accostò alle posate, constatarono che l'argento delle posate era di colore un po' più scuro e un po' meno splendente. Il viso della moglie si rabbuiò anch'esso un poco.
- Impossibile, cara, – la tranquillizzò il medico – guarda anche tu, hanno tutte cinque marchi!
Quella sera, al tavolo della festa, mangiarono con esse ma, a dispetto delle esclamazioni di ammirazione degli ospiti, conservarono una leggera inquietudine nel loro animo per tutto il tempo. In seguito, per dormire sereni, il medico portò due esemplari da fare analizzare in banca.
Dopo tre settimane uscì il bollettino delle analisi. Il medico lo aprì con un certo timore nell'animo. Constatò che i loro dubbi erano fondati. Era proprio vero, le posate non erano d'argento.
Erano di platino.
Il giorno seguente, il medico si presentò dalla signora Nina con la valigia con le posate e le chiese indietro il denaro.
-
Mi dispiace, signora, – si scusò – non ho denaro sufficiente per acquistare le vostre posate.
La signora Nina visse quasi altri trent'anni. Non le mancò mai nulla. Ogni volta che aveva bisogno di denaro, vendeva qualche posata.
Suppongo che il medico abbia comperato, in seguito, posate di vero argento.
Quando sono venuta a conoscenza della storia, ho sinceramente ammirato il suo gesto. E mi sono chiesta spesso come avrei reagito se mi fosse successa una cosa del genere. Dopo una matura riflessione, sono giunta alla conclusione che avrei fatto lo stesso. Ma, mio Dio, neppure oso pensare a quanto avrei sofferto...
Mi domandate cosa c'entra tutto ciò con le storielle bucarestine? Ebbene, questa storia è avvenuta a Bucarest!
A cura di Sara Salone
(n. 2, febbraio 2021, anno XI)
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