Roberto Pasanisi: La mia esperienza di poeta. Riflessioni sulla poesia

Nel mio ‘intervento’, partirò dalla mia personale esperienza di poeta e di studioso della poesia dell’Otto-Novecento per poi sviluppare, sia pure cursoriamente, un discorso generale sulla poesia e sul suo ruolo nella società moderna.
Sin dagli esordî, pur nella varietas di linguaggi e di temi che ho sempre ricercato, ho voluto che la mia poesia si contraddistinguesse per la strenua coerenza del suo sviluppo, al di là d’ogni schema scolastico o di maniera: rifiutando qualsiasi compromesso con le mode culturali dell’ultimo decennio, inclusi gli estremi epigoni della Neo-avanguardia, ho cercato via via di approfondire una ricerca personale e solitaria, approdando a una concezione singolarmente ‘alta’ della poesia, intesa non solo come luogo di conoscenza, ma anche come autocoscienza critica e bergsoniano «supplemento d’anima» nella moderna ‘società di massa’, resa sempre più disumana e totalitaria da una tecnologia schiavizzante e da un potere prepotente e occulto, sotto le apparenze fantasmagoriche d’una sedicente ‘democrazia del consumo’ (dando anche, fra l’altro, una sorta di  ‘corrispettivo poetico’ della Weltanschauung francofortese, una sorta di ‘teoria critica’ attraverso la poesia).

È importante citare, a questo proposito, un suo corollario, il tema della figura femminile, e dunque della bellezza, asservita agli imperativi del capitale e benjaminianamente mercificata e involgarita, uno dei Leitmotiv della mia poesia: liriche come Serenata ad Amarillide, Il ritorno di Casanova e Una speme ne sono gli specimina più significativi.
Altrove, tuttavia, la donna mantiene, montalianamente, una lontana e problematica funzione salvifica: se una delle atmosfere caratteristiche della mia poesia – come è stato opportunamente detto – quella d’una sorta di schoenberghiano labirinto sotterraneo, evocato con una tecnica linguistica per molti aspetti vicina alla dodecafonia, la metafora ricorrente di questa inafferrabile e pur sempre inseguita ‘donna-musa’ viene a essere quella della luce che «in cima al pozzo / barlumina [...]», del barbàglio di luce che «[...] indica il cammino» (Canzone labirinto), ma solo per un fuggente attimo d’eternità («e solo a tratti riluccica dall’alto / la luce che mi guida»), che va cólto ad ogni costo («basta un attimo a smarrirsi / a vanire il lavoro di anni»).
È interessante notare, a questo proposito, come le metafore della fuga e della luce si estendano metonimicamente anche alla donna stessa: «Ma è difficile inseguire / il filo incandescente / colto nei filamenti del tuo sguardo / nel balugino dei tuoi capelli / al lume della luna» (dove sono ben visibili anche le suggestioni classiche – ma rivissute – d’una poesia che vuole avere sempre un background di exempla ampio, a cominciare dagli stilnovisti fino a Leopardi ed al neo-platonismo jiméneziano).
Legata alla figura femminile è anche la metafora del viaggio alla scoperta di terre lontane e incognite, ma fascinosamente attraenti come misteriose sirene: già in poesie come Ulisse, Incantesimo, Perdute isole celesti... (notturno), fino a Sulla rotta di Magellano, l’intrepido esploratore è il poeta stesso alla ricerca della poesia e, dunque, attraverso il mare-poesia (junghiano simbolo dell’Inconscio), della bellezza e della conoscenza, edipicamente esemplificati dalla ‘terra-madre’ a cui anela.
Il motivo del viaggio, d’altra parte, prende talora anche le movenze della storia on the road alla Kerouac di Mexico City Blues: è il caso, ad esempio, del blues (come recita il sotto-titolo) I love Lucifer...

Su tutta la mia produzione regna comunque sovrana una concezione onirica della poesia, intesa come luogo di esaltazione dell’intelletto e del sentimento, come cinematografica ‘fabbrica di sogni’, come creazione continua di immagini e contemplazioni fascinose e terribili: ho così cercato di costruire uno stile che esprima l’emozione, duttile strumento d’una poesia che sia capace di ‘comprendere’ la realtà – ovvero di afferrarla, di penetrarla emozionalmente (che è uno degli obiettivi specifici della poesia, altro e complementare rispetto al ‘capire’ razionale) –; uno stile che  è poi un’epifania delle emozioni, idest del ‘profondo’ dell’uomo, del quale la poesia viene a essere una sorta di esperienza linguistica (visto anche che, come ha rilevato Gadamer, «L’essere che può venir compreso è il linguaggio»).
La mia poesia, tentando di dare una forma alle emozioni, si configura dunque come una sorta di Gestalt estetica, fra Husserl e Heidegger, in cui traspare anche la visione della Psicologia della Gestalt, da Fritz Perls in poi: corrispettivo esperienziale dell’Inconscio, che l’artista esplora sul filo d’una prodigiosa immaginosità dannunziana, straordinariamente pregna di referenti culturali.
Come nel Buddhismo Zen, a cui pure la mia poesia è vicina, la mia lirica si configura dunque come puro ‘essere’, pura ‘esperienza verbale’ emersa dal silenzio primordiale del ‘non essere’.
Traspare, in effetti, nella mia scrittura un concetto di poesia come luogo della rivelazione dell’Inconscio del poeta, rivelazione prima di tutto per se stesso e poi per gli altri: e mi chiedo se questo rivelare non sia poi un disvelamento dissolvente; se oltre il velo di Maya di un’immagine formalmente precisa, miticamente universale, musicalmente sonante non si trovi che un caos originario il cui valore pregnante di essere inconscio, cioè di influenzare, modificare il reale senza essere saputo.
Il processo di coscientizzazione (poesia), privandolo della sua essenza più propria, lo devalorizza; devalorizzandolo lo nientifica in quanto lo reifica, cioè lo obbiettiva, lo rende oggetto di una conoscenza oggettiva di un soggetto che è il poeta; e non più soggetto reale ma non visibile di un quid (poesia) che vuole comunque nella volontà dell’autore essere ascensus, intuizione, unio mystica, raptus.

Più che di ‘discesa nell’Inconscio’ io parlerei dunque di un evenire (esplodere) dello stesso, definirei la poesia come un canale fiammeggiante in cui si immettono pulsioni ed energie (che lo stesso poeta forse vorrebbe mantenere nel campo del non saputo) per essere esperite.
La poesia è un’occasione che il poeta offre a se stesso per meglio conoscersi, comprendersi, amarsi: è il lago di Narciso, lo speculum animi (dando a quest’ultimo l’accezione aristotelica di psiche); il luogo in cui il poeta dice, agostinianamente, «Quaestio mihi factus sum».
In un tempo di miseria, com’è il nostro, per dirla con Hölderlin, dobbiamo porci la sua stessa, celebre domanda: «A cosa servono i poeti in tempo di miseria?».
Come ha recentemente detto in un convegno il grande poeta sudamericano Emilio Adolfo Westphalen, «La poesia apparentemente non serve a niente, pesa quanto una piuma; ma essa – come la piuma sulla bilancia delle anime nell’antico Egitto – è la misura suprema, esatta, per valutare la coscienza spirituale di un popolo e la sua cultura. Attraverso la poesia potremo rilevare la salute morale del nostro paese e dell’America latina».

Ancóra una volta, insomma, l’arte finisce col configurarsi come la coscienza più alta e lucida della società, sola autentica erede, nelle sue illuminanti salvifiche accensioni, degli antichi profeti, manifestando pure, in questo modo, la sua moderna sacralità. L’arte è in ultima analisi, come dice Lausberg, «una raffigurazione mimetica (che ricostruisce, generalizza, rende evidente ed eleva) dei contenuti che illuminano l’esistenza». Insomma, una gnoseologia estetica ed un disvelamento.
Come ha scritto Hugo Friedrich, «La lirica è rimasta comunque, nella sua potenza grandiosa e pur così lieve, una delle libertà e delle audacie con cui la nostra epoca riesce a sfuggire alle catene della funzionalità».
Questo è il senso, credo, della vostra, della nostra presenza qui oggi, perché, come dice Bellow, finché ci sarà qualcuno che si commuover al King Lear shakespeariano, ci sarà una speranza per l’umanità. Io non mi dilungherò oltre, perché il poeta ama parlare, per dirla pasolinianamente, con le armi della poesia.


Roberto Pasanisi
(n. 4, aprile 2022, anno XII)