Il tempo, la memoria, l’addio

«...a volte basta fermarsi un attimo a riflettere, a ricordare l’amore che c’è stato per ricominciare. Quando c’è stato si può ritrovare. La preziosità dimenticata per lungo tempo improvvisamente riappare. Sì, vale la pena fermarsi, pensare al calore dimenticato... riscoprire noi stessi. Solo ciò che non è stato non si può ritrovare...» (così, proustianamente, Antonietta Benagiano nella raccolta di racconti Fermare il tempo, Napoli, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, 2003): già, il tempo, la memoria, l’amore, l’inizio e la fine, l’addio, il ritorno… che cosa si potrebbe chiedere di più alla letteratura, in tempi non solo, non tanto di ‘prosa debole’ (come si potrebbe chiamare riprendendo un sintagma da tempo vulgato in filosofia), ma proprio di ‘para-letteratura’ (come dicono i francesi)?
Già, perché oggi, grazie anche a ‘editori-non editori’, i tempi della letteratura – nel senso che dicevo supra: ‘para-letteratura’; o meglio: ‘anti-letteratura’ – li dettano testi (più che ‘romanzi’) che ruminano i tópoi del più bieco ‘televisionese’ (ci si passi lo spericolato neologismo), e per di più nel più trito linguaggio da rotocalco, o giù di lì: fotoromanzi, insomma, più che romanzi.

Ma la letteratura è un’altra cosa: la letteratura è, prima di tutto, una questione di stile, ovvero di lingua, ovvero di forma. La letteratura è inesausta innovazione sul filo che non si smarrisce della tradizione. Ogni opera d’arte, come dice Lausberg, è «una raffigurazione ‘mimetica’ (che ricostruisce, generalizza, rende evidente ed eleva) dei contenuti che illuminano l’esistenza»: insomma, una gnoseologia estetica e un disvelamento.
Già, l’arte, l’arte: la coscienza più alta e lucida della società, quella che un tempo era degli antichi profeti, moderna sacralità d’una società tragicamente segnata, come direbbe Benjamin, dalla perte d’auréole.

La letteratura, parlando da strutturalisti, è una parole che si fa unica e irripetibile allontanandosi dalla sua langue, ovvero dal ‘linguaggio stereotipico’ e fraudolento della Kulturindustrie: è, a dirlo in una parola, quella che i formalisti russi chiamavano literaturnost (e la letteratura, poi, non è forse sempre, alla fine, ‘forma’, in quanto sempre si esprime in una forma?). Così la letteratura esorcizza continuamente la piatta norma del ‘linguaggio di massa’ e la sua visione stereotipica del mondo; creativamente conduce contro di esse una ‘rivoluzione permanente’ – una rivoluzione che non è, non abbiate dubbî!, solo linguistica (il buon Gadamer: «L’essere che può venir compreso è linguaggio»): già, perché la ‘visione del mondo’ (la Weltanschauung, come amavano dire gli idealisti) è strutturata sulle base d’una sorta di post-kantiane categorie linguistiche.

La ‘società di massa’, ahimè, tende invece a elaborare, appunto, un ‘linguaggio stereotipico’, a imporlo rendendolo naturale attraverso quello che Barthes chiamava il «Grande Uso»; ma sì, la tragica assenza del ‘nuovo’ e l’iterazione avvilente del ‘medesimo’: non solo una negazione della vita, ma anche del suo heideggeriano corrispettivo dialettico: «lo stereotipo è questa impossibilità nauseante di morire», scriveva il maestro… Dove, chiedereste? Ma – facile dictu! – in primis negli spettacoli televisivi d’intrattenimento, contenitori senza fondo della barthesiana bêtise: non la qualitas, ma la quantitas massificata dell’audience

Se, come ammoniva Löwenthal in anni in cui l’«assassinio della letteratura» non era stato ancora compiutamente perpetrato, «l’intera teoria della moderna arte d’avanguardia [...] è la sola riserva di genuina esperienza e perciò di cosciente opposizione che, nondimeno, è costantemente in pericolo di essere soffocata dai tentativi lucrosi dell’industria culturale, e nessuno è più consapevole di Adorno dell’enorme pericolo per la sopravvivenza di un’arte ‘auratica’ (per usare un termine caro a Benjamin)»; se la letteratura è luogo di conoscenza, ma anche autocoscienza critica e bergsoniano «supplemento d’anima» nella moderna ‘società di massa’; se… se… be’, allora, cari lettori, tutto il resto non ha nulla a che fare con la letteratura, per quanti nomi eufonici o epici possano darle i cantori delle «magnifiche sorti e progressive» della ‘morte della letteratura’: è solo un prodotto commerciale, un oggetto di consumo, il benjaminiano «feticcio-merce».


Roberto Pasanisi
(n. 3, marzo 2022, anno XII)