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Il tramonto dell’umano
Il declino dell’Occidente non è iniziato certo in questi anni oscuri, ma ha radici antiche e profonde, in una ‘malattia mortale’, per dirla alla Kierkegaard, che soprattutto a partire dal secolo scorso ne ha attaccato e minato il fondamento umanistico di marca greco-latina nel segno di una lenta e progressiva, ma altresì inarrestabile disumanizzazione, attraverso il trionfo sempre più dittatoriale dell’industrializzazione prima, della massificazione poi, operata dalle ‘democrazie totalitarie del consenso’ non meno che dalle dittature, altrettanto e ancor più feroci, ‘dell’assenso’.
È il ‘tramonto dell’Occidente’ di spengleriana memoria? «Nell'antichità si aveva la retorica, nell'Occidente si ha il giornalismo e, invero, al servigio di quella cosa astratta che rappresenta la potenza della civilizzazione, il danaro» [1]. Anzi – molto peggio – la deriva dell’humanitas raccontata in Europa dalla Scuola di Francoforte, in Italia da letterati e filosofi come Pasolini e Severino [2], in pagine assolute e definitive.
Una grande frase di un grande romanziere potrebbe stare a esergo della letteratura moderna: «Regimi che un tempo erano agli antipodi, a causa dell’ideologia, ora sono strettamente uniti dalla tecnica. Un mondo guadagnato per la tecnica è perso per la libertà. Il dilagare della civiltà delle macchine coincide con il calo, sempre più crescente, della spiritualità dell’uomo» [3].
I mostri del (prossimo) futuro sono gli stessi di questa nostra desolata modernità e popolano i nostri incubi peggiori.
La tecnica, che domina come una divinità lontana e crudele e pone gli uomini al servizio delle macchine.
«La cattiva coscienza dell’uguaglianza — “egualitarismo” —, che annienta le sfumature e nega l’individuale e l’idiosincratico, e dall’altro un cattivo concetto di soggettività [la «falsche Subjectivität»]», come dice Goethe [4] in pagine, in pieno Ottocento, di inquietanti profezie.
La burocrazia, Moloch senza volto, a dirla ginsberghianamente [5]: più feroce di una dittatura, divinità sadica e lontana che si nutre di sacrifici umani e di ferree regole oscure che annichilano ogni senso dell’essere uomini.
Non è ormai più la «società liquida» baumaniana [6] quella che viviamo, ma qualcosa di più e di diverso: è una società virtuale che l’interconnessione elettronica delle ‘macchine intelligenti’ disumanizza al punto da rendere privilegiato il rapporto con la tecnologia piuttosto che con l’umano, idest di un nulla che sprofonda nel suo abisso senza fine tutta una civiltà e il senso stesso della sua sofferta storia di luce e d’ombra, ben oltre la ‘fine della storia’ di fukuyamiana memoria [7].
Percorriamone dunque, cursoriamente come direbbe Pasquali, il baluginante descensus nel futuro che è, provocatoriamente, uno spericolato ascensus nel presente.
Altro tema al centro della modernità – e oltre – è il Burocratismo: la ‘dittatura della burocrazia’ può essere evocata attraverso i medesimi toni inquietanti del celebre quadro del 1956 di George Tooker, Government Bureau, là dove occhi senza volto scrutano corpi ormai preda del rigor mortis, tutti uguali, tutti atteggiati anonimamente di spalle nelle movenze di una ‘coazione a ripetere’ senza fine, a dirla con Freud.
Né può mancare, dove, in un presente e un futuro ancora e sempre dominati dalla guerra e dalla violenza, il richiamo all’implicito l’agghiacciante titolo del cult-movie fanta-politico kubrickiano del ’64: Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb [8].
Sono temi che corrono poi dritti al cuore della modernità: la ricerca scientifica che diventa pura ‘meccanica’ senza l’illuminazione divina dello ‘spirituale’ e di un fine etico e umanistico: così come non ci può essere ‘salvezza’ se non, emblematicamente, nell’ ‘altrove’ dell’arte, della poesia, della bellezza.
Focale è il tema della ‘solitudine nella moltitudine’: la lonely crowd di Riesman [9] è una metafora sociologica di etico risentito rigore – in mezzo alla «folla solitaria» l’individuo è disperato e disumanizzato, naufrago nella ‘città tentacolare’ di Maeterlinck e Gozzano [10] dove, frommiano homo technologicus e burocraticus [11], defraudato di ogni contatto umano, insegue solo oscure ossessive connessioni virtuali nelle quali sfogare senza freni la sua cieca frustrazione e la sua rabbia senza nome.
Ma l’uomo del futuro, ovvero di oggi, è il Narciso: la società dell’apparire e dei Social Network (le ‘famigerate’ Reti Sociali, emblemi e apologhi estremi della virtualità e della solitudine),è il mondo dell’ego, vale a dire di un narcisismo post-freudiano che ha smarrito ogni Einfhülung, ogni empatia, e il cui ideale è il successo indiscriminato, non come petrarchesca gloria ma come consenso di massa e possesso famelico e insaziabile dei beni di consumo.
E l’amore, l’amore… Un Leitmotiv che percorre tuttavia le nostre vite, un filo rosso che corre peraltro lungo tutto la storia dell’umanità, ma che in alcune epoche si fa più esplicito e diretto, più sofferto e straziante.
Qui le atmosfere dei quadri di Edward Hopper illustrano a dovere la temperie di questi anni di declino: col grande maestro americano si potrebbe dire «non dipingo quello che vedo, ma quello che provo». Le metafore e gli scenari della letteratura moderna appaiono spesso il ‘correlativo oggettivo’ (per dirla alla Eliot) delle desolate immagini urbane dei bar e delle avenue notturne di New York, delle donne solitarie e malinconiche nei motel a picco sulle scogliere e le spiagge del New England, a Ogunquit come all’isola di Monhegan, Maine: quadri indimenticabili, che hanno scavato e risuonato nel fondo delle nostre coscienze di uomini moderni, come Summer Interior (1909), Hotel Room (1931), Nighthawks (1942).
Hopper è uno dei più ‘moderni’ fra i pittori moderni: unico ed eccelso per come descrive la solitudine e la disperazione della lonely crowd della sociologia critica nord-americana e dei loro ‘deserti metropolitani’. Impareggiabile, sì.
Indimenticabili i suoi interni metropolitani piccolo borghesi affacciati sulle highways americane luccicanti delle insegne dei night e di qualche solitaria automobile, i bar luminosi e solitari nella notte oscura, di disperata e incomunicabile solitudine esistenziale e amorosa... Il narcisismo, insomma, che impedisce l’amore di sé, non permette l’amore per l’altro: è il suo dramma e la sua tragedia.
Il possesso dei beni come unica (anti)religione di una vita tutta giocata sul terreno risibile della quantitas invece che della qualitas ricorre con immemore memoria.
Ritorna qui l’insegnamento poetico vertiginoso dei Cantos poundiani, e specialmente del XLV, nel quale il Leitmotiv dantesco «with usura» scandisce con passo funebre il ritmo più nero della nostra affranta modernità, il suo funerale prossimo venturo. Così l’indimenticabile incipit:
With usura hath no man a house of good stone
each block cut smooth and well fitting
that delight might cover their face,
with usura
hath no man a painted paradise on his church wall
harpes et luthes
or where virgin receiveth message
and halo projects from incision,
with usura
seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines
«In Una risorta Gozzano, in un colloquio con la donna venuta a visitarlo nel suo “eremo” […], annuncia il progetto di dedicare proprio alle farfalle “un volume” […]. Ma il dialogo sugli studi naturalistici e sul progetto poetico-didascalico è interrotto di colpo dallo scatto violento dei sensi: “Ma come una sua ciocca / mi vellicò sul viso, / mi volsi d’improvviso / e le baciai la bocca”. […] Il motivo della malattia mortale ritorna a proposito dell’unica farfalla che scende dai colli e dagli orti fin nel mezzo della città moderna […]. Il discorso di Gozzano stinge nell’apologo: l’odissea della cavolaia nelle strade della città […] designa, appunto, il dramma della grazia e della bellezza nella città moderna. […] Nel luogo del mondo moderno che è la grande città tentacolare l’apologo gozzaniano descrive l’inutile e folle odissea della farfalla, cioè lo straniamento della poesia. Non c’è spazio per la poesia. […] La poesia finisce a discorrere di se stessa, senza fine e anche senza echi possibili al di fuori appunto di se stessa. […] Il poeta si muove verso il silenzio cercando e percorrendo l’“altrove” che è il regno delle farfalle: un “altrove” quanto mai precario, quanto mai esiguo. Ma è l’unico rifugio che gli rimane» [12].
Cosìl’‘enigma’ della letteratura – e di un oscuro futuro remoto, ma così prossimo venturo da essere già presente – è, gozzanianamente, non solo l’«unico rifugio» dei nostri cuori di fronte al ‘lato oscuro’ dell’esistenza contemporanea, come già l’ultima Thule di Pythéas e Tacito (gli «ultimos Britannos» catulliani) e poi di Virgilio [13]. Ma ora, più drammaticamente, è l’ultimo passo oltre il futuro e l’infinito, citando ancora Kubrick e Clarke: Jupiter and Beyond The Infinite – Giove e oltre l’infinito [14].
Roberto Pasanisi
(n. 12, dicembre 2021, anno XI)
NOTE
1. «In der Antike Rhetorik, im Abendlande Journalismus, und zwar im Dienste jenes Abstraktums, das die Macht der Zivilisation repräsentiert, des Geldes» (Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, Wien, Braumüller Verlag, 1918; edizione italiana Il tramonto dell'Occidente, Parma, Guanda, 1995-1999, vol. I, p. 62).
2. Ci riferiamo in particolare, per lo scrittore, a Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975; Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976; per il filosofo, a Emanuele Severino, Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rusconi, 1979; La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano, Adelphi, 1988; e Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 1998.
3. Georges Bernanos, La France contre les robots, Aubervilliers, Editions France Libre,1944 (in Italiano, La rivoluzione della libertà. La Francia contro i Robot e altri testi inediti, Siena, Edizioni Cantagalli, 2012).
4. Leo Löwenthal, Goethe e la falsa soggettività [1982], in Leo Löwenthal, L’integrità dell’intellettuale. In memoria di Walter Benjamin [1977], in Leo Löwenthal, L’integrità degli intellettuali. La cultura di massa e la Scuola di Francoforte (a cura di Carlo Bordoni), Chieti, Solfanelli, 1991, p. 92.
5. «I saw the best minds of my generation destroyed by madness» (Allen Ginsberg, Howl and Other Poems, San Francisco, City Lights Bookstore, 1956).
6. Cfr. per questo concetto, specialmente, Zygmunt Bauman, Liquid Modernity, Cambridge, Polity, 2000 (Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002) e The Individualized Society, Cambridge, Polity, 2001 (La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Bologna, il Mulino, 2002).
7. Ci riferiamo, in particolare, al celebre discusso libro di Francis Fukuyama del 1992 The End of History and the Last Man, New York, Free Press, 2006.
8. Il dottor Stranamore. Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Gran Bretagna, 1964).
9. David Reismann, The Lonely Crowd: A Study of the Changing American Character, New Haven, Yale University Press, 1950 (traduzione italiana La folla solitaria, Bologna, Il Mulino, 2009).
10. Guido Gozzano, Le farfalle. Epistole entomologiche: originale e bellissima la metafora della bellezza avvilita e assassinata dalla modernità nel patetico e struggente racconto della farfalla che si perde e trova la morte nel mostruoso inferno d’uomini e case della città, la Waste Land gozzaniana – dove forse le ninfe, nella city, non ci sono mai state: «valicò gli edifici, immaginando / orti propizi e si trovò perduta, / prigioniera nel grande laberinto / di pietra che costrussero gli uomini. / Da ore ed ore, forse dal mattino, / s'aggira stanca per le vie diritte / dove non cresce un filo d'erba o un fiore. // [...]// [...] prigioniera / del chiuso laberinto cittadino; / e nel triste detrito che raccoglie / la scopa mattinale delle vie / biancheggiano falangi d'ali morte...» (Guido Gozzano, Poesie [revisione testuale, introduzione e commento di Edoardo Sanguineti], Torino, Einaudi, 1973. Cfr. Giorgio Barberi Squarotti, Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori, 1976, il capitolo intitolato Le farfalle di Torino (pp. 152 – 169).
11. Erich Fromm ha scritto, su questo argomento, due libri che sono, più degli altri suoi, al cuore della modernità – la loro geniale brillantezza è tutt’uno con una capacità unica di comunicare le sue idee ad un vasto pubblico senza scendere né al tono né ai modi concettuali deteriori e semplificatorî della letteratura saggistica divulgativa: Escape from Freedom, New York, Farrar & Rinehart, 1941 (Fuga dalla libertà, Milano, Edizioni di Comunità, 1963); To Have or to Be?, New York, Harper & Row, 1976 (Avere o essere?, Milano, A. Mondadori, 1977).
12. Barberi Squarotti, Poesia e ideologia borghese, cit., pp. 154 – 169 passim.
13. Ci riferiamo a Πυθέας, Περὶ τοῦ Ὠκεανοῦ; a Tacito, De vita et moribus Iulii Agricolae; a Catullo, Carmen 11, vv. 9-12: «sive trans altas gradietur Alpes, / Caesaris visens monimenta magni, / Gallicum Rhenum horribile equor ulti- / mosque Britannos»; e a Virgilio: «Tibi serviat ultima Thyle» (Georgiche, I, 30).
14. È il titolo della IV e ultima parte (dopo The Dawn of Man, TMA-1 e Jupiter Mission) della pellicola di Stanley Kubrick, cult movie della fantascienza cinematografica, 2001: A Space Odyssey (USA – Gran Bretagna, 1968). Il film è basato su un soggetto di Arthur C. Clarke, il suo racconto The sentinel: il romanziere inglese ha poi tratto dalla sceneggiatura – invertendo il passaggio, consueto nella storia del cinema, dal libro alla pellicola –, un romanzo (interessante ma non all’altezza del movie) dal medesimo titolo. In una nota introduttiva al racconto pubblicato nell'antologia Arthur Charles Clarke, La sentinella e altri racconti, Milano, Interno Giallo, 1990, Kubrick dichiara: «La sentinella assomiglia a 2001 come una ghianda assomiglia a una quercia adulta».
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