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«Ecco il tempo degli assassini». Poesia e modernità
«Il problema, allora come oggi, e oggi certamente più che allora, è quello di sviluppare a fondo le pulsioni anarchiche che sono alla radice, inequivocabilmente, di tutta la grande antipoesia di questo secolo che muore, portando tali pulsioni dal terreno della rivolta al terreno della rivoluzione. [...] Perché si tratta pur sempre, come si diceva anche allora, e come sarebbe bene tornare a dire anche oggi, io credo, di cambiare la vita, e di modificare il mondo».
(Edoardo Sanguineti)
Il poeta moderno crede fermamente – moderna religione della bellezza... – nella poesia – ‘dizione dell’indicibile’, conoscenza estetica che si esprime in una forma, esaltazione dell’intelletto e del sentimento –; crede nella sua funzione salvifica, autentica ‘ultima spiaggia’ dell’umanità; crede nel senso della poesia (e più in generale dell’arte) come fatto tipicamente umano, in quanto ‘emergenza dall’Inconscio’: dunque connaturato all’uomo, dalle Grotte di Altamira ad oggi.
In una società come la nostra, che si accanisce a distruggere sistematicamente nell’uomo ogni traccia d’umanità, a trasformare ogni individuo in un cieco ingranaggio dei meccanismi economico-produttivi, a renderci inesorabilmente omologati ai valori e alle norme della ‘società di massa’ e della sua ineffabile sotto-cultura, l’arte, nel senso ‘alto’ del termine, rappresenta l’ultimo, estremo baluardo che la morente ‘auto-coscienza critica’ può ergere allo strapotere fagocitante del «feticcio merce» (1) e del dio denaro. L’exemplum classico è, in questo caso, illuminante: i Greci dicevano di avere due grandi educatori: Omero, prima, attraverso la poesia; Esopo, poi, attraverso la prosa. Noi ne abbiamo uno solo: il Grande Fratello televisivo; e questo vale specialmente per le ultimissime generazioni: una ‘strage degli innocenti’ in cui esse, passivizzate e massificate, vengono allevate sin dall’infanzia negli occulti imperativi del potere e nei suoi stravolti valori. Come ha detto Louis Malle, «i giovani di oggi sono avvilenti: belli, eleganti, ben nutriti, ma tutti uguali» (2).
Effettivamente l’omologazione appare essere uno dei fenomeni cruciali della post-modernità, come già della modernità (che anche le epoche storiche siano omologate?): è infatti sotto questo epocale segno che va letta la rovinosa caduta dei Paesi dell’Est europeo, dovuta al fondo – sia detto di là degli speciosi inni alle «magnifiche sorti e progressive» dell’Occidente capitalistico – esclusivamente a ragioni di ordine economico, al richiamo irresistibile della fascinosa sirena del consumismo. Come ha scritto Umberto Eco, «nei secoli passati, se non ci piaceva il nostro tempo, chi poteva si spostava nello spazio e andava a vivere in una terra diversa per storia, usi e costumi. Oggi non si può più, al secolo (al suo stile) non si sfugge» (3). «La ricerca del consenso di massa», d’altra parte, porta «a vedere come saggezza e salvezza non la comprensione facile dei misteri difficili, ma l’ovvietà che consola e non impegna. Questa è l’eredità del nostro secolo, e non abbiamo ancora regolato in attivo i conti col trionfo delle masse» (4). E «È il denaro», ha detto Josif Brodskij, «che è responsabile della fusione antropologica di cui siamo testimoni. Il denaro è il peccato originale ma anche il peccato dell’avvenire. Il denaro è il vero ordinatore del mondo. [...]: verrà il giorno in cui i popoli si distingueranno soltanto per i diversi tipi di valuta impiegata» (5).
«Nel cuore di tutte le altre epoche vi era un nucleo vitale di immagini, nozioni e storie. Queste avevano il potere di parlare al cuore e alla mente. Oggi non è più così. Una scatola nera, posta al centro del mondo, spersonalizza tutto ciò su cui opera. I grafici, gli algoritmi e le funzioni hanno sostituito le parole e le icone, custoditi più dai manager che dai profeti» (6). «In realtà è un’armonia complessiva, dove ogni uomo, per povero che fosse, aveva un posto, un ruolo e un senso (o credeva di averlo, il che fa lo stesso), che è stata irrimediabilmente spezzata dalla modernizzazione. [...] Che società del benessere è mai quella che conosce il più diffuso malessere che sia stato registrato nella storia dell’uomo?» (7). «L’uomo contemporaneo, consapevole di aver perduto la sicurezza degli antichi vincoli sociali e ideali, senza averne stabiliti di nuovi in luogo dei precedenti, diventa alienato, si sente sradicato e non sa più fondamentalmente come determinare gli scopi della sua esistenza e l’atteggiamento verso la vita» (8).
Venendo più specificamente al nostro Paese, ci soccorrono le amare profetiche parole di Pasolini: «l’Italia di oggi è distrutta esattamente come l’Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra ‘macerie di valori’: ‘valori’ umanistici e, quel che più importa, popolari.
Come quelli del 1945 gli uomini di potere italiani – a causa non solo della distruzione che hanno operato, ma soprattutto a causa dell’abiezione dei fini e della stupida inconsapevolezza con cui hanno operato – sarebbero degni di un nuovo Piazzale Loreto. Che certo – fortunatamente e sfortunatamente – non ci sarà» (9).
Di fronte a tutto questo, l’intellettuale, e più in particolare l’artista, viene ad assumere il ruolo di coscienza critica della società, di suo intrepido disvelatore: come ha detto Adorno, «Le opere d’arte hanno la loro grandezza nel fatto che lasciano parlare ciò che l’ideologia tiene nascosto. Esse trascendono, che lo vogliano o no, la falsa coscienza». Il poeta è, nietzschianamente, avanti a tutti gli altri uomini: come Tiresia od Omero ha una vista ‘altra’, ben più profonda rispetto all’uomo comune (ma anche ben più tragica: è sempre vera l’antica equazione ‘conoscenza = dolore’); egli ha il cómpito d’illuminare i suoi simili e si configura come l’ultimo sacerdote e depositario della bellezza e dell’umanità:valori che ha, omericamente, la funzione di salvaguardare e tramandare.
Ma, per una maledizione divina, raramente viene creduto, mai preso fattivamente sul serio: ciò, tuttavia, non gli impedisce di rivelare l’invisibile e vaticinare eroicamente il futuro. «[...] io sono convinto che, oggi più che mai, un artista abbia una serie di responsabilità sociali e politiche, che consistono nell’approfondire la propria visione del mondo ed esprimerla agli altri» (10).
Ritorna, al fondo, la grande lezione dell’Umanesimo, di cui il poeta è, storicamente e per essenza, uno dei grandi alfieri: «Oggi c’è una spiccata tendenza a servirsi degli “esperti”, di studiosi specializzati di questo e di quello, che hanno una visione parcellizzata della realtà, come di un puzzle, e mancano della capacità di trattare i problemi fondamentali della complessità. La missione degli intellettuali per il nuovo millennio dev’essere invece proprio questa» (11).
D’altra parte, la poesia, se, di per sé, non è ideologia, non può non esprimere una sua precisa presa di posizione e, più in generale, una più o meno articolata Weltanschauung: di qui la sua sostanza etica, verso la quale l’artista ha una profonda, ineludibile responsabilità. Di fronte ai perversi giuochi dei poteri, alla finzione che inesorabilmente contrassegna la vita dell’uomo moderno, l’arte, e più in particolare la poesia, viene eroicamente a configurarsi come il luogo elettivo dell’autenticità (che è, poi, una forma non ignobile di verità, forse l’unica oggi oggettivamente percorribile).
Di là dai gaglioffi infingimenti e dai surrettizî, abbacinanti splendori della ‘civiltà di massa’, ritorna l’insegnamento del Nichilismo nietzschiano: «un filosofo onesto [...] immerge il coltello del vivisezionista nelle virtù del suo tempo e gli è estranea la distinzione morale tra menzogne semplici e menzogne sante, visto che egli distingue soltanto tra verità e menzogna, lottando per la verità (L’anticristo). Se non succede che ciò sia “attuale”, allora tanto peggio per l’"attualità"» (12). Di fronte al Nulla heideggeriano sul quale si staglia la vita nel suo Dasein, è necessario prima far tabula rasa delle esorcizzazioni illusorie di cui si fa vilmente bella la ‘civiltà dell’immagine’, a cominciare da quella della morte per finire con quella del tempo. E qui tutto il senso più ‘alto’ del Nichilismo: non distruttivo, ma coraggiosamente ricostruttivo; se il fallimento dell’ `imperativo di verità’ socratico (13) è un fatto ineluttabile della modernità, restano all’uomo, al posto dei superbi ‘valori assoluti’ e ‘oggettivi’, comunque dei ‘valori relativi’ e ‘soggettivi’: però relativi e soggettivi come possono esserlo valori connaturati all’uomo in quanto tale, cioè con tutti i suoi limiti, ma nati con l’uomo e che solo con l’uomo moriranno; e quindi, proprio per questo, indiscutibilmente autentici pur (o forse proprio) nella loro storicità: e la storicità, nell’accezione più ampia del termine, è una categoria sicuramente da recuperare. «Il nostro tempo», invece, «vive così radicato nell’immediatezza fugace, nell’effimero considerato come assoluto, che non avverte alcuna necessità di permanenza, non si fida della validità futura di ciò che pensa o vive» (14). Come diceva Gramsci, «Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».
In una società in cui il denaro, e non più l’uomo, «è misura di tutte le cose», neppure la bellezza, categoria ontologicamente ineludibile, come fine o come mezzo, dell’opera d’arte, riesce a trarsi in salvo da una lenta ma inesorabile agonia, desacralizzata com’è, fra l’altro, dalla sua «riproducibilità tecnica» (15). «La perte d’auréole colpisce anzitutto il poeta» (16), che, disperato flâneur tra gli ‘orrori metropolitani’ delle ‘città tentacolari’, vede parallelamente vacillare uno dei suoi punti di riferimento più irrinunciabili, la donna, petrarchesco ‘strumento d’espressione’ da sempre deputato a essere portatore del valore ‘bellezza’. Come dice Benjamin, già «Il diciannovesimo secolo cominciò a inserire la donna, senza riguardi, nel processo della produzione mercantile. Tutti i teorici concordavano sul punto che la sua femminilità specifica era minacciata, e che tratti virili si sarebbero necessariamente manifestati in essa con l’andar del tempo. Baudelaire [...] vuole sottrarli alla sovranità dell’economico. [...] Il modello ideale della donna lesbica rappresenta la protesta dell’arte moderna contro l’evoluzione tecnica». Vano eroico tentativo, di fronte alla manus tentacolare della società: «Nella prostituzione delle grandi città anche la donna diventa tal.» (17). Infatti, «L’ambiente oggettivo degli uomini assume, sempre più apertamente, la fisionomia della merce. Nello stesso tempo la réclame si accinge a coprire col suo bagliore il carattere di merce delle cose. Alla trasfigurazione menzognera del mondo delle merci si oppone la sua disposizione in senso allegorico. La merce cerca di guardarsi in faccia. E celebra la sua incarnazione nella prostituta» (18).
Il cuore del problema è, meyerianamente, di ordine psicobiologico: come scrive Erich Fromm, «determinate differenze biologiche [specie di origine sessuale] risultano in differenze caratterologiche; tali differenze si mescolano con quelle direttamente prodotte da fattori sociali; queste ultime hanno effetti di maggior rilievo e possono anche aumentare, eliminare o ribaltare differenze biologicamente radicate» (19). Da ‘rinforzo del comportamento’ agisce pure, a livello psicosociale, il meccanismo inconscio della «protesta virile» acutamente teorizzato da Adler.
«La nostra tendenza attuale - scrive Margaret Mead - è di minimizzare tutte queste particolari differenze, nozioni da apprendere, ritmo, tipo e successione delle ricompense, e in gran parte cancellare le particolari differenze considerate svantaggiose per uno dei due sessi. Se è più difficile addestrare i ragazzi, li si addestrerà con più ardore; se le ragazze crescono più in fretta si separeranno dai ragazzi in modo che questi ultimi non ne siano danneggiati; se le donne hanno meno forza degli uomini si inventeranno macchine che le aiutino a compiere lo stesso lavoro. Ma ogni adattamento che riesca ad annullare una differenza o una vulnerabilità in un sesso, e una superiorità di forza nell’altro, diminuisce la possibilità di completarsi reciprocamente, e corrisponde ad abolire la costruttiva recettività della femmina e l’energica attività ancor più costruttiva del maschio, rendendoli entrambi degli esseri insignificanti e negando a ognuno la completa umanità che avrebbero potuto raggiungere. Dobbiamo proteggere i sessi nei periodi in cui sono vulnerabili, difenderli e averne cura durante le crisi di volta in volta più ardue per l’uno o per l’altro. Ma proteggendoli, dobbiamo anche mantenere le loro differenze; colmare soltanto le diversità è in definitiva una forma di negazione» (20). L’esito ultimo di tutto questo è l’omologazione maschio-femmina: il potere, annullate anche tramite un’apposita legislazione e un’adeguata campagna ideologica le sue diversità dall’uomo, fagocita la donna e la asserve agli imperativi ineluttabili del capitale, astutamente performandola all’ideologia della classe dominante, cioè quella produttiva.
Più in generale, come già aveva compreso Platone, antesignanamente ponendosi in una prospettiva di ‘psicologia del profondo’ (21), i messaggi martellanti e spesso subliminali inviati dal potere occultamente piegano l’individuo agli imperativi del sistema: non è necessario che egli ne segua razionalmente e alla lettera le direttive; è bensì sufficiente che, da un lato, si assuefaccia ai valori del potere, registrandoli inconsapevolmente nel suo Inconscio, abituandosi a essi e a considerarli normali per quanto deprecabili; che, dall’altro, trovi una giustificazione ideologica al suo agire conforme agli imperativi del capitale. Il cinema e la televisione costituiscono due fra i canali maggiormente privilegiati dal sistema dominante per imporre alle masse la propria ‘visione del mondo’ (22).
Sensibili sono, in tutto questo, le analogie col Trecento, di cui sembrano ciclicamente riprodursi, sia pure in una prospettiva assai più ampia e complessa, tanto il terremoto ideologico e culturale quanto la progressiva estensione della categoria dell’ ‘economico’ (23); ma l’alienante drammaticità d’una condizione in cui il valore dell’uomo è legato ai suoi chrémata era già dolorosamente avvertita dalla cultura greca arcaica, da Teognide fino all’Anonimo dell’Athenaíon politeía.
In tutto questo emerge il drammatico straniamento di un’umanità che ha smarrito l’armonia fra ánthropos e phýsis, che era stato uno dei più profondi insegnamenti lasciati in eredità dal mondo classico alle generazioni a venire, e che è il cuore dell’Umanesimo. L’uomo moderno insomma, per usare una categoria ideologica della cultura greca arcaica, si è macchiato di hýbris, valicando con folle ‘tracotanza’ i suoi limiti e sconvolgendo il naturale ordine delle cose, che ora inesorabilmente gli si rivoltano contro, di giorno in giorno più minacciose.
D’altra parte, i ‘valori’ effettivamente rappresentano un elemento irrinunciabile per la sopravvivenza psichica dell’uomo moderno: come dice Joseph Wood Krutch in The Modern Temper, «Tutte le società che hanno oltrepassato il vigore della loro giovinezza rivelano la loro perdita di fede nella vita col non considerare più quei processi fondamentali che come mezzi ad un fine. [...] La volontà subumana di vivere che è interamente sufficiente per l’animale può essere rimpiazzata dalla fede, la fede può essere rimpiazzata dalla filosofia, e la filosofia può attenuarsi finché diventa un puro gioco, come la moderna metafisica» (24). In effetti, come dice Luigi Lombardi Satriani, «il conferimento di senso è uno dei nostri bisogni psichici fondamentali. Noi non riusciamo a sopravvivere se non diamo senso al mondo e al nostro agire. La perdita di senso costituisce alienazione in senso radicale, cioè l’esperienza della follia» (25).
Il cómpito della letteratura appare dunque, sotto varî aspetti, privilegiato: non solo da un punto di vista razionale, idest critico, ma anche (e staremmo per dire soprattutto) rivoluzionario, ribellisticamente ‘altra’ rispetto al sistema, attingendo essa direttamente all’Inconscio, insomma alla primigenia, violenta purezza dell’istintuale e del biologico. Ne nasce così una creativa dialettica fra letteratura e potere, visto anche che «Ogni cultura è sempre il frutto di un equilibrio tra l’esigenza della norma e l’esigenza della trasgressione» (26). Come ha detto Michel Foucault nella sua ormai celebre Storia della follia, «l’essere della letteratura, così come si produce dopo Mallarmé e sino ai nostri giorni, conquista la regione dove, da Freud in poi, avviene l’esperienza della follia» (27). E se è vero, com’è vero, che «La poesia è l’arma con cui la ragione ascolta organizza ed esprime, nel tentativo di contrapporsi alla morte del sentire, alla follia che appunto sempre la insidia» (28), l’artista deve dunque venire a inscrivere la sua azione sotto il segno d’un paradosso, d’una tragica ma fattiva antinomia: «essere contestualmente elemento del sistema» (così da non esserne emarginato, e potere quindi far sentire la propria voce) «e un antagonista del sistema» (29) (così da esserne la dinamica ‘coscienza critica’, la sua inarrestabile dialettica interna). Visto anche che, come scrive Horkheimer, «Al culmine del processo di razionalizzazione, la ragione è diventata irrazionale e stupida».
Una volta, «rivoluzionari erano coloro che, dopo aver fatto della teoria magari fondando un giornale, passavano all’azione. Oggi c’è forse necessità di passare dall’azione alla teoria, ossia a una nuova cultura della rivolta contro lo stato di cose: magari facendo, appunto, un giornale» (30); oppure un’antologia, aggiungeremmo noi.
Ogni libro ha infatti i suoi scopi; ma solo un’antologia lirica li persegue – elettivamente e, per così dire, istituzionalmente –, Con le armi della poesia: ottenere il consenso dei lettori, dai semplici appassionati ai più raffinati ‘addetti ai lavori’; gettare, di là dai narcisismi egoistici del potere culturale costituito, un ponte sull’abisso senza fondo che sèpara cultura accademica e ‘cultura degli artisti’; affermare, di là dai clientelarismi culturali e dalle ‘false coscienze’ della poetica, la ‘poesia-poesia’.
Le Università – sempre più in mano a una casta intoccabile narcisisticamente rinchiusa nella turris eburnea del suo potere, asserragliata in antri di Polifemo infestati da ottusi burocrati della cultura – sono andate progressivamente smarrendo il loro ruolo istituzionale di fulcro dell’elaborazione culturale e della riflessione sull’arte, perdendo con quest’ultima quasi ogni contatto vitale e trasformandola in oggetto imbalsamato per i musei.
Gli ‘intellettuali militanti’, d’altra parte, e più in particolare gli artisti, addomesticati dal potere all’ombra rassicurante del Grande Fratello mediologico, rinchiusi nell’orticello angusto del loro «particolare» e delle loro sterili dispute ideologiche, hanno colpevolmente dimenticato la pasoliniana funzione di critica al sistema e alle sue istituzioni (specialmente se questo è, come il nostro, fatiscente e corrotto); divenuti, come scrisse anni fa Rossana Rossanda, «cauti distillatori di parole e posizioni, pacifici fruitori della separazione fra “letteratura” e “vita”».
Del resto, la cultura è potere: e il potere tende, da sempre, ad assimilarla e a istituzionalizzarla; a smussarne e a incanalarne le spinte rivoluzionarie (nell’accezione più ampia del termine), oggi anche fagocitandola nel mare magnum della ‘cultura di massa’.
Come ha detto Elitis, con risolutiva brevitas, «la poesia [è] una fonte d’innocenza colma di risorse rivoluzionarie».
In un Paese come l’Italia, dove la dirigenza politica opera all’insegna del clientelarismo e degli interessi delle aree di potere (non delle ideologie), la chiusura a mo’ di casta del mondo delle lettere (accademico e non) non ne rappresenta che un aspetto, aggravato dal gretto provincialismo che caratterizza da un po’ di tempo a questa parte la nostra cultura, specialmente nelle sue aree più ‘basse’.
È sorprendente notare come il dilettantismo culturale di molti letterati italiani li renda ancóra incapaci di distinguere fra ‘poetica’ ed ‘estetica’, equivoco di fondo che determina il rifiuto ottuso di ogni maniera di fare letteratura che non sia la propria. Sono definitive, a questo proposito, le conclusioni di Luigi Pareyson ne I problemi attuali dell’estetica: «Dal punto di vista estetico tutte le poetiche sono egualmente legittime: [...] l’essenziale è che sia arte» (31); è insomma solo l’esito che legittima la validità d’una poetica: «Presentare o prendere per generale e universale ciò ch’è particolare e storico, per speculativo ciò ch’è operativo e normativo, per teoria dell’arte ciò ch’è programma d’arte, significa confondere i piani» (32).
In una tale societas, che ha poi tutti i caratteri di una pars, trovano altresì libero sfogo tutto l’egocentrismo e la vanagloria che caratterizzano l’intellettuale italiano tipo di questi anni oscuri; una consorteria insomma, a cui, fatte salve le debite eccezioni, si accede non per meriti, ma per appoggi, interessi, conoscenze; e la parte del leone la fa – c’è bisogno di dirlo? – la manus tentacolare della politica (nel senso degradato della parola che si è inesorabilmente andato affermando ai nostri giorni).
Cosa resta, allora, chiederete? Una cosa sola, ovvero tutto: la poesia. Come ha detto Hugo Friedrich, «La lirica è rimasta comunque, nella sua potenza grandiosa e pur così lieve, una delle libertà e delle audacie con cui la nostra epoca riesce a sfuggire alle catene della funzionalità» (33).
Roberto Pasanisi
(n. 6, giugno 2024, anno XIV)
NOTE
(1) Cfr. Walter benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti [1955], tr. it., Torino, Einaudi, 1981, pp.131-144 passim.
(2) Louis Malle, Fuoco fatuo (Le feu follet, 1963). Questo movie resta, a tutt’oggi, un classico dell’Esistenzialismo cinematografico.
(3) Umberto Eco, Questo secolo è stato un infarto, in AA.VV., La nuova civiltà. 1 - Le idee, Supplemento de “L’Espresso”, 11, 18/III/1990, pp.6-11, p.7.
(4) Eco, Questo..., cit., ibidem, p.9.
(5) Josif Brodskij, in Giovanni Buttafava, Noi senza beni, voi senza cuore (colloquio con Josif Brodskij), ibidem, pp. 38-41, p. 41.
(6) Ivan Illich, Questo secolo è stato una cipolla, ibidem, pp.12-15, p.15.
(7) Massimo Fini, Dilemma: essere o benessere?, in «L’Europeo», 13, 31/III/1990, p.38.
(8) S.W. Couwenberg, De vereenzaming van de moderne mens, s’Gravenhage, s.d., p.20.
(9) Pier Paolo Pasolini, Pannella e il dissenso, in Id., Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976.
(10) Brian De Palma, in Silvia Bizio, Progetto per uccidere la tv (colloquio con Brian De Palma), in AA.VV., La nuova..., cit., pp. 88-90, p. 89.
(11) Edgar Morin, in Titti Marrone, Il nostro futuro senza certezze (Intervista a Edgar Morin), «Il Mattino», settembre 1990.
(12) Johan Goudsblom, Nichilismo e cultura [1960], tr. it., Bologna, Il Mulino, 1982.
(13) Cfr. ibidem.
(14) Josep Piera, Un bellissimo cadavere barocco [1987], tr. it., Napoli, Tullio Pironti Editore, 1990, p.23.
(15) Cfr. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1936], tr. it., Torino, Einaudi, 1966.
(16) Benjamin, Angelus..., cit., p.134.
(17) Ibidem, p.135, p.137.
(18) Ibidem, pp.135-136.
(19) Erich Fromm, Sex and Character, in «Psychiatry», 6, 1943.
(20) Margaret Mead, Maschio e femmina, Milano, Il Saggiatore, 1976; cfr. anche Id., Sesso e temperamento, Milano, Il Saggiatore, 1967 e Pierpaolo Donati, Sociologia della famiglia, Bologna, CLUEB, 1978.
(21) Cfr. specialmente le pp. 376 e 417b della Politeía (Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, tomus IV, Oxford, Oxford University Press, 197821).
(22) Cfr., a tale proposito, i profetici apologhi di George Orwell, 1984 (1950), di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (1953; e del bel film omonimo di François Truffaut, del 1966); e, cinematografico, di Norman Jewison, Rollerball (1975).
(23) Cfr., per la società contemporanea, anche la discussione di Fromm su Avere o essere? [1976], tr. it., Milano, Mondadori, 1977, nonché il sistema teorico sviluppato dal medesimo autore in Psicoanalisi dell’amore. Necrofilia e biofilia nell’uomo [1964], tr it., Roma, Newton Compton Editori, 19849.
(24) Cfr. la trascrizione poetica che di tutto ciò hanno dato varî poeti occidentali: da Eliot (The Waste Land, 1922; Fragment of an Agon, 1927) a Milosz (La Charrette) a Montale. Vd. anche Roberto Pasanisi, Il Poema Paradisiaco, in «Alla bottega», 2, 1986, pp.19-21 e Umberto Carpi, Il poeta e la politica. Leopardi, Belli, Montale, Napoli, Liguori, 1978, pp. 269-355. Per un discorso più ampio cfr. Roberto Pasanisi, L’ ‘uomo-massa’ e la ‘morte della bellezza’: la coscienza dell’Occidente alle soglie del Nulla, in «Pragma», 1, 1990, pp. 33-41.
(25) Angioletta Colucci de Goyzueta, Le voci di dentro (Intervista a Luigi Lombardi Satriani e Mariella Pandolfi), “Il Mattino”, 21/XII/1990.
(26) Luigi Lombardi Satriani, ibidem. Su questo argomento cfr. anche Roberto Pasanisi, Letteratura e potere: la ‘dialettica innamorata’, in «Pragma», 1, 1990, pp. 73-77.
(27) Cfr. la nozione di «follia», acuta rielaborazione dell’Inconscio freudiano, quale emerge dal pensiero di Galimberti.
(28) Rossano Onano, La poesia, la follia, l’epopea di Marco Cavallo, in «Salvo imprevisti», 45-46-47, 1988-89, pp.19-20, p. 20.
(29) Pietro Barcellona, L’egoismo maturo e la follia del capitale, Torino, Bollati Boringhieri, 1988.
(30) Stefano Lanuzza, Linea d’ombra e ribellione, in «Molloy», 3-4, 1989, pp.1,13, p.13.
(31) Luigi Pareyson, I problemi attuali dell’estetica, in AA.VV., Momenti e problemi di storia dell’estetica, parte IV, Milano, Marzorati, 1961, p. 1814.
(32) Ibidem, p.1813.
(33) Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna [1956], tr. it., Milano, Garzanti, 1971, p.10. |
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