L’‘uomo-massa’ e la ‘morte della bellezza’: la coscienza dell’Occidente alle soglie del nulla

La storia recente dell’Occidente, pur nel brulichio fittissimo delle vicende che l’hanno drammaticamente percorso lungo tutto l’arco di questo secolo, non ha certo mancato di evidenziare alcune coordinate fondamentali attraverso le quali può essere spericolatamente esplorata.
In effetti, delle linee principali attraverso le quali essa si è andata sviluppando, ne individueremo tre, che a mo’ di sotterraneo filo rosso scandiscono i tempi di questo secolo meraviglioso e tremendo: industrializzazione, tecnologismo e mercificazione; massificazione e involgarimento; ‘morte della bellezza’. Di fronte a codeste tre tendenze distintive, e al loro incombere sempre più incalzante, gli artisti e, più in generale, gli intellettuali, non hanno mancato, come sempre, di levare il loro grido di dolore e di protesta: ancóra una volta, insomma, l’arte ha finito col configurarsi come la coscienza più alta e lucida della società, sola autentica erede, nelle sue illuminanti salvifiche accensioni, degli antichi profeti, manifestando pure, in questo modo, la sua moderna sacralità [1]. L’arte è in ultima analisi, come dice Lausberg, «una raffigurazione mimetica (che ricostruisce, generalizza, rende evidente ed eleva) dei contenuti che illuminano l’esistenza» [2]. Insomma, una gnoseologia estetica e un disvelamento.
In effetti, già il Positivismo, pur nell’esaltazione, a tratti perfino ingenua, delle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, aveva finito coll’imprigionare l’uomo in rigidi schematismi sociali non meno che in spietate norme produttive, ogni elemento della realtà meccanicisticamente predeterminando e riducendo a quantità e materia. La nascita delle società capitalistiche, nell’accezione moderna del termine, con il loro apparato tecnologico e industriale, veniva creando, dopo la prima ben nota proletarizzazione delle masse, una sorta di immane piccola borghesia massificata e impiegatizia – la potremmo definire ‘neo-borghesia’ –, caratterizzata, da un lato, dalla sempre crescente omogeneizzazione, dall’altro, dalla tendenza a essere posta come exemplum paradigmatico da imitare per le classi meno abbienti. E il processo, in effetti, che si è andato accentuando in Italia nel corso di questo secondo dopoguerra [3].
L’accesso di grandi masse alla cultura si è in gran parte sviluppato, in maniera inversamente proporzionale, come un abbassamento di quest’ultima al livello di un ‘pubblico-mercato’ tanto più vasto quanto più ‘basso’ culturalmente rispetto a quello tradizionale [4]. La cultura e l’arte si sono andati via via spettacolarizzando e quantificando, divenendo, attraverso l’occhiuto Grande Fratello dei mass media e della ‘civiltà dell’immagine’ [5], un facile e ghiotto boccone per l’ingordigia di enormi masse affamate di cultura e dello status sociale a essa connesso [6]. Il prodotto culturale, nel senso più ampio del termine, si è andato progressivamente adattando, come ogni altro oggetto, alle richieste dell’individuo medio, paradossalmente performato dalla società a sua immagine e somiglianza, nullificata cellula d’un immenso e informe organismo la cui composita testa è occultamente e sapientemente gestita dal multiforme potere. Di qui tutta una serie di fenomeni solo superficialmente diversi, ma in realtà risalenti a una comune matrice: dal gigantesco mare magnum della scuola e dell’università di massa allo sport professionistico, nuova palestra dell’‘orda primitiva’ [7], epocale e oppiaceo spettacolo di massa, fino alla rock music, popolare istituzionalizzazione della violenza e del rumore metropolitani, dispiegati in scenarî apocalittici, moderne bolge dantesche le cui torride fiamme siano state sostituite dal sinistro baluginio delle luci psichedeliche.
In un’epoca di continui rivolgimenti, insomma di transizione come la nostra, non poteva non essere coinvolta la tradizione: effettivamente la ‘crisi dei valori’ è uno dei grandi segni distintivi del nostro tempo, in una società in cui anch’essi, come ogni cosa, sono ridotti a prodotto economico, dunque mercificati, e il denaro, e non più l’uomo, «è misura di tutte le cose» [8]. In tale cataclisma, neppure la bellezza, categoria ontologicamente ineludibile, come fine o come mezzo, dell’opera d’arte, riesce a trarsi in salvo da una lenta ma inesorabile agonia, desacralizzata com’è, fra l’altro, dalla sua «riproducibilità tecnica» [9]. «La perte d’auréole colpisce anzitutto il poeta.» [10], che, disperato flâneur tra gli ‘orrori metropolitani’ delle ‘città tentacolari’, vede parallelamente vacillare uno dei suoi punti di riferimento più irrinunciabili, la donna, petrarchesco ‘strumento d’espressione’ da sempre deputato ad essere portatore del valore `bellezza’. Come dice Benjamin, già «il diciannovesimo secolo cominciò a inserire la donna, senza riguardi, nel processo della produzione mercantile. Tutti i teorici concordavano sul punto che la sua femminilità specifica era minacciata, e che tratti virili si sarebbero necessariamente manifestati in essa con l’andar del tempo [11]. Baudelaire approva questi tratti; ma nello stesso tempo vuole sottrarli alla sovranità dell’economico. [...] Il modello ideale della donna lesbica rappresenta la protesta dell’arte moderna contro l’evoluzione tecnica.» Vano eroico tentativo, di fronte alla manus tentacolare della società: «Nella prostituzione delle grandi città anche la donna diventa tale.» [12] Infatti, «L’ambiente oggettivo degli uomini assume, sempre più apertamente, la fisionomia della merce. Nello stesso tempo la réclame si accinge a coprire col suo bagliore il carattere di merce delle cose. Alla trasfigurazione menzognera del mondo delle merci si oppone la sua disposizione in senso allegorico. La merce cerca di guardarsi in faccia. E celebra la sua incarnazione nella prostituta» [13].
Di fronte a tutto questo, già Boutroux, richiamando col suo Contingentismo le «ragioni del cuore» e l’«esprit de finesse» di Pascal, cercava di spezzare le ferree catene del meccanicismo e dello scientismo, affidando alle «illusioni» e alla religione il compito di salvaguardare l’individualità e la libertà dell’uomo [14]. Ma sarà Bergson il primo tra i filosofi moderni a mettere in guardia l’uomo, in nome della grande tradizione umanistica, contro la crescente tendenza a considerare la tecnica come fine e non più come mezzo, rendendo l’individuo schiavo dei suoi stessi strumenti. «Il prevalere delle macchine», aveva profeticamente scritto Goethe nel lontano 1828, «mi preoccupa e mi tormenta. E un movimento che lentamente avanza come un temporale: arriverà e ci investirà». Il timore di fondo, in effetti, è che l’uomo possa smarrire «la formula / che gli Spiriti scongiura", come lo Zauberlehrling dell’omonima celebre ballata goethiana. Bergson ritiene che solo l’«intuizione» e l’«élan vital»possano fornire all’individuo una comprensione vera e profonda della realtà, aiutandolo a trovare nella «religione aperta» quel «supplemento d’anima» di cui l’uomo ha un sempre più irrinunciabile bisogno [15].
Non meno decisa, anche se fondata su presupposti in parte diversi, è la reazione anti-realistica e anti-positivistica di Gabriele D’Annunzio. Già nel 1893 il poeta abruzzese coglieva, con l’antesignana lussureggiante lucidità che gli era propria, il tramonto dell’Ottocento e la nascita di tempi nuovi: «L’esperimento è compiuto. La scienza è incapace [...] di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l’ingenua pace. [...] Non vogliamo più la verità. Dateci il sogno. Riposo non avremo se non nelle ombre dell’ignoto» [16].
Esemplare risulta, in effetti, l’iter umano e letterario di D’Annunzio attraverso il Novecento e la sua mitologia: sicché il viaggio che il poeta compie con la sua opera viene ad assurgere a epocale simbolo d’una paradigmatica saison en enfer dell’artista nella società contemporanea.
Andrea Sperelli, l’esteta, il dandy wildiano de Il Piacere (1889), la perfetta auto-incarnazione dannunziana, rappresenta il momento dell’illusione ancóra possibile: l’artista può celebrare, pur nello sfacelo ‘prossimo venturo’, la sua privata religione della bellezza, in un’orgogliosa seppur pericolante separatezza dalla volgarità della vita. Ma nel Trionfo della Morte (1894) lo stesso ‘cultore della bellezza’ è ormai contagiato dal virus, inesorabilmente compromesso dalla ‘malattia sociale’: da un lato, la tara familiare di vizio e di violenza; dall’altro, la sensualità morbosa e maledetta di Ippolita. Giorgio Aurispa, tragicamente sospeso a mezzo fra l’arte e la vita, insomma in una sorta di nefanda ‘non-vita’, vive sotto il segno incombente della morte: la bellezza come la ragione sono schiavizzate dalle due nuove insaziabili divinità moderne, il denaro e l’eros, «ridotto a puro sesso dopo che si è inaridita ogni trepidazione sentimentale» [17]. Già in Giorgio e Ippolita, e nella loro vicenda, è pienamente evidente il ‘carattere regressivo’, a base libidica sadico-orale [18], proprio degli eroi dannunziani (e dello stesso D’Annunzio): la ‘pulsione di morte’ si staglia sullo sfondo d’una disperata nostalgia dell’‘omeostasi originaria’, che progressivamente s’allontana sul filo d’una rovinosa caduta d’ogni speranza e valore. Nell’assedio sempre più incalzante della ‘società di massa’ non esistono aree franche dove rifugiarsi, essendo stati infranti tutti i confini, come in un impero che si sta dissolvendo sotto gli assalti dei barbari: solo nel ricongiungimento con la ‘madre-terra’, attraverso la morte, I’artista potrà ritrovare l’‘onnipotenza oceanica’ perduta [19]. E la morte sarà pure la suprema vendetta, l’unica disperata ed eroica ribellione possibile, che Giorgio porterà a compimento trascinando con sé Ippolita da uno scoglio fatale.
È da codesta medesima humus che nascono due memorabili pagine dannunziane: quella de Le Vergini delle rocce (1910), in cui la ‘morte della bellezza’ viene rappresentata attraverso gli edifici tutti uguali, privi d’ogni senso estetico, della ‘città neo-borghese’, che inarrestabilmente vanno fagocitando le antiche bellissime ville patrizie; quella, non meno significativa, de Il Fuoco (1910), in cui la ‘fine dell’estetico’ viene metaforicamente esemplificata dall’incontrastabile disfacimento del parco d’una villa veneta.
La parabola dannunziana sulla ‘condizione umana’ nel mondo moderno tocca la sua acme ne La Leda senza cigno (1916). Due sono i Leitmotiv che emergono nel romanzo: la misteriosa ammaliante bellezza della protagonista si rivela emblematicamente contaminata dalla volgarità della vita; come l’Elena di Maia (1903), divenuta serva d’un lupanare, la Leda che parla «come una piccola mondana» incarna la condizione della donna, e insomma della bellezza, nella società contemporanea: la ‘donna-bellezza’ è mercificata e involgarita anch’essa, e il suo simbolo non può che essere la meretrice, perduto, naturalmente, ogni potere salvifico per l’uomo [20]. L’altro personaggio decisivo, per la nostra indagine, è quello del musicista: anch’egli è preda della disperata trivialità del mondo, divenuto ormai una sorta di sconfinato postribolo; l’angosciosa infernale realtà [21] si apprende inesorabilmente con i suoi germi anche all’artista, simboleggiata dalla malattia che progressivamente lo consuma [22].
Effettivamente la volgarità, portata avanti dalla ‘nuova massa’ entrata nella storia socio-culturale moderna come un fiume in piena, finirà con l’essere uno dei segni precipui del Novecento: illuminanti sono in questo senso le metafore escretorie che appaiono nell’ultimo Montale come stravolto ‘correlativo oggettivo’ del mondo [23]. L’inarrestabile forza di espansione del linguaggio osceno, che tende a essere istituzionalizzato nella ‘società di massa’ (e privato della sua originaria forza d’urto socio-culturale), va evidentemente riconnessa all’àmbito d’una ‘coprolalia collettiva’, conseguenza d’una sessualizzazione d’origine sadico-anale, e quindi regressiva, del linguaggio, nonché d’un generale indebolimento del ‘Super-Io collettivo’, così importante nelle ‘civiltà di massa’. Tutto ciò ha un altro significativo corollario nel fenomeno che, con nostro neologismo, definiremmo dell’‘eroscopia’, cioè della tendenza alla rappresentazione diretta, verbale e/o iconica, dell’atto e delle parti sessuali [24].
In una società post-cristiana, in cui sempre più drammatico si avvertiva il `silenzio di Dio’, D’Annunzio finiva col reincarnare, anche qui antesignanamente, uno dei miti salienti del mondo contemporaneo, quello ineffabile di Narciso: «Ma per chi scriveva altresì: ‘l’espressione è vivere’, non vi è dubbio che l’archetipo di Narciso s’identificava col mito stesso della letteratura e col mistero carnale della parola nel sortilegio delle sue finzioni. Forse per questo nello specchio orfico di una lingua celebrativa che moltiplicava le maschere dell’eros, restava come sospesa, fra le ‘muse bendate’ della malattia e della morte, I’ombra notturna del grande rifiuto» [25].
È così che la reboante e tuttavia profetica voce di D’Annunzio si protendeva sul Nulla heideggeriano d’un vuoto senza fine: drammatico flatus vocis alla ricerca d’un senso di sé stesso nel labirinto del moderno, sulle incombenti rovine della ‘terra desolata’, dell’anti-leibniziano ‘peggiore dei mondi possibili’.

Roberto Pasanisi
(n. 11, novembre 2023, anno XIII)



NOTE

[1] Come dice Saul Bellow in un’intervista raccolta da Mervyn Rothstein per il «Corriere della Sera»: «Il ruolo dell’artista [...] consiste nel resistere alle forze snaturanti derivate dal progresso. “[...] Innanzi tutto, si conosce la verità di un poeta o di un artista quando il tuo cuore si gonfia e dice: sì, sì, proprio così, questo è vero. L’ho sempre saputo ma solo adesso lo vedo con chiarezza, perché lui lo ha detto.” [...] Ma, dice Bellow, c’è ancora speranza. “La nostra umanità per molti versi è ancora intatta. [...] Come lo sappiamo? Ebbene, c’è della gente comune che ancora piange quando assiste a una rappresentazione di Re Lear”.»
Sugli stessi presupposti sono fondate alcune dichiarazioni di Jonesco: «Sono certo che saremmo persi senza un ritorno ai valori spirituali. La via spirituale è l’ultima possibilità rimasta all’uomo. [...] L’arte è indispensabile: la qualità divide gli uomini, mentre l’arte li unisce profondamente. L’arte è il segno della nostra identità universale. [...] L’arte è tutto.» (Paolo Calcagno, L’unica realtà è l’assurdo, «Il Mattino», 23/VIII/1988).
[2] Heinrich Lausberg, Elementi di retorica [1967], tr. it., Bologna, Il Mulino, 1982, p. 95.
[3] «Uno degli arcani di cui la prostituzione divenne depositaria solo con l’avvento della grande città, è la massa. La prostituzione inaugura la possibilità di una comunione mistica con la massa. Ma l’avvento della massa è contemporaneo a quello della produzione di massa.» (Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti [1955], tr. it., Torino, Einaudi, 1981, p. 137). «In verità, la civiltà industriale-burocratica che è risultata vittoriosa in Europa e in Nord-America ha creato un nuovo tipo di uomo che si può descrivere come l’uomo dell’organizzazione, come l’uomo automa, e come l’homo consumens [o oeconomicus]. Egli è, per di più, homo mechanicus; con ciò intendo un uomo-aggeggio, profondamente attratto da tutto ciò che è meccanico e orientato contro ciò che è vivo. [...] Il nostro scopo principale è di produrre cose, e nel corso di questa idolatria per le cose, noi ci trasformiamo in beni di consumo. Le persone vengono trattate come numeri. [...] L’approccio agli uomini è astratto, intellettuale. Ci si interessa alle persone come a oggetti, alle loro proprietà comuni, alle regole statistiche del comportamento di massa, non agli individui viventi. Tutto questo si accompagna al crescente ruolo del sistema burocratico. In giganteschi centri di produzione, in città giganti, gli uomini vengono amministrati come se fossero cose; [...] Ma l’uomo non è destinato a essere una cosa, se diventa una cosa viene distrutto, e ancor prima che questo avvenga, egli è disperato e vuole uccidere la vita.» (Erich Fromm, Psicoanalisi dell’amore. Necrofilia e biofilia nell’uomo [1964], Roma, Newton Compton Editori, 19849, pp. 74-75 passim). Cfr. anche l’apologo chapliniano di Modern Times (1936), nonché quelli – letterarî – di Aldous Huxley (Brave New World, 1932), George Orwell (1984, 1950), Ray Bradbury (Fahrenheit 451, 1953), Roberto Vacca (La morte di Megalopoli,1974) e – cinematografici, epocali espressioni del"immaginario collettivo’ – di Stanley Kubrick (A Clockwork Orange,1971), Douglas Trumbull (Silent running, 1971), Boris Sagal (The Omega man 1972), Richard Fleischer (Soylent green, 1973) e Norman Jewison (Rollerball, 1975).
[4] Il gusto popolare, diceva Gramsci, «si è formato non alla lettura e alla meditazione intima ed individuale della poesia e dell’arte, ma nelle manifestazioni collettive, oratorie e teatrali» (Letteratura e vita nazionale, Torino 1966, p. 68): quello del pubblico giovanile, in particolare, che è divenuto in questi ultimi anni significativa parte in causa, anche per il suo accresciuto potere economico diretto, si è costituito attraverso i mass media e gli universi culturali della musica giovanile, rock specialmente. «Si osservi come norma generale che quanto più freddo è il messaggio, secondo la definizione di McLuhan, e più scarsa è la sua precisione, più iterativo dev’essere il messaggio per compensare il ‘rumore’ della comunicazione.» (Román Gubern, Immagine e messaggio nella cultura di massa [1974], Napoli, Liguori, 1976, p. 191).
[5] Ovvero d’una cultura ‘orizzontale’ e intellettualmente passivizzante, e che va dritta all’Inconscio.
[6] Cfr., tra i fenomeni più eclatanti, quello recentissimo e grottesco dei bronzi di Riace, epocale happening di business e spettacolo. Come le «esposizioni universali», essi sono diventati «luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce», «festa di emancipazione» culturale per le masse (Benjamin, Angelus..., cit., p. 151).
[7] Cfr. Sigmund Freud, Totem e tabù [1913],tr. it., Roma, Newton Compton Editori, 1970 e Id., Psicologia collettiva e analisi dell’Io [1921], in Psicoanalisi e società, tr. it., Roma, Newton Compton Editori, 19752. La violenza ‘ludica’ (playful) diventa, nell’‘uomo-massa’, violenza allo stato puro, scatenando liberamente la ‘pulsione distruttiva’ (cfr., in particolare, Id., Il disagio della civiltà [1929],tr. it., Torino, Boringhieri, 1971).
[8] Sensibili sono, in questo senso, le analogie col Trecento, di cui sembrano ciclicamente riprodursi, sia pure in una prospettiva assai più ampia e complessa, tanto il terremoto ideologico e culturale quanto la progressiva estensione della categoria dell’’economico’. Cfr., per la società contemporanea, anche la discussione di Fromm su Avere o essere? [1976],Milano, Mondadori, 1977; ma l’alienante drammaticità d’una condizione in cui il valore dell’uomo è legato ai suoi chrémata era già dolorosamente avvertita dalla cultura greca arcaica, da Teognide fino all’Anonimo dell’Athenaíon politeía.
D’altra parte, i ‘valori’ effettivamente rappresentano un elemento irrinunciabile per la sopravvivenza psichica dell’uomo moderno: come dice Joseph Wood Krutch in The Modern Temper, «Tutte le società che hanno oltrepassato il vigore della loro giovinezza rivelano la loro perdita di fede nella vita col non considerare più quei processi fondamentali che come mezzi a un fine. [...] La volontà subumana di vivere che è interamente sufficiente per l’animale può essere rimpiazzata dalla fede, la fede può essere rimpiazzata dalla filosofia, e la filosofia può attenuarsi finché diventa un puro gioco, come la moderna metafisica;». Cfr. anche la trascrizione poetica che di tutto ciò hanno dato varî poeti occidentali: da Eliot (The Waste Land, 1922; Fragment of an Agon, 1927) a Milosz (La Charrette) a Montale.
[9] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1936],tr. it., Torino, Einaudi, 1966.
[10] Benjamin, Angelus..., cit., p. 134.
[11] La preoccupazione, in realtà, non era senza fondamento. Il cuore del problema è, meyerianamente, di ordine psicobiologico: come dice Erich Fromm, «determinate differenze biologiche [specie di origine sessuale] risultano in differenze caratterologiche; tali differenze si mescolano con quelle direttamente prodotte da fattori sociali; queste ultime hanno effetti di maggior rilievo e possono anche aumentare, eliminare o ribaltare differenze biologicamente radicate» (Sex and Character, in «Psychiatry», 6, 1943). Da ‘rinforzo del comportamento’ agisce pure, a livello psicosociale, il meccanismo inconscio della «protesta virile» acutamente teorizzato da Adler.
[12] Benjamin, Angelus..., cit., p. 135, p. 137.
[13] Benjamin, Angelus..., cit., pp. 135-136.
[14] Cfr., in particolare, Émile Boutroux, Dell’idea di legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanea [1893], tr. it., Firenze, Vallecchi, 1925 e Id., Scienza e religione nella filosofia contemporanea [1908],tr. it., Milano, Mondadori, 1941.
[15] Cfr. specialmente Henry Bergson, L’intuizione filosofica [1911], in Introduzione alla metafisica, tr. it., Bologna, Zanichelli, 1949, pp. 69-94 e Maurice Merleau-Ponty, Elogio della filosofia [1953],tr. it., Torino, Paravia, 1958, pp. 12-30.
Sintomatico della condizione di spaesamento dell’uomo moderno di fronte agli ‘oggetti’ sarà pure, in tempi più recenti, il successo incontrato in Occidente dal Buddhismo Zen e, sebbene in misura assai minore, da altre scuole di pensiero orientali come il Taoismo.
[16] Gabriele D’Annunzio, La morale di Emilio Zola, in “La Tribuna”, 1893. Come dirà Pascoli due anni dopo: «il sogno è l’infinita ombra del Vero» (Alexandros, v. 10, in Poemi Conviviali).
[17] Roberto Pasanisi, II Poema Paradisiaco, in «Alla bottega», 2, 1986, pp. 19-21, p. 20.
[18] Cfr. Karl Abraham, A Short Study ot the Development of the Libido,London, Institute of Psychoanalysis and Hogarth Press, 1927.
[19] Cfr. Sándor Ferenczi, Thalassa. Psicoanalisi delle origini della vita sessuale [1924],Roma, Astrolabio, 1965. Cfr. anche la nostra Recensione a Ivan Fónagy, La ripetizione creativa. Ridondanze espressive nell’opera poetica, Bari, Dedalo, 1980, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale», Sezione Romanza, XXVIII, 1, 1986, pp. 407-410.
[20] Cfr. Pasanisi, II Poema..., cit., pp. 20-21. Cfr. pure, ex contrario, la funzione angelicamente salvifica della donna propria del filone istituzionale della tradizione lirica occidentale, fondata com’è, nelle sue strutture profonde, sulla rielaborazione del Complesso di Edipo e sulla figura della ‘donna-madre’.
[21] The Age of Anxiety chiama Auden la nostra epoca (così s’intitola un poemetto del ‘48).
[22] Un significativo, apocalittico simbolo epocale è rappresentato in questo senso dall’Aids, che, attaccando uno dei ‘valori fondamentali’ nella storia della società umana, l’amore, dà pure un’illuminante, mitologica esemplificazione di cosa esso sia e rappresenti nello stravolto mondo moderno. In tutto questo emerge il drammatico straniamento di un’umanità che ha smarrito l’armonia fra ánthropos e phýsis, che era stato uno dei più profondi insegnamenti lasciati in eredità dal mondo classico alle generazioni a venire, e che è il cuore dell’Umanesimo. L’uomo moderno, insomma, per usare una categoria ideologica della cultura greca arcaica, si è macchiato di hybris, valicando con folle ‘tracotanza’ i suoi limiti e sconvolgendo il naturale ordine delle cose, che ora inesorabilmente gli si rivoltano contro, di giorno in giorno più minacciose.
[23] v., ad esempio, la I Botta e Risposta di Satura (1971). Cfr. specialmente Umberto Carpi, Il poeta e la politica. Leopardi, Belli, Montale, Napoli, Liguori, 1978, pp. 269-355.
[24] Cfr. Otto Fenichel, Trattato di psicoanalisi delle Nevrosi e delle Psicosi,tr. it., Roma, Astrolabio, 1951, pp. 332-338. L’‘eroscopia’ si inscrive sotto il segno della scopofilia e dell’esibizionismo (nel senso psicoanalitico del termine), pulsioni entrambe istituzionalizzate a livello collettivo nella società contemporanea, specie per la loro intima connessione col narcisismo (cfr. ibidem, cit.,pp. 86-89).
[25] Ezio Raimondi, Il silenzio della Gorgone, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 110-111. Sulla quaestio spiritualismo / materialismo cfr. Giuseppe Graziano, Per una conoscenza separata, in «Alla bottega», 3, 1988, pp. 16-19. Per le fondamentali idee sulla ‘società neo-borghese’ di un grande lucidissimo intellettuale, v. Enrico Cerquiglini, Pasolini e il suo cinema, in «Alla bottega», 3, 1988, pp. 1-9. Sull’omologia tra fenomeni letterarî, ideologici e sociali e sulla reificazione degli esseri umani vd. il pensiero di Lucien Goldmann quale emerge, in particolare, dal saggio del 1964, Pour une sociologie du roman.