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L’attimo che scorre nell’eterno
Parlare di poesia oggi, facendone affiorare un laboratorio interiore di raffinate emozioni, vuol dire parlare della poesia, del suo ruolo e del suo senso nella società moderna, dopo quella che fu chiamata la ‘civiltà delle macchine’.
È quello che si chiedeva Eugenio Montale nel discorso che pronunciò in occasione del conferimento del Premio Nobel, il 12 dicembre 1975: È ancora possibile la poesia? «Nel mondo c'è un largo spazio per l'inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell'inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi. […] Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. […] Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione. […] Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell'uomo robot, quale può essere la sorte della poesia?».
L’engagement estetico, psichico e sociale della poesia risponde con precisione a codesta domanda: «L’uomo tende a addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di riflettersi, perde l’abitudine di giudicarsi, non sa più chiedersi chi è. È allora che va creato artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica» [1].
Perché un grande romanzo o una grande poesia possono insegnarci – sulla psiche umana – molto più di un grande trattato di psicologia.
Come ha scritto Antonio Alberto Semi, «Il fatto che queste materie [umanistiche] non si insegnino più forse non è dovuto tanto alla perfidia delle classi dominanti o ad altre interpretazioni paranoicali della realtà, quanto al fatto che l’umanità lotta contro il sapere e che la conoscenza vera, quella che produce mutamenti a qualunque livello, viene vista come la peste nera. Le resistenze, in fin dei conti, sono sempre anche delle resistenze a conoscere» [2]. E più avanti: «Kraepelin o del DSM III [sic]. […] E poi il dato fondamentale è questo: mentre i manuali di psichiatria ci forniscono, se vogliamo e nel migliore dei casi, degli strumenti per capire, non ci forniranno mai delle esperienze. Per quanto siano ben scritti, essi ci comunicano al massimo il modo di ragionare di un certo autore e la fondatezza o meno delle conclusioni cui porta questi modi di ragionare. Una funzione fondamentale dell’arte, invece, è quella di facilitarci l’identificazione in altre situazioni mentali, in altre esperienze umane». E infine: «L’espressione metaforica è, in genere, più ricca emotivamente. Per darne ragione, posso accennare all’ipotesi che la metafora, in quanto verbalizzazione di una immagine (“verme”) mantenga più stretti i rapporti tra le rappresentazioni di parola e le rappresentazioni di cosa e consenta un’espressione migliore dell’importo di affetto legato al complesso costituito dalle due categorie di rappresentazioni» [3].
E sono gli artisti stessi che ci rispondono, i letterati, i filosofi, i cineasti artisti (idest quelli che producono il ‘cinema d’arte’, totalmente a sé rispetto al cinema mainstream, ovvero commerciale): chi potrebbe meglio di loro spiegarci a che serve la poesia? E come e perché sia sopravvissuta al dominio della tecnica [4], e come fieramente la contrasti? Ma anche i filosofi della scienza: «Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono neppure toccati» [5].
Perché, domandate? Beh, perché «Sono certo che saremmo persi senza un ritorno ai valori spirituali. La via spirituale è l’ultima possibilità rimasta all’uomo. [...] L’arte è indispensabile: la qualità divide gli uomini, mentre l’arte li unisce profondamente. L’arte è il segno della nostra identità universale. [...] L’arte è tutto». «Ma oggi, dice sempre Ionesco, viviamo sotto la dittatura dell’informazione politica e dello sport. Nessuno parla più dell’uomo, dell’arte: solo politica e sport. Inoltre, siamo vittime dei banchieri, del denaro, mentre la sola salvezza dell’uomo è l’arte» [6].
Perché? Perché «La cultura», come ha detto uno dei maestri del romanzo del Novecento, «sta abdicando ai suoi doveri. La letteratura ha potere quando la gente è ansiosa di assorbirla e farla diventare parte della propria vita. Altrimenti i prodotti letterari sono solo educate nullità, come le signorine di un tempo che prendevano lezioni di pianoforte. Ma invece, quando la parola letteraria penetra dentro di te, ti cambia l’anima. Questo processo, che io chiamo di umanizzazione attraverso la letteratura, non sta più avendo luogo, si sta esaurendo» [7]: «Corrotti dal conforto, dall’agio di vivere, accettiamo sconsideratamente questa nuova forza, questa rivoluzione tecnologica che è il motore della nostra società e sottomette gli esseri umani con la stessa sostanziale ferocia, anche se in forme più gentili, di quello che è accaduto in Urss». Ma, dice sempre Bellow, «Il ruolo dell’artista [...] consiste nel resistere alle forze snaturanti derivate dal progresso» [8].
E allora cosa opporre al dominio del funzionalismo moderno, del pragmatismo più bieco e autocratico, del consumismo più radicale, che hanno trasformato l’essere umano in consumatore vorace e ottuso del mercato globale?
Ci risponde un grande romanista in uno dei più classici saggi sulla poesia del Novecento: «La lirica è rimasta comunque, nella sua potenza grandiosa e pur così lieve, una delle libertà e delle audacie con cui la nostra epoca riesce a sfuggire alle catene della funzionalità» [9].
È un romanziere cattolico francese, George Bernanos, che rincara la dose: «Regimi che un tempo erano agli antipodi, a causa dell’ideologia, ora sono strettamente uniti dalla tecnica. Un mondo guadagnato per la tecnica è perso per la libertà. Il dilagare della civiltà delle macchine coincide con il calo, sempre più crescente, della spiritualità dell’uomo» [10].
Ma l’arte è ribellione estetica allo ‘stato delle cose’, ricreazione continua del mondo, accensione inquieta e lacaniana del desiderio e dell’immaginazione, estasi sublime e lacerante di eros e poesia – è θεῖa μανία, come diceva Platone nel Fedro: «Considero la poesia una fonte d’innocenza colma di risorse rivoluzionarie. La mia missione consiste nel dirigere queste forze contro un mondo che la mia coscienza rifiuta di accettare, esattamente in modo da rendere quel mondo, attraverso continue metamorfosi, più in armonia con i miei sogni» [11].
È un altro poeta, ma anche fine teorico, che ci dà la risposta engagé alla vexata quaestio: «Il problema, allora come oggi, e oggi certamente più che allora, è quello di sviluppare a fondo le pulsioni anarchiche che sono alla radice, inequivocabilmente, di tutta la grande antipoesia di questo secolo che muore, portando tali pulsioni dal terreno della rivolta al terreno della rivoluzione. [...] Perché si tratta pur sempre, come si diceva anche allora, e come sarebbe bene tornare a dire anche oggi, io credo, di cambiare la vita, e di modificare il mondo» [12].
È questa la risposta finale alla domanda di Montale: la poesia non è solo ancora possibile, ma è soprattutto necessaria quanto il pane, quanto l’acqua, quanto l’aria che ci fa vivere e ci aggancia – complessa, difficile e indispensabile quanto le cose semplici e basilari – secondo l’insegnamento dell’antica meditazione Vipassana, al presente, ovvero all’attimo che scorre da sempre e per sempre nell’eterno.
Perché nulla dura per sempre, tranne la poesia.
È la malia magia sublime e terrifica dell’arte, della bellezza, dell’amore, dell’emozione, del desiderio. Della poesia, insomma. E un poeta sceglie di entrarci col cuore, nel registro delle emozioni e di una re-interpretazione del mondo tutta personale e soggettiva, sul filo sottile e inquieto dei battiti del cuore. È quello che ci manca, è quello che ci vuole. E noi gli saremo grati per questo. Toto corde, come si diceva una volta.
Roberto Pasanisi
(n. 1, gennaio 2023, anno XIII)
NOTE
[1] Pier Paolo Pasolini, La rabbia, in «Vie nuove», 38, 20/IX/1962.
[2] Alberto Antonio Semi, Tecnica del colloquio clinico, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1985.
[3] Ibidem.
[4] Cfr. Emanuele Severino, Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 1998; Natalino Irti – Emanuele Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, Laterza, 2001; Emanuele Severino, Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rizzoli, 2002; e Id., Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 2005.
[5] Ludwig Wittgenstein, Tractatus, 6. 52.
[6] Paolo Calcagno, L’unica realtà è l’assurdo (intervista a Eugène Ionesco), «Il Mattino», 23/VIII/1988.
[7] Giovanni Forti, Addio, mia vecchia America (intervista a Saul Bellow), in «L’Espresso», 11/II/1990, pp.106-110, p.109.
[8] Ibidem, p. 110.
[9] Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna, Milano, Garzanti, 1971.
[10] Georges Bernanos, La rivoluzione della libertà. La Francia contro i Robot e altri testi inediti, Siena, Cantagalli, 2012 [ed. or. 1944].
[11] Cit. da Nicola Crocetti, Introduzione a Odisseo Elitis, Sole il Primo, Milano, Guanda, 1980.
[12] Edoardo Sanguineti - Jean Burgos, Per una critica dell’avanguardia poetica in Italia e in Francia, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 7-28, p. 28.
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