Giorgio Caproni: l’assoluto e le cose

Una vocazione precoce per la poesia [1], scandita per cinquanta anni sul filo d’una posizione appartata ma risentita, di là dalle mode e dal volgere turbinoso degli anni, è certo una delle cifre caratterizzanti dell’arte di Giorgio Caproni. Negli anni dell’Ermetismo, la sua poesia si ritaglia uno spazio autonomo, il cui primo referente sono piuttosto Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (uno degli autori alle origini della poesia moderna in Italia) e «gli altri ribelli apuani» [2], lungo quella grande tradizione ligure che lui stesso avrebbe contribuito a disegnare, non senza polemiche, sul piano critico.
Nato a Livorno nel 1912, non è azzardato né difficile rintracciare nella sua stessa in fondo scarna biografia la radice di quell’aerea e fresca musicalità, di quella grazia un po’ alla Chiabrera, quasi da canzonetta settecentesca, esile come un fiore di serra, che contrassegna fortemente tutta la sua produzione giovanile, da Come un’allegoria (1932-1935) (1936; il suo libro d’esordio) a Cronistoria (1943), ma che il poeta non dimenticherà del tutto nemmeno nei libri della maturità. Fino ai diciotto anni, infatti, Caproni studia violino, musicando fra l’altro brani del Poliziano (l’Orfeo), del Tasso e del Rinuccini; abbandonàti gli studî regolari, continuerà tuttavia ad esercitarsi sull’amato strumento per tutta la vita.
La sua poesia, del resto, si contrassegna sin dall’inizio per un’attenzione elettiva alla tecnica, sul filo d’una sapienza formale volta a costruire il verso con un’accurata opera di cesellatura, di oraziano labor limae: caratteristici sono l’uso della parentesi e dei trattini, che genialmente disegnano differenti piani nel verso, creando un affascinante e spericolato giuoco d’intersezioni e di rimandi, quasi che il filo del discorso si insegua e ricada continuamente su sé stesso, procedendo a spirale piuttosto che in linea retta [3].
E il poeta stesso, in un continuo e illuminante intersecarsi di produzione poetica e meditazione critica ed autoriflessione su di essa – secondo una cifra caratteristica del poeta moderno, da Baudelaire in poi [4] –,  a indicare i Leitmotiv fondamentali della sua poesia: «All’origine dei miei versi [...] direi che c’è la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiata da un vivo senso della labilità delle cose, della loro fuggevolezza: coup de cloche, come dicono i francesi, o continuo avvertimento della presenza, in tutto, della morte. Sono versi un poco “macchiaioli”, che risentono molto del mio soggiorno, da bambino, nelle campagne fra Pisa e Livorno, in casa di un certo Cecco, allevatore e domatore di cavalli». [5]
Già nei primi versi emergono i paesaggi e la luce delle campagne toscane, ocra e verde, còlte attraverso una musica ora ariosa ora dissonante, ma che improvvisamente si slancia in ‘aperture’ di stupefatta largura, come nell’explicit di Prima luce:

La terra, con la sua faccia
madida di sudore,
apre assonnati occhi d’acqua
alla notte che sbianca.

Gli uccelli sono sempre i primi
pensieri del mondo. [6]

Si colgono qui alcuni dei moduli compositivi proprî della poesia caproniana: la ‘leggerezza’ quasi impressionistica del tocco, il morbido surrealismo delle immagini («apre assonnati occhi d’acqua»), in cui si stempera la pur presente concretezza delle cose, l’aspra dissonanza dell’enjambement attributo/sostantivo («primi / pensieri»), la ricchezza dei referenti culturali (i carducciani pensieri della conclusio, tutt’uno con quelli di San Martino [7]). La figura femminile, evocata nei tratti diafani del ricordo, manifesta montalianamente una sua lontana funzione salvifica soltanto attraverso la memoria: «[...] Dietro / i vetri, nello specchiato / cielo coi suoi rondoni / più fioco, / da me segreta ormai / silenziosa t’affanni / come nella memoria». [8]
L’immagine, tutta giuocata sulla connotazione della ‘trasparenza’ dei vetri (metafora, d’altronde, del ricordo), ha la delicatezza impalpabile e pur luminosa dell’acquerello, espressa nella medietas di uno stile che spazia senza sussulti dal registro ‘alto’ a quello quotidiano, secondo un modus scribendi proprio di tutta la lirica caproniana.
Anche sugli exempla e sulla temperie più profonda dei suoi versi è ancóra il poeta stesso a illuminarci: «Le mie vere fonti sono i poeti delle origini, dai siciliani ai toscani prima di Cavalcanti: poeti che usavano una lingua ancora inesistente, e quindi dura, spigolosa, non addomesticata a ritmi cantabili. Ed è stata proprio questa durezza, questa musicalità non dico sgradevole, ma tuttavia non consolatoria, che ho cercato di riprodurre, almeno da un certo punto in poi». [9] A quelli citati da Caproni vanno aggiunti i modelli di Lorca, di Antonio e Manuel Machado, di Azorín, di Ungaretti. Si vedano, a mo’ di specimen, versi come «il paese, tale nel cuore / si turba, / sebben lo tenga / amore, il tuo remoto / viso al cadere fitto / dell’ore.» [10], in cui sapientemente si mescidano suggestioni dugentesche e scansione ungarettiana, sottese al tema tutto caproniano della labilità irreversibile e nostalgicamente rivissuta d’uomini e cose.
In Finzioni, la sua terza raccolta, del ‘41, il poeta livornese prosegue con strenua coerenza il suo discorso poetico, sempre intessuto di ariose e magiche ouverture, sul filo d’una stilnovistica dulcedo e d’un senso di continuo e stupefatto miracolo:

di sale - e sono vele
al vento, sono bandiere
spiegate a bordo l’ampie
vesti tue così chiare.

Il prodigio della presenza metafisica di madonna è còlto, ancóra una volta, tramite il consueto ‘tu’ di sapore montaliano: l’insegnamento del maestro dell’Ermetismo è in effetti qua e là presente, come nei versi di Cronistoria (1943), l’ultima raccolta di quella che potremmo definire la ‘prima maniera’ caproniana:

Alzata la brace nera
di gioventù, un linguaggio
più esteso alla bandiera
del Quirinale impone
la tua insegna - il tuo nome.

Tutta la produzione successiva, da Stanze della funicolare in poi (1952), appare segnata dall’esperienza tragica della guerra, e poi dal sempre crescente smarrimento di fronte al nuovo mondo emerso dalle macerie, in cui il poeta stenta ormai a riconoscersi: la scansione poetica si amplia, fino a rendere misura del discorso non più il verso, ma l’intera strofa, che acquisisce un’architettura più complessa e difficile, ma non per questo meno persuasiva, segnata com’è da un uso ancor più rimarcato dell’enjambement. E  il poeta stesso, coniugando, more solito, un’acuta autoriflessione critica al suo fare poetico, che ci informa sulla sua metánoia; che non è, scilicet, solo stilistica, ma che implica un’evoluzione e un approfondimento coerente e spericolato della sua Weltanschauung: «[...] ormai è giunto il momento, dopo tanto paziente e isolato lavoro sulla parola [...] di indirizzare risolutamente il gusto al discorso: di ritentare insomma, dopo tanta effusione, la composizione, un’ombra almeno di ciò che comunemente s’intende per poema, tentando alfine il salto, ricchi di tanta esperienza formale, dalla lirica pura alla poesia. Un salto sì, dall’alto in basso, ma appunto per questo dall’astrazione (dalla solitudine) alla vita concreta (alla società)». [11]
La poesia di Caproni appare sempre più intessuta di echi e iterationes fittissimi, che sovente gli servono per evocare scenarî di squallida e grigia quotidianità, di ascendenza eliotiana, nei quali la stessa figura femminile, smessa ogni soave suggestione trascendente, è solo una pallida immagine dell’inferno terreno, la cui ambientazione è ancóra quella delle trattorie vocianti e dei bar fumosi dell’anteguerra, ma stavolta divenuti metafora e luoghi elettivi d’una desolata modernità:

Perché è nebbia, e la nebbia è nebbia, e il latte
nei bicchieri è ancor nebbia, e nebbia ha
nella cornea la donna che in ciabatte
lava la soglia di quei magri bar
dove in Erebo è il passo. E, Proserpína
o una scialba ragazza, mentre sciacqua  
i nebbiosi bicchieri, la mattina
è lei che apre alla nebbia che acqua
(solo acqua di nebbia) ha nella nebbia
molle del sole in cui vana scompare
l’arca alla vista. [...] [12]

È in questi anni, in effetti, che Genova (dove il poeta si era trasferito dall’età di dieci anni) diventa per Caproni luogo mitico d’ogni fare poetico ed irripetibile «città dell’anima»: «Il punto di stazione da cui guardo Genova non è quello, scelto ad arte, del turista. E un punto di stazione che si trova dentro di me. Perché Genova l’ho tutta dentro. Anzi. Genova sono io. Sono io che sono “fatto” di Genova». [13] Il referente lo apparenta, per certi aspetti, a quell’altro grande cantore della città ligure che fu il Campana dei Canti orfici (1914), specialmente in una poesia come Genova, o di quella sorta di frammentario abbozzo d’un poema sulla città, di cui una lirica come Piazza San Giorgio costituisce uno dei momenti più significativi [14].
Con Il seme del piangere (1959) Giorgio Caproni sembra riprendere alcune movenze giovanili, ripercorrere, con più matura consapevolezza, le antiche, soavissime ariette, malinconicamente addolcite, stavolta, di vaghe ascendenze sabiane e penniane; la morte, uno dei temi cruciali dell’ultimo Caproni, comincia a farsi strada in maniera preponderante, seppure ancóra esorcizzata in tristi ma musicali ‘cantabili’, nello scenario tipicamente caproniano della stazione:

Chi avrebbe mai pensato, allora,
di doverla incontrare
un’alba (così sola
e debole, e senza
l’appoggio d’una parola)
seduta in quella stazione,
la mano sul tavolino
freddo, ad aspettare
l’ultima coincidenza
per l’ultima destinazione?

Nella raccolta successiva, Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965), il poeta approfondisce ulteriormente le sue tematiche, rendendo sempre più universale la sua solitudine e il suo straniamento in un mondo inesorabilmente travolto dalla sirena del tecnologismo e della mercificazione [15]: Il gibbone costituisce uno specimen particolarmente emblematico del motivo, nonché una delle liriche più famose e antologizzate del poeta; qui il contrasto fra ‘città ideale’ e ‘città reale’ si fa straordinariamente struggente nella sua definitiva insanabilità, là dove la ‘città dell’anima’ si risolve in uno scintillio favoloso di luci:

Nell’ossa ho un’altra città
che mi strugge. E là.
L’ho perduta. Città
grigia di giorno e, a notte,
tutta una scintillazione
di lumi - un lume
per ogni vivo, come
qui al cimitero, un lume
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
- mai, - mi ricondurrà.

L’ultimo Caproni, da Il muro della terra in poi (1975), amplia il suo discorso anche sul piano dei referenti culturali, intessendo i suoi libri, attraverso una ricca mèsse di note, d’un fitto e sapiente giuoco di richiami letterarî, che ne accresce fortemente la risonanza; la sua poesia, nel contempo, perde ulteriormente di concretezza, e le cose si riducono a pallidi, inafferrabili simulacri, còlte sul filo di risentiti ossimori:

Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato. [16]

Nelle raccolte successive, fino a Il franco cacciatore (1982), l’ispirazione caproniana sembra ulteriormente incupirsi, eleggendo a modello il I canto dell’Inferno dantesco, ma attingendo a tratti echi vagamente eliotiani: «Gli amici sono spariti / tutti. Le piazze / sono rimaste bianche». [17] Il tema centrale diviene quello del ‘doppio’: come dice in Geometria, «[...] Così si forma un cerchio / dove l’inseguito insegue / il suo inseguitore. / Dove non si può più dire / (figure concomitanti / fra loro, e equidistanti) / chi sia il perseguitato / e chi il persecutore.»; o ancóra, in Rivelazione: «Mi sono risolto. / Mi sono voltato indietro. / Ho scorto / uno per uno negli occhi / i miei assassini. / Hanno / - tutti quanti - il mio volto».
Siamo così all’ultima raccolta, pubblicata postuma a cura di Giorgio Agamben: «La “res amissa”, che doveva essere l’idea centrale, rimanda anch’essa a una ricerca, a una caccia: quella al Bene perduto, a un regalo prezioso di cui si è cancellata ogni memoria [...]. Ma l’assenza può riempire ogni fessura, diventare tema conduttore ineludibile; e la ‘cosa’ perduta prende il posto della guida, da tempo smarrita e mancante» [18] nel cháos informe della postmodernità [19]. Così quel bene perduto può farsi a tratti metafora politica, in versi epigrammatici dove un acre e amaro umorismo scaglia la sua maledizione contro l’Italia ribalda e allo sfascio di questi anni oscuri: «Laida e meschina Italietta. / Aspetta quello che ti aspetta. / Laida e furbastra Italietta.» [20]; oppure: «Fra le disgrazie tante / che mi son capitate, / ahi quella d’esser nato / nella “terra di Dante”». [21]
Così l’ultimo Caproni, attraverso una poesia sempre più ‘filosofica’, si misura col tema dell’‘assenza di Dio’, alla ricerca della comprensione di tutta un’epoca, del senso ultimo dell’uomo e delle cose: ne nasce una poesia enigmatica e misteriosa, tutta accesa di improvvisi baluginii nel buio, eterna metafora della ricerca dell’uomo che insegue infinitamente sé stesso. Sullo sfondo, il dramma già fatto magistralmente presente da Novalis: «Noi cerchiamo dappertutto l’assoluto e troviamo sempre e soltanto cose».


Roberto Pasanisi
(n. 11, novembre 2022, anno XII)



NOTE

1) Il poeta sostiene di avere avuto il «baco della letteratura» fin dalle scuole elementari (Jolanda Insana [a cura di], Molti dottori nessun poeta nuovo. A colloquio con Giorgio Caproni, in «La Fiera letteraria», 19/I/1975).
2) Carlo Bo, La nuova poesia, in AA. VV., Storia della Letteratura Italiana, Milano, Garzanti, 1969, 9 voll., vol. IX, pp. 237-384, p. 379.
3) «Qualche più visibile profitto, semmai, i miei versi possono averlo tratto dallo studio dell’armonia e della composizione. La musica, come l’architettura, più d’ogni altra arte, forse, rende evidente quanto sia importante, anzi necessaria, la tecnica, non certamente come fine ma come mezzo»: così Caproni in Ferdinando Camon (a cura di), Il mestiere di poeta, Milano, Lerici, 1965, p. 128.
4) Cfr. Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna [1956], tr. it., Milano, Garzanti, 1971.
5) Giorgio Caproni, `Il Taccuino del vecchio’, in “Forum italicum”, VI, 2, 1972 (ma già nel «Punto», 14/I/1961).
6) Come un’allegoria (1932-1935).
7) «Sta il cacciator fischiando / su l’uscio a rimirar // tra le rossastre nubi / stormi d’uccelli neri, / com’esuli pensieri / nel vespero migrar.» (Rime nuove, 1887).
8) Si noti, ancóra una volta, il risentito enjambement attributo/sostantivo di «specchiato / cielo».
9) Stefano Giovanardi (a cura di), Credo in un Dio serpente (Intervista a Giorgio Caproni), «La Repubblica», 5/I/1984.
10) Immagine (Ballo a Fontanigorda, 1938: la sua seconda raccolta).
11) Giorgio Caproni, La parte dell’attor giovane, «Mondo operaio», 10/XII/1949.
12) Stanze della funicolare (1952).
13) Genova di tutta una vita (1983), p. 9.
14) Dino Campana, Canti orfici e altri scritti, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 19626 (I ed. 1941).
15) Cfr., su tutta questa tematica, Roberto Pasanisi, L’‘uomo-massa’ e la ‘morte della bellezza’: la coscienza dell’Occidente alle soglie del Nulla, in «Pragma», 1, 1990, pp.33-41; Id., Il poeta tra le rovine. Fra ‘civiltà di massa’ e ‘morte dei valori’ una via oltre la modernità, in «Nuove Lettere», I, 2, 1990, pp. 8-18 e Id., Il ‘folle scialo’. L’Italia allo sbando, la ‘falsa soggettività’, l’industria culturale, in «Nuove Lettere», II, 3, 1991, pp. 11-22.
16) Ritorno (Il muro della terra, p. 392).
17) Cfr. The Waste Land, II, The Fire Sermon, vv. 179-181: «[...] The nymphs are departed. / And their friends, the loitering heirs of city directors; / Departed, have left no addresses».
18) Adele Dei, Giorgio Caproni, Milano, Mursia, 1992, p. 247.
19) Cfr. Roberto Pasanisi, Il caos e l’eticità: la poesia post-moderna di Nino Velotti, Prefazione a Nino Velotti, Giardino di Pésah, Roma, Edizione del Giano, 1991, pp. 5-7.
20) Alla patria. Si noti il sapiente contrasto fra il tono ‘sublime’ del titolo (che richiama polemicamente tutta una tradizione di poesia civile, segnatamente quella risorgimentale) e la materia e lo stile volutamente ‘bassi’ del testo.
21) Ahimè. Cfr., su questo tema, Roberto Pasanisi, Il ‘folle scialo’. L’Italia allo sbando, la ‘falsa soggettività’, l’industria culturale, in «Nuove Lettere», II, 3, 1991, pp. 11-22.

Bibliografia

Opere di Giorgio Caproni
Come un’allegoria (1932-1935), Genova, Emiliano degli Orfini, 1936;
Ballo a Fontanigorda, Genova, Emiliano degli Orfini, 1938;
Finzioni, Roma, Istituto Grafico Tiberino, 1941;
Giorni aperti. Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali, Roma, Lettere d’oggi, 1942;
Cronistoria, Firenze, Vallecchi, 1943;
Stanze della funicolare, Roma, De Luca, 1952;
Il gelo della mattina, Caltanissetta, Sciascia, 1954;
Il passaggio d’Enea, Firenze, Vallecchi, 1956;
Il seme del piangere, Milano, Garzanti, 1959;
Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, Milano, Garzanti, 1965;
Il `Terzo libro’ e altre cose, Torino, Einaudi, 1968;
Versi nella nebbia e dal monte, Trieste, Alut, 1968;
Versi fuori commercio (trad. in francese di Jacques Réda), Luxembourg, Origine, 1970;
4 poesie di Giorgio Caproni, con 9 dipinti di Mario Marcucci, Firenze, Pananti, 1975;
Il muro della terra, Milano, Garzanti, 1975;
Poesie, Milano, Garzanti, 1976;
Erba francese, Luxembourg, Origine, 1979;
L’ultimo borgo. Poesie (1932-1978), Milano, Rizzoli, 1980;
Il franco cacciatore, Milano, Garzanti, 1982;
Genova di tutta una vita, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1983;
Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1983;
Il labirinto, Milano, Rizzoli, 1984;
Il conte di Kevenhüller, Milano, Garzanti, 1986;
Allegretto con brio, Lugano, Laghi di Plitvice, 1988;
Allegretto con brio, Paris, Fourbis, 1988;
Poesie 1932-1986, Milano, Garzanti, 1989;
Res amissa, a cura di Giorgio Agamben, Milano, Garzanti, 1991.