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Ricordando Marian...
Circa un anno fa, in occasione di una riunione del premio Balzan tenutosi a Roma, ho conosciuto Victor Stoichiță, il grande storico rumeno di storia dell’arte. Non ci eravamo mai incontrati, ma presto nella conversazione è apparso il nome di Marian ed è stato, attraverso di lui, come se ci fossimo conosciuti da tempo. Qualche giorno dopo, la posta mi portò un regalo inaspettato e bellissimo: un libro di Victor, Oublier Budapest, con un biglietto in cui mi si diceva che nelle ultime pagine non avrei avuto difficoltà a riconoscere Marian.
E in effetti è stato così: con pochi tratti dedicati al sorriso di quello studente incontrato nell’aereo per Roma, che grazie ad una borsa di studio per l’Italia, lo portava finalmente lontano dal regime di Ceaușescu, dopo peripezie burocratiche e timori ricorrenti, Victor aveva reso vivo e indimenticabile il nostro comune amico, riuscendo a dare in tre righe anche il segno di un destino, di una visione comune che si apriva a due giovani poi rivelatasi veramente straordinari, portatori emblematici di una storia e di un destino che hanno segnato anche la nostra vita e l’Europa. Un destino strano, dopotutto, sul piano personale, guidato insieme dal caso ma anche da un filo non casuale: a Roma io avrei conosciuto benissimo Marian, durante i suoi studi e poi ancora quando era ormai un affermato filologo e critico, ma non avrei mai conosciuto, se non un anno fa, dopo la sua morte, il suo amico Victor.
Chi ha conosciuto Marian, prima ancora che dalla sua straordinaria cultura linguistica e sapienza culturale, non poteva non restare affascinato dai suoi occhi azzurri e da uno sguardo in cui si univano evidente acutezza e forza di penetrazione e insieme dolcezza e apertura all’Altro e al mondo ma che nel contempo - caso straordinario - rivelava anche conoscenza profonda del mondo, dei suoi drammi e delle sue tragedie e insieme delle sue tante bellezze e grandezze. Quelle bellezze che per Marian erano rappresentate, quasi come filtro e sublimazione delle brutture del mondo, dalla sua passione per la letteratura e per quella filologia che alla letteratura è legata come retro di una stessa pagina.
Per questo forse Marian scelse come suo unico referente e giudice la cultura e la letteratura, rifiutando posti di responsabilità politica che pure per un certo periodo, dopo la rivoluzione rumena e dopo aver dato un contributo importante alla nuova Università del dopo-Ceaușescu, si trovò ad occupare. In una lunga e intensa conversazione che avemmo durante un soggiorno in una casa di campagna, in Umbria, presso una cittadina amata da Marian anche per ragioni letterarie, Todi, ci trovammo a parlare di politica. Io ero curioso riguardo alle vicende rumene, narrate da un protagonista speciale e attendibile; Marian evidentemente da tempo aveva alcune domande da pormi riguardo alla mia appartenenza al Partito comunista italiano, un Partito che quantomeno nel nome evocava per lui un terribile e triste passato, tanto da non capire il senso delle mie posizioni, ovvero di un amico che egli stimava anche culturalmente e scientificamente. Alla fine della conversazione, dopo avermi spiegato con assoluta obiettività e intelligenza, quasi sine ira et studio, le ragioni del crollo economico-politico del socialismo reale rumeno, con una profondità di analisi che non ho trovato in nessun commentatore e che ricordo ancora benissimo anche per questo, mi disse una cosa forse dettata dall’amicizia, ma che io ho trovato psicologicamente molto penetrante e insieme affettuosa e critica: «Se tu fossi stato in Romania sotto il regime, saresti stato anche tu all’opposizione». Era assolutamente vero (tanto che glielo dissi subito) e tanto vero che mi indusse subito a pensare a quanto i nomi collidano a volte con la realtà e a quanto le condizioni storiche vadano oltre le ideologie e richiedano analisi prima per così dire «umane» che politiche: calate cioè nella vita e nelle aspirazioni delle persone in carne ed ossa.
Per questo forse, se io fossi stato in Romania al suo posto, ragionando da italiano, avrei continuato a lavorare politicamente, tralasciando magari la filologia e la letteratura: in Italia c’era ancora molto da fare, da rinnovare e non ci si riusciva: perché non voleva continuare a farlo dove era possibile? Marian ragionava però secondo il proprio tempo e il proprio spazio, uno spazio e un tempo ampio, e aveva un’idea ancora una volta non ideologica ma strategica del proprio ruolo e della propria funzione: aveva quindi scelto di tornare a Roma per dare il proprio contributo doveva sentire di poterlo fare meglio e con più utilità: dirigere l’Istituto rumeno di cultura, dove aveva abitato e studiato e che tanto amava anche per le possibilità che quelle mura e soprattutto quella biblioteca le potesse considerare quasi la sua casa, in ogni ora del giorno e della notte. Ecco: in ogni ora del giorno e della notte, allo studio e al lavoro: l’idea di elevare ad altissimi livelli l’istituto culturale rumeno per gli studenti rumeni e per le relazioni italo-rumene e nel contempo la possibilità di continuare a lavorare filologicamente e criticamente probabilmente contribuirono a consumarlo fisicamente. Troppo evidentemente stava chiedendo a se stesso e al proprio corpo, ma pur rendendoci conto delle sue fatiche, quando ci arrivò la notizia della sua morte non riuscivamo, tutti, a crederci per la vitalità inesauribile che sprigionava.
Non ho parlato, per una volta, dello straordinario contributo filologico e critico dato a tante letterature romanze e in particolare a quella italiana e rumena. Non ho conosciuto nessun altro studioso non italiano capace di comprendere la poesia antico-italiana con altrettanta intelligenza: e fra gli italiani ne ho conosciuti pochi al suo livello.
Ho voluto, per una volta, auscultare le ragioni del cuore (per usare una scontatissima formula, della quale mi scuso): ricordarlo per me, per l’incontro con me, in una sorta di epifania suscitata dal libro di Victor Stoichiță; per quello che abbiamo visto e discusso insieme, e per quel che non abbiamo potuto fare: un viaggio nei Carpazi con la sua guida, a cui mi aveva insistentemente invitato, ma che non potei accettare per gli impedimenti della vita. Ancora rimpiango quell’occasione mancata, per la conoscenza profonda che mi avrebbe dato della Romania, ma soprattutto per la possibilità di nuove intense conversazioni con lui. Ma occorre dire che chi ha vissuto una vita così piena, come Marian, e così ricca di amici e rapporti interpersonali forti, è costantemente in relazione, nei libri e nei ricordi, con chi resta, anche negli incontri fra suoi amici che non si erano mai conosciuti prima.
Anche questo è un gran debito, forse quello fondamentale, che tutti abbiamo con Marian e che io sento con particolare riconoscenza.
Roberto Antonelli
(n. 10, ottobre 2019, anno IX)
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