Slow Food/Lingua Madre 2014, Premio Speciale a Ramona Hanachiuc

Ramona Hanachiuc ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre, per il suo racconto Magie del passato. Così precisa la motivazione: «Il racconto di Ramona Hanachiuc illustra un gesto semplice, quotidiano, come quello della panificazione, come fosse una magia, una sorta di rituale, dove i movimenti delle mani sono coordinati da una sapienza secolare, che le nonne trasmettono alle nipoti. Il cibo, come mostrano molti dei racconti delle donne di Lingua Madre, è esattamente questo: non solo un nutrimento per il corpo ma spesso anche per lo spirito».

Ramona Hanachiuc è nata il 7 luglio 1976 a Vaslui in Romania, dove riceve un’istruzione scolastica durante gli ultimi anni del regime comunista. Mette al mondo, all’età di vent'anni, sua figlia Ioana e nel 1999 decide di trasferirsi con lei in Italia, ad Alba, dove ancora oggi vive e lavora. È volontaria del 118 cittadino e nel tempo libero ama dedicarsi alla lettura di quei classici che durante la dittatura le erano proibiti. La presentiamo attraverso un’intervista realizzata da Afrodita Carmen Cionchin e la pubblicazione del suo racconto, R come ribelle.

Quando e come hai cominciato a scrivere racconti?

Ho sempre avuto la passione per la scrittura fin da piccola, ma scoraggiata dalla severità e rigidità della insegnante che ho avuto alle medie (sembrava che la scrittura non fosse adatta a chi faceva errori di grammatica mentre scriveva di getto quello che gli passava per la testa), avevo smesso di farlo all'epoca, per riprendere poi da quando sono arrivata in Italia. La solitudine può essere un’ottima musa ispiratrice e una severa maestra. Avevo bisogno in qualche modo di imparare la lingua della mia nuova casa e allo stesso tempo di riempire le ore libere. Allora ho iniziato ad aprire i cassetti della memoria e raccontare quello che di bello trovavo dentro.

Quali sono i temi della tua scrittura e gli «echi» dei tuoi amici-lettori italiani?


Racconto della mia infanzia, delle mie emozioni, racconto di me in sostanza, anche se a volte lascio spazio alla fantasia nei miei racconti che faccio poi leggere a qualche amico e amica. Sono stati loro, a volte con gli occhi in lacrime, a volte con il sorriso, a spingermi a partecipare al Concorso Lingua Madre, e il premio ricevuto è stata una sorpresa enorme. Sono orgogliosa di averlo ricevuto; al di là della soddisfazione per aver raggiunto (da autodidatta) un buon livello di comprensione ed esposizione in una lingua che non è la mia: arrivare al cuore delle persone attraverso le mie parole è una gioia indescrivibile.

Che cosa ti ha dato il premio che hai ricevuto?


Chissà? Anni fa non avrei mai pensato di partecipare a un concorso letterario e oggi siamo qua a parlare del mio premio, vedi cos'è la vita? Una matrioska che il tempo apre lentamente e porta alla luce nuove forme, nuovi profumi. Basta lasciare che si manifesti e qualcosa di buono e bello viene sempre portato allo scoperto.

Vivi in Italia dal 1999: cosa rappresenta per te oggi la Romania?


La Romania, la casa dei miei, il piccolo paesino dei nonni materni significa sentirmi a casa. È molto strano, la vita di tutti i giorni qui in Italia si svolge tra il lavoro e la nostra casa ma, quando penso di tornare per un breve periodo in Romania, mi sorprendo a pensare e a dire: sto per andare a casa. A casa è dove hai il cuore, e il mio è ancora tra i campi e le colline della campagna romena.

Che progetti hai per il futuro?

Sicuramente continuerò a scrivere, sta prendendo forma nei miei pensieri l'idea di pubblicare un libro con i miei racconti prima o poi; magari coinvolgendo mia figlia che disegna meglio di me e affidare a lei il compito di illustrare sommariamente quanto descritto con le parole.

R come ribelle…

Era forse l’estate del 1981... Sì, penso di sì, io ero una bimbetta di appena 5 anni e non sapevo ancora leggere e scrivere. Mio fratello e io passavamo sempre le vacanze estive dai nonni paterni, insieme ad altri tre cugini maschi che ci raggiungevano al finire delle scuole.  Tutti insieme, lontani dalle nostre città, dai nostri amici, dalle nostre abitudini. Seguivamo sempre i nonni per i lavori nei campi.
Noi piccoli ancora addormentati, caricati contro voglia sul vecchio carro di legno trainato da un grande cavallo grigio. Bisognava partire all’alba per raggiungere la terra tanto lontana da
casa e seminata a granturco, che lo stato aveva affidato alle cure del nonno; mangiavamo in silenzio e di corsa qualche fetta di pane con marmellata per poi partire tutti per una lunga giornata sotto l’infuocato sole rosso estivo. Ci era permesso di portarci dietro alcuni giochi e delle coperte che mio nonno fissava al carro con l’aiuto di qualche bastone e che avremmo poi piantato a colpi di zappa nella terra. Quelle coperte sarebbero diventate la nostra tenda, il nostro piccolo castello, dove giocare e dove ripararci dal sole sino alla sera, all’ora del rientro.
Quella mattina di agosto la nonna non era andata nei campi, accadeva di rado che il nonno le permettesse di rimanere a casa; succedeva solo ogni tanto e anche noi eravamo felici di poter passare una giornata più tranquilla potendo dormire qualche ora in più. La nonna di solito si metteva a zappare e pulire dalle erbacce il piccolo pezzo di giardino e l’orto che si trovava dietro casa.
Io, che ero la più grande, avrei dovuto aiutarla, mentre mio fratello e i miei cugini giocavano tranquilli sulla coperta di lana con le loro macchinine di latta colorate. Mi ricordo ancora oggi di quella zappa così pesante! Solo riuscire a reggerla senza perdere l’equilibrio era per me un’impresa.
Mia nonna allora mi faceva vedere come dovevo fare per strappare a mano la gramigna cresciuta troppo vicina ai stelli delle piante.
Mentre rimanevo chinata, intenta a strappare le erbacce, la mia testa era altrove. Da giorni avevo notato il piccolo granaio di legno vicino alla casa, era sempre stato lì ma fino a quell'anno non avevo mai dato molta importanza alla sua presenza. Non avevamo il permesso di entrarci, la nonna era stata categorica: «Lì dentro non si entra!... È troppo pericoloso, poi ci sono i topi ed è
pieno di ragnatele e polvere».
Quel vecchio magazzino di legno era diventato una calamita per i miei pensieri, avevo passato gli ultimi giorni a escogitare il modo per poterlo esplorare all’insaputa di tutti. Non era facile però con i nonni, i miei cugini e mio fratello sempre in giro per il cortile quando eravamo tutti a casa.
Questo era il giorno perfetto: il nonno fuori casa fino alla sera, la nonna indaffarata a finire il lavoro dall'altra parte del cortile e gli altri bambini presi dai loro giochi. Dovevo solo trovare una piccola scusa per allontanarmi
Presi tra le braccia un fascio d’erba appena tagliata dicendo alla nonna che l’avrei portata ai maialini chiusi nel recinto dall’altra parte del cortile: sarei stata via solo pochi minuti!
Con i miei piedini scalzi mi misi a correre il più in fretta possibile sullo stretto sentiero di terra battuta che girava intorno alla casa; lasciai, o meglio lanciai con una parabola del braccio l’erba nel recinto, impaurita ma determinata come non mai a violare quel posto che i miei occhi di bambina vedevano carico di mistero, mi sentivo grande, pronta anche a sfidare l’ira dei grandi.
Stavo per intrufolarmi come una ladra dietro la porta di legno del granaio, tendendo l’orecchio per sentire se la nonna mi chiamava, quando una grossa spina mi si piantò nella pianta di un piede
costringendomi a fermarmi. Dopo averla tolta con un dito bagnato di saliva, pulii la gocciolina di sangue uscita dal forellino quasi invisibile, mentre pensavo che forse quello era una specie di segnale premonitore che mi doveva far rinunciare alla mia impresa.
La vecchia e malconcia porta fatta con assi di legno grezze bruciate dal sole che avevano visto chissà quante stagioni, scavate dalle gocce di pioggia e colorate dalle minuscole particelle di
polvere che il vento sollevava dalla strada di terra gialla era lì, a due passi da me, sentivo il suo flebile richiamo… come tornare indietro?

Era chiusa con un gancio di ferro arrugginito, con movimenti lenti e il cuore in gola sollevai il gancio dal suo fermo e la tirai verso di me; si aprì docilmente, senza emettere alcun suono, di quel
tanto che mi permise di entrare.
Un vortice di aria calda mi colpì il viso. Sciabolate di luce giallastra filtravano dalle pareti fatte di assi disposte parallelamente inchiodate sulle travi portanti, un forte odore di legno umido, polvere e bitume che serviva a rendere impermeabile il tetto sotto il sottile strato di tegole in legno, quasi
mi costrinse a ritornare sui miei passi.
Dal soffitto vedevo pendere grappoli di ragnatele impolverate che brillavano come fili di cristallo opaco sotto i raggi di luce, disegnando insieme a loro la tela di un ragno mostruoso.
Una mosca intrappolata tentava ancora a liberarsi invano. Camminavo lentamente facendo questa volta attenzione a dove posavo i piedi scalzi; sentivo una strana sensazione nell’accarezzare il
legno grezzo e caldo delle assi di quel pavimento.
Davanti a me su uno scaffale un paio di malridotti stivali lunghi in cuoio naturale, a fianco una sella da tempo in disuso dal colore ormai opaco e dei guanti in vitello; li accarezzai con le mani: erano
secchi e caldi, le mie dita lasciavano, come una lumaca al suo passaggio, una scia lucente asportando il sottile strato di polvere che li ricopriva.
Quasi nascosti in un angolo sotto delle vecchie coperte ecco apparire la forma e i fianchi di vecchi bauli di legno.
Immediatamente nella mia mente si formarono colorate immagini di tesori e ricchezze nascoste e il mio cuore riprese a battere forte preso dall’eccitazione di quella scoperta. Mi avvicinai a quei bauli;  uno in particolare attirò la mia attenzione: era un po’ più piccolo degli altri ma era decisamente il più bello.
La curiosità ormai mi aveva del tutto fatto dimenticare ogni timore: strattonai le coperte per scoprirli e una nuvola di polvere riempì l’aria togliendomi il respiro; con il dorso della mano spostai una ciocca di capelli che mi cadeva sugli occhi, poi afferrai quel grande maniglione di cuoio posto su uno dei lati e sollevai il coperchio facendo gemere le cerniere in ferro ormai arrugginito.
Come una piccola domatrice di leoni, tenendo con un braccio teso aperte le fauci del misterioso baule, sporsi la mia testa al suo interno. Una tela grezza ne copriva il contenuto di cui vedevo spuntare le forme senza però riuscire a capire gli oggetti che nascondevano.
Presi il tessuto per un angolo e lo spostai… Quelli che mi apparvero erano oggetti del mondo dei grandi: libri. Alcuni dalle copertine illustrate, quaderni consunti e dalla carta ormai ingiallita, una piccola scatola di latta metallica e una di legno, riposavano una accanto all’altro in un’attesa che durava da molto tempo.
Rovesciai completamente il coperchio dietro il baule per avere libere le mani e dopo essermi seduta a gambe incrociate sul ruvido e pungente pavimento di legno, afferrai uno dei libri posato sopra alla pila e che mi aveva subito colpito. Alcuni strani segni, dal significato a me sconosciuto, danzavano insieme a dei bambini raffigurati come quelle figure che si ritagliano nella carta e insieme riempivano allegramente la copertina con i loro colori, che ormai avevano definitivamente perso la loro piccola battaglia con il tempo. Le pagine erano ingiallite e tiepide come il pane sfornato,
profumavano ancora di inchiostro e delle tante mani che lo avevano sfogliato; grandi disegni colorati di cose e animali che una volta dovevano essere stati allegri e brillanti, mi guardavano a mano a mano che giravo le pagine.
Guardavo affascinata quei disegni e quei segni neri allineati in tante righe ordinate e uniformi, non riuscivo a capirne il significato. Persi la cognizione del tempo intenta freneticamente a girare le
pagine per scoprirne a uno a uno tutti i segreti nascosti.
I miei genitori non avevano l'abitudine di regalarci dei libri, ne avevamo ricevuto sino ad allora solo qualcuno con dei disegni da colorare, ma i libri belli come quello che stringevo in mano non ne
avevo mai visti.
Fu un enorme ragno nero, solleticandomi la gamba mentre risaliva il mio corpo che mi riportò alla realtà, mi alzai di scatto con un leggero grido correndo d’istinto fuori dal granaio finendo
praticamente tra le braccia della nonna che, preoccupata per la mia assenza, era venuta a cercarmi…
Il suo viso mostrava apprensione e rabbia, era un po’ che mi cercava chiamandomi ma io non mi ero accorta di nulla. Mi sgridò per essermi tutta sporcata, poi la sottile ragnatela delle rughe del suo volto si distese: «Stai diventando grande» mi disse «Ora vedo: non hai più paura... ».
La guardai a testa alta, strofinandomi il viso con la mano e spostando ancora quella ciocca di capelli ribelli, mi sistemai la canottiera sopra i pantaloncini e le mostrai il libro che stringevo
forte sul petto come un prezioso trofeo di guerra e le chiesi: «Nonna, che strano libro è questo?»
Mia nonna che lo aveva subito riconosciuto mi rispose: «Quello, Monica, è il libro dei libri, il papà e la mamma di tutti gli altri libri, quello è il libro che ti insegnerà a leggere tante favole e magari un
giorno a scrivere altri libri, si chiama ABECEDARIO…»
Sentii la mia voce risoluta che le rispondeva: «Nonna, allora voglio subito imparare a leggere, questa sera mi insegni?»
Da quella sera, io e la nonna, sedute sul letto alla luce fioca di una lampada a gas, iniziammo un lungo viaggio tra paesi popolati da strani animali, da fate, oggetti strani e lettere dell’alfabeto.
Portava degli occhiali spessi la nonna, le sue dita scarne e nodose scorrevano rapide sotto le righe scritte con l'inchiostro nero, mentre la sua voce mi ripeteva in una dolce cantilena: «F come Fatina, G come Gatto…».
Alla lettera P di Principessa si chinava per darmi un bacio… e io, con i piedi scalzi e i capelli spettinati partivo per i sentieri del sogno verso un mondo fatto di campi luminosi e profumati, dove i ruscelli cantavano e gli alberi danzavano sui tappeti verdi e morbidi.

Ramona-Monica Hanachiuc
(n. 6, giugno 2014, anno IV)
IV)