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Il filosofo romeno Nae Ionescu, tradotto per la prima volta in italiano
Uscito da pochi giorni, per l’editore Stamen di Roma, il volume Nae Ionescu, Conoscenza metafisica ed esperienza religiosa, a cura di Igor Tavilla, con premessa di Pierfrancesco Stagi e postfazione di Horia Corneliu Cicortaș (pp. 482). Il libro raccoglie alcuni corsi universitari del filosofo romeno Nae Ionescu (Brăila, 1890 - Bucarest, 1940) i quali intendono offrire per la prima volta al lettore italiano un utile strumento per orientarsi nel suo pensiero. Assertore di una filosofia vitalista, pervasa da una forte ispirazione mistica e teologizzante, Ionescu ha esercitato un fascino profondo su alcuni degli intellettuali più brillanti della Romania tra le due guerre, tra cui Mircea Eliade, Emil Cioran e Mihail Sebastian.
Per gentile concessione dell’editore viene pubblicata in anteprima la premessa al volume, del prof. Pierfrancesco Stagi, e la seconda lezione (I problemi della filosofia della religione) del Corso di Filosofia della religione tenuto da Nae Ionescu presso l’Università di Bucarest nel 1924-25, per la prima volta tradotto e pubblicato integralmente fuori dalla Romania.
Nae Ionescu filosofo della religione
Terminata ormai l’infatuazione heideggeriana e ricondotta nei suoi limiti naturali la fascinazione per la filosofia analitica di provenienza anglosassone, la filosofia appare priva nell’ultimo decennio di un orientamento unificante, di una direzione di studi che polarizzi intorno a sé le energie degli studiosi. In questo momento di pausa, diciamo così, delle grandi correnti filosofiche giunge particolarmente gradita la possibilità di riscoprire pensatori del passato, ma non solo i grandi filosofi che hanno segnato il XX sec. e le maestose tradizioni filosofiche tedesche, francesi e anglosassoni, ma anche tradizioni filosofiche minori, laterali, quasi completamente dimenticate, che tuttavia non hanno mancato di incrociare quasi casualmente il corso principale della tradizione filosofica «ufficiale» e in alcuni suoi punti perfino di influenzarlo.
Tra queste tradizioni la più interessante dal mio punto di vista è quella che si sviluppò in Romania intorno agli anni Trenta del Novecento: una fucina di intellettuali e filosofi, interessati al fatto religioso che hanno segnato la cultura occidentale del Dopoguerra come Eliade e Cioran, solo per citare i due più conosciuti al grande pubblico. Personalità così rilevanti non nascono mai da sole, per una sorta di partenogenesi, ma derivano sempre da un contesto, un terreno magari oscuro e nascosto, che ne ha preparato e alimentato la formazione. Con questo volume si intende studiare, approfondire questo contesto filosofico-religioso da cui nasce probabilmente il maggior storico delle religioni del Novecento: Mircea Eliade.
La figura che è al centro di questo volume è il discusso pensatore romeno Nae Ionescu, maestro e mentore di Eliade, che già dai tempi del suo insegnamento presso l’Università di Bucarest aveva raccolto intorno a sé un nutrito circolo di allievi e studiosi. Eliade lo ricorda così: «La presenza di Nae Ionescu è stata e continua ad essere, così cruciale, che il suo nome si è diffuso nel Paese trasfigurato dal mito o insanguinato dal veleno magnifico dell’odio. Ovunque si parli di Nae Ionescu, è presente la leggenda o l’odio, che testimoniano, con pari peso, la forza epica di quest’uomo che da quindici anni trasforma e costruisce un Paese. Pochi uomini possono vantarsi di essere stati gloriati con l’odio suscitato dal pensiero e dall’azione del professor Nae Ionescu». [1]
Diversi sono gli aspetti del pensiero filosofico-religioso di Ionescu che vale la pena evidenziare, che mantegono ancora oggi la loro attualità. Si consideri, tuttavia, che la riflessione filosofica di Ionescu ha un andamento esclusivamente orale, perché il filosofo romeno non ha lasciato alcuno scritto filosofico, e quindi la sua riflessione ha volutamente il carattere di un pensiero in movimento, che si articola con la libertà di una discussione orale. C’è in Ionescu per un verso la fascinazione per la filosofia della vita dei primi anni del Novecento, così come l’attrazione/repulsione per il pensiero di Husserl, presso cui studia a Gottinga negli anni 1913-1914 e la cui critica al vitalismo storicista è contestata da Ionescu. Tuttavia, sarà proprio attra-verso Scheler che Ionescu riprenderà alcuni aspetti del filosofo tedesco che negli anni giovanili aveva tanto odiato. Il pensiero che sviluppa Ionescu è una forma di esperienzialismo di matrice preesistenzialista e vitalista, per cui ogni sapere è veritativo e rivelativo soltanto all’interno del contesto storico-vitale in cui si sviluppa; il pensiero filosofico si riserva il compito di articolare il senso di un atto vitale che è diverso come sono differenti gli atti vitali dei singoli pensatori. Non esiste nessuna verità che non sia espressione radicale della persona che l’ha prodotta. Da questa posizione nasce anche il rifiuto di Ionescu per ogni forma di sapere descrittivo e scientifico, che crede di dare della realtà una descrizione oggettivista ed oggettivante, indipendente dalla persona che l’ha prodotta, che è la fonte ultima del sapere veritativo.
La sua filosofia della religione si sviluppa come lo studio del concetto di religione in generale e delle modalità con cui esso si offre alla coscienza dell’uomo religioso: l’esperienza religiosa è l’invarianza che fa da sostrato alla variazione delle condizioni storiche in cui essa si manifesta. La vicinanza al sapere fenomenologico e morfologico di Eliade è palese, e, come hanno mostrato diversi studiosi, risulta evidente la familiarità eliadiana con i concetti filosofico-religiosi di Ionescu.
Così come aveva iniziato Husserl e la fenomenologia della religione che da lui era nata (Otto), Ionescu sviluppa una critica allo psicologismo filosofico-religioso, in quanto pretesa di descrivere l’esperienza religiosa a partire da alcune delle principali categorie psicologiche, per cui l’esperienza religiosa si riduce a una modificazione dell’apparato psichico a contatto con alcuni oggetti ed esperienze che possono essere definiti religiosi.
La coscienza religiosa mantiene una sua indipendenza e autonomia rispetto alla psicologia e ai suoi tentativi di colonizzare l’ambito del religioso. Per il fenomenologo della religione (e per Ionescu) il fatto religioso ha una sua autonomia e indipendenza che è percepibile nella coscienza religiosa, che è la coscienza che si orienta in modo specifico e intenzionale al fatto religioso. L’universalità del fatto religioso dipende dall’universalità della coscienza religiosa. Per questa ragione, le religioni storiche vivono su un piano differente rispetto alla coscienza religiosa, rispetto all’homo religiosus, la cui coscienza del fatto religioso è universale: molte sono le sensibilità e le storie religiose, ma unica è la coscienza religiosa.
La coscienza religiosa si fonda sulla dipendenza bipolare e transitiva, analogica, detto con il linguaggio di Agostino, tra la sovraeccedenza di Dio e l’individuo singolo che fa esperienza di questa eccedenza. Ionescu parla di un «sacro terrore» che definisce le modalità con cui l’individuo si rapporta a Dio, in tal modo riecheggiando il mysterium tremendun ac fascinans di Rudolf Otto. Ionescu si oppone a ogni forma di immanentismo religioso, che legge nelle forme del darsi del Dio nella sua forma kenotica l’orizzonte di comprensibilità di Dio per l’uomo. C’è, invece, una trascendenza del divino che il filosofo romeno sottolinea continuamente. Esempio paradigmatico ne è la critica alla chiesa agostiniana, in cui l’amore del prossimo sembra sostituirsi all’amore di Dio. È il tema ancora discusso nella realtà ecclesiale contemporanea, se l’aspetto caritatevole del cristianesimo debba essere l’ultimo e non secolarizzabile residuo della cristianità. Si pensi anche soltanto il cristianesimo senza religione, di cui parla Vattimo [2], oppure alcuni aspetti dell’idea della misericordia di Kasper [3], in cui la charitas si sostituisce e rende concreta e tangibile la veritas, tanto che quanto possiamo esperire della veritas lo troviamo nella charitas e nulla più.
Ionescu ricorda a proposito il conflitto delle interpretazioni della charitas che impegnò profondamente i Padri della Chiesa nei primi secoli cristiani. Secondo l’interpretazione agostiniana l’amore di Dio si prolunga senza soluzione di continuità nell’amore del prossimo, tanto che amare Dio e amare il prossimo si identificano, dando origine a una interpretazione esclusivamente morale e terrena del cristianesimo, che ha secondo Ionescu qualificato la variante occidentale del cristianesimo. Mentre, l’Oriente ortodosso si è orientato all’interpretazione origeniana dell’amore, per cui l’amore di Dio è prioritario rispetto all’amore per il prossimo. Nella seconda delle Omelie sul Cantico dei Cantici (II, 8) Origene mostra come l’amore cristiano abbia un ordine rigoroso, per cui Dio deve essere amato in via prioritaria e assoluta: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento» (Mt, 22, 34-38), mentre il secondo comandamento, benché simile, non può essere sostituito al primo: «Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22, 39-40). Origine precisa come Matteo non abbia detto «Amerai il tuo prossimo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente», perché questa prerogativa è soltanto divina, ma amerai il tuo prossimo secondo modalità umane, come un uomo può amare il suo simile.
Riprendendo questo passo di Origene, il filosofo romeno lo declina secondo la tradizione ortodossa, che da questo punto di vista è ancora più radicale, in quanto il disprezzo per la dimensione terrena a vantaggio della divino-umanità del Cristo gli fa osservare che l’amare il prossimo come te stesso del Vangelo di Matteo intenda l’amare il prossimo con la consapevolezza che egli stesso è un uomo e quindi va amato solo quel tanto e limitatamente alla dimensione umana, mentre il vero amore, la charitas, va rivolta principalmente a Dio. Ionescu osserva che, se avesse voluto, Gesù avrebbe potuto dire espressamente ama il tuo prossimo come Dio e in questo modo avrebbe tolto ogni ambiguità, mettendo sullo stesso piano l’amore di Dio e l’amore del prossimo, mentre ha detto ama Dio con tutte le tue forze e in modo assoluto, mentre il prossimo devi amarlo nello stesso modo in cui ami non Dio ma te stesso, quindi tenendone conto, avendone cura, ma in misura evidentemente minore di Dio. Nell’universo di Ionescu l’ascesi assume il primato su ogni forma di fusione o di commistione tra l’umano e il divino, per cui la salvezza è sempre una salvezza non dell’umano ma dall’umano.
È in questa direzione, ascetica e sacrale della religione che va inquadrato anche uno degli aspetti più deprecabili del pensiero di Ionescu, il suo antisemitismo teologico, che è il frutto avvelenato del contesto storico in cui è stato elaborato, si pensi soltanto che tracce di questo antisemitismo teologico erano presenti ancora nella Liturgia cattolica fino a pochi anni fa (fu solo Giovanni XXIII a cambiare nel 1959 la liturgia penitenziale del venerdì santo dove si pregava pro perfidis Judaeis, che venne però reintrodotta con la Summorum Pontificum del 2007 e poi di nuovo finalmente abrogata nel 2008), e che gettano un’ombra pesante su questo pensatore. L’idea teologica antiquata da cui si muove Ionescu è che extra ecclesiam nulla salus e quindi gli ebrei avendo rifiutato di assimilarsi ai cristiani in epoca apostolica hanno di fatto rifiutato la salvezza e si sono condannati a rimanere sempre ai margini dell’Occidente. Un’idea del tutto superata dal pensiero filosofico, che ad esempio con Franz Rosenzweig, ha ripreso l’idea paolina espressa nella Epistola ai Romani dell’ebraismo come la «radice che porta» (Rm, 11, 18), in cui è riconosciuto il ruolo dell’ebraismo nella costituzione della fede e dell’identità cristiana, come espresso anche dallo stesso Concilio Vaticano II che ha introdotto l’elemento discriminante della salvezza non nella appartenenza alla Chiesa cristiana ma nel rispetto del dettame della coscienza.
Nonostante questa pesante riserva e un andamento spesso troppo letterario e discorsivo, vale la pena proporre in italiano il Corso di filosofia della religione di Ionescu, perché tratta questioni che la filosofia della religione non ha smesso ancora oggi di dibattere: i nessi di trascendenza-immanenza, verità-carità, religione-religioni, ascesi o impegno continuano a giocare un ruolo decisivo anche nella realtà ecclesiale e culturale contemporanea. Confrontarsi con queste tradizioni diverse e altre, anche quando sono figlie di tempi così oscuri, aiuta il filosofo nel presente a tornare a porsi questioni centrali che hanno animato il dibattito del Novecento e che hanno ancora oggi bisogno di essere riprese e «sintonizzate» con un mondo in continua evoluzione, in cui la secolarizzazione nelle sue forme più svariate ha eroso quasi del tutto l’ambito dell’esperienza religiosa, riducendola al vissuto momentaneo, labile e fugace, di qualcosa che ci si sottrae e si ritira nel frastuono di un mondo sempre più dominato da ciò che si dà, che si offre nella sua espressione fenomenica, reale o virtuale che sia.
Pierfrancesco Stagi
Nae Ionescu
I problemi della filosofia della religione
[28 febbraio 1925]
1. Il problema dell’essenza della religione. L’esperienza religiosa
Ora, se torniamo alle due questioni fondamentali che ho sollevato, vale a dire la questione dell’essenza della religione e il contenuto di verità della religione, cioè, come ho detto, i problemi che pertengono alla speculazione e alla vita religiosa, abbiamo già i due principali ordini di problemi che devono essere trattati nell’ambito di un corso di filosofia della religione.
La prima questione, quella dell’essenza della religione, è non dico la più importante, ma quella più indagata, la più investigata oggigiorno. Essa deve cercare di cogliere nella religione stessa quella funzione creatrice della religione, che ho chiamato, usando altri termini, il processo religioso interno.
Il primo aspetto da considerare in quest’ordine di idee è la cosiddetta esperienza religiosa, vale a dire il fatto religioso, l’atto religioso. Occorre quindi esaminare la vita religiosa di un individuo nel suo farsi. In tal caso la prima realtà da indagare è l’atto religioso, cioè la condizione, la struttura specifica della coscienza umana nel momento in cui la vita religiosa si esplica.
La vita religiosa costituisce un dominio particolare di fatti spirituali e, in quanto tale, ha le sue note specifiche. Bene, proprio queste note specifiche, queste caratteristiche, e la loro composizione nella coscienza umana in generale definiscono il cosiddetto problema dell’atto religioso.
2. La convinzione religiosa
Ma l’atto religioso in quanto tale è più che altro una sorta di determinazione formale della funzione spirituale nella vita religiosa, senza dubbio un’attività. Ma per quanto concerne l’atto religioso, analizzato come fatto religioso, esso non è altro che attività pura. Questa attività pura deve essere considerata indipendentemente dai suoi esiti. Perciò, la cosiddetta convinzione religiosa viene a costituire un’altra questione. Anche la convinzione religiosa è un precipitato, l’esito di un processo, una conoscenza, dato che è un’interpretazione. Non una conoscenza nel senso comune del termine, poiché la conclusione cui perviene non si configura propriamente come un qualsiasi elemento del pensiero in generale, bensì in quanto rappresenta un aspetto della realtà, in quanto con la nostra coscienza entriamo nella coscienza della realtà. Non si tratta tuttavia di conoscenza nel senso comune del termine, perché padroneggiare la realtà, partecipare ad essa, formando con essa una cosa sola non si ottiene attraverso il concetto.
Che, poi, l’esito di questa posizione si esprima in un certo senso nella fede, questa è un’altra questione. Perciò, l’esito dell’atto religioso e della vita religiosa – che è la questione principale che ci interessa in questa sede – è la convinzione religiosa. Parlo di convinzione – e non di conoscenza – per le ragioni anzidette e anche per un altro motivo: per distinguere quanto c’è di umano e direi quasi di psicologico nell’atto religioso. Perché le conoscenze religiose non hanno alcun fondamento oggettivo, ovvero non sono suscettibili di essere comunicate oggettivamente. La fondazione della conoscenza di ordine religioso è di natura puramente umana, soggettiva, voglio dire umanistica. Ecco perché parlo di convinzione religiosa e non di conoscenza religiosa. Voi sapete che nella logica, «convincere» significa qualcos’altro, significa trasmettere la verità a un altro. In questa sede, per convinzione intendiamo qualcosa di diverso; segnatamente, gli esiti della nostra vita religiosa, nella misura in cui questi esiti – o questo esito – conducono alla padronanza della realtà; non a una padronanza nel senso scientifico ordinario, ma a una fusione tra noi e la realtà, a una partecipazione della realtà in noi.
Il correlato di questa convinzione religiosa è la fede. Notate, perciò, subito la differenza che corre tra questo dominio di fatti e il dominio logico propriamente detto. Non sono queste esperienze che si dimostrano, bensì si vivono immediatamente. Appartengono, pertanto, a un altro ordine di problemi nell’ambito dell’essenza della religione, nell’ambito della vita religiosa.
3. L’espressione della convinzione religiosa
Ma una volta maturata questa convinzione, essa cercherà un mezzo, una via per esprimersi. L’espressione della convinzione religiosa rappresenta il terzo momento della vita religiosa e appartiene al terzo ordine di problemi. Questa espressione può essere di diversi tipi: una risoluta, volontaria e un’altra involontaria. Volontaria, nel senso che in determinati momenti e in una determinata struttura spirituale, le convinzioni raggiunte diventano centro di forza e di attività; ovvero, non appena ho maturato una convinzione, sento il bisogno di uscire fuori di me, per istillare questa convinzione anche negli altri. C’è però anche un altro tipo di espressione, generata da un diverso bisogno, allorché, maturata una convinzione, io agisco conformandomi ad essa; nel primo caso l’azione avrà un carattere transitivo, essa passa da me agli altri, sentendo io il bisogno di condividere la mia fede con gli altri; in questo secondo caso, la mia azione non possiede più tale carattere, resta concentrata su di me e modella il mio agire, senza che io senta il bisogno di sapere che cosa dicono gli altri, cosa fanno gli altri, e se non sarebbe bene che anche gli altri facessero quello che faccio io. Mi spiego con un esempio.
Nella nostra costituzione si afferma: la religione dominante è la religione cristiana ortodossa. E si aggiunge: la libertà di culto è assolutamente garantita. Si introduce, però, una restrizione: è vietato fare proselitismo; cioè, non è consentito, sul territorio nazionale romeno, alcun tipo di attività che abbia lo scopo di allontanare le persone dalla loro fede originaria, per guadagnarle a un’altra fede. Insomma, ci sono fedi che vanno in cerca di proseliti e ci sono fedi che non lo fanno.
In effetti, questa disposizione della costituzione costituisce una difesa dell’ortodossia. Perché? Molto semplicemente perché l’ortodossia è una fede che non va in cerca di proseliti, non sente il bisogno di convertire tutti all’ortodossia; quella ortodossa è una fede che trova la propria ragione di essere in ogni individuo. Al contrario, vi sono altre religioni, che non trovano la propria ragione di essere esclusivamente nel potenziare questa singola vita, ma dicono: dobbiamo rendere felici anche gli altri, portando loro la nostra fede!
4. Proselitismo religioso e «Ama il prossimo tuo...» nella visione dell’Occidente
Naturalmente, dobbiamo riconoscere che la tendenza al proselitismo non è un fatto di natura esclusivamente religiosa; o, in definitiva, è di natura religiosa nella misura in cui la religione presenta una certa coloritura, cioè è una religione eminentemente trascendente, in cui Dio si pone completamente al di sopra degli uomini, e in cui non ci si cura che di un solo processo: il rapporto tra l’individuo e Dio; ma allorché intervengono in questa vita religiosa anche altri elementi, essa muta carattere. Ad esempio, nella religione cristiana c’è un precetto, che è il seguente: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Sono molti gli studiosi, i commentatori che riconoscono in esso il fondamento della religione cristiana; come a dire, la cura del tuo prossimo è la prima cosa di cui ti devi preoccupare in quanto cristiano. Mostra verso il prossimo tanto interesse quanto è quello che provi per te stesso – dando per scontato che tu sia molto interessato a te stesso.
Da dove viene questa cura? Se esaminiamo bene la cosa, sono solamente due le spiegazioni possibili: una, che non è di ordine trascendentalista, si ha quando, ad esempio, affermo: «l’universo e la divinità si confondono»; nella misura in cui faccio parte dell’universo io sono la divinità, ma, allo stesso modo anche il mio simile è divino; perciò è indubbio che vi sia tra me e lui un certo rapporto. Sta qui l’origine immanente dell’amore verso il prossimo.
Ce n’è tuttavia anche un’altra, che non è di origine religiosa, bensì politica. Noi viviamo in questo mondo, che, come sappiamo, è un mondo di dolore; ma la religione, qualcuno afferma, ha lo scopo di rendere possibile la vita tra le persone, qui sulla terra. Anche Cristo ha detto, per esempio, una volta: «Il mio regno non è di questo mondo!» [4] Ma – ha detto anche – finché viviamo quaggiù facciamo in modo di vivere al meglio. E poi aggiunge: il cristianesimo consta dei precetti che semplificano la mia vita quaggiù. Troviamo ad esempio che il comandamento che prescrive di amare il prossimo favorisce la convivenza tra gli uomini. Se ci ameremo gli uni gli altri, allora le cose andranno meglio, e vivremo più facilmente. Sta in ciò, dicevo, la radice politica dell’amore per il prossimo, su cui si basa, d’ora in avanti, l’interpretazione della religione come mezzo per semplificare la vita.
È evidente in questo caso che la religione faccia dei proseliti, e debba farli: è mio dovere salvare chi mi sta accanto, perciò è mio dovere imporre al mio prossimo i principi religiosi che mi rendono felice. L’espressione della convinzione religiosa cerca di manifestarsi esteriormente, sui miei simili.
5. «Ama il prossimo tuo...» nella visione dell’Oriente
Ma può anche darsi un’altra interpretazione del precetto «Ama il tuo prossimo...», segnatamente un’interpretazione negativa; in Oriente, l’ho già detto in un’altra occasione [5], esiste una forma particolare di vita religiosa, esiste un rapporto tra l’uomo e Dio. Tuttavia, mentre in Occidente, vedi ad esempio nel cattolicesimo, questo rapporto si realizza grazie alla Chiesa e solo attraverso di essa, e mentre nel protestantesimo si realizza effettivamente – non però tra l’uomo considerato nella sua interezza, bensì tra lo spirito, tra una sorta di centro assoluto, tra lo spirito umano e Dio –, in Oriente l’uomo che si rapporta a Dio è qualitativamente diverso: è veramente uomo, anima e corpo.
La consapevolezza del proprio corpo, ovvero, per esprimerci in forme religiose simboliche, la coscienza del peccato, accompagna sempre l’uomo nel suo rapporto con Dio; l’uomo non può mai sbarazzarsi del proprio corpo.
Ovviamente il corpo è il legame, o, per meglio dire, è la corruzione del puro spirito che un tempo era anch’esso divino; in tutta la metafisica greca e più tardi in quella cristiana l’uomo rappresenta uno stadio corrotto, per la semplice ragione che esso è un innesto dello spirito nel corpo, nella materia, di conseguenza una degenerazione dello spirito a causa della materia.
L’atto religioso (di questo parleremo diffusamente in seguito, ora lo espongo per chiarire la questione), l’atto religioso orientale presenta questa specificità: la coscienza costante del legame tra corpo e spirito, nell’uomo. L’uomo sta quindi a significare in Oriente – l’uomo, ben inteso, di fronte a Dio – l’unione di corpo e spirito, mentre per il protestantesimo è lo spirito puro e semplice. Di conseguenza, l’uomo, in Oriente, designa ipso facto il peccato.
È dunque verosimile che quando si dice «Ama il prossimo tuo come te stesso», qui in Oriente, noi intendiamo qualcosa di diverso – non intendiamo dire che noi amiamo noi stessi, perché ciò non è possibile; noi non siamo spirito, non siamo quel che potrebbe definirsi il mondo creato in noi, bensì siamo spirito corrotto, spirito e corpo, noi rappresentiamo uno stadio inferiore. Ma se così è, possiamo amare noi stessi? No. Per noi [orientali] la salvezza consiste nel fuggire da noi stessi, da questa forma corrotta.
Se le cose stanno in questo modo, «Ama il prossimo tuo» non ha più il significato che aveva per l’Occidente, né quello panteistico né quello politico, per la semplice ragione che la mia premessa è: io non amo me stesso.
Ma allora cosa significa amare il prossimo tuo? Non amarlo? No! Vuol dire qualcos’altro: vuol dire semplicemente che non devi attribuire a te stesso alcuna importanza particolare.
Perciò, l’amore non è un legame positivo, non rappresenta una regola di condotta nella metafisica religiosa orientale, bensì, semplicemente, una tua valorizzazione in mezzo agli altri. E poiché siamo tutti peccatori, abbiamo quel che l’Oriente chiama una comunità in peccato. Siamo fratelli nel peccato, non perché siamo creature della medesima divinità, bensì in virtù della corruzione dello spirito determinata dall’unione con la materia.
Quindi, in una situazione cosiffatta, in cui l’amore non rappresenta più, per l’Oriente, una qualche regola di condotta e nemmeno esprime il mio interesse per gli altri, bensì il mio meschino interesse per me stesso, in una circostanza simile la religione depone la propria forza esplosiva; il mio confratello, il mio vicino, il mio prossimo non hanno più importanza, come non ne ho io. E così, l’intero processo religioso si riduce semplicemente all’individuo e a Dio, mentre tutto il mio agire – l’agire guidato dalle mie credenze religiose – non si volge più all’esterno, bensì plasma unicamente il mio stesso agire e il mio modo di comportarmi. Quale sia il mio comportamento, questa è un’altra questione, che rientra nell’ambito della terapia religiosa. Questo però è quello che ho inteso, fin dall’inizio, per differenza di espressione della convinzione religiosa.
Distinguiamo, pertanto, due tipi di espressioni: una che conduce alla diffusione delle mie convinzioni, e l’altra che conduce alla loro realizzazione. È questa la terza questione relativa allo studio dell’essenza dell’atto religioso e dell’essenza della religione.
Ma l’atto religioso, l’esperienza religiosa, la convinzione religiosa, l’espressione della convinzione religiosa, sono tutte questioni che hanno a che fare con lo spirito umano, sono appunto questioni di ordine spirituale. Si può dire allora che la filosofia della religione sia una psicologia della religione? Ho provato a chiarire questa questione anche l’anno scorso, perciò mi limiterò soltanto a ricordare brevemente il punto iniziale.
6. I due metodi di studio dei fatti spirituali: quello psicologico e quello fenomenologico
Ci sono due modi per studiare i fatti spirituali. Esiste un metodo strettamente psicologico, che si limita a studiare l’individuo in uno spazio e in un tempo determinati, in relazione a certi fenomeni e certi processi. Esiste, tuttavia, anche un altro metodo, che consiste nel lasciare, per così dire, sublimare un poco questi processi, cioè nell’astrarli dal tempo e dallo spazio, per indagarli nella loro stessa essenza e non nella loro immediata attuazione, facendo in modo, in altri termini, che il fenomeno empirico si tipizzi. Ciò che io considero, ad esempio, nella percezione non è la percezione in sé, ma il fenomeno generale della percezione; questo modo di procedere, che Paul Natorp definiva, circa vent’anni fa, psicologia razionale viene oggi definito da un’intera categoria di persone metodo fenomenologico.
Perciò, anche se noi ci occupiamo del processo mediante il quale la vita religiosa si manifesta, questo non implica, ipso facto, che noi si segua un metodo psicologico. Un filosofo tedesco ad esempio, uno studioso, definisce questo metodo una sorta di valorizzazione psicologica. Non ho mai compreso il significato di questo termine. Ciò che Wobbermin [6] definisce valorizzazione psicologica [psychologische Verwendung] è comunemente noto come metodo fenomenologico, vale a dire lo studio dei fenomeni prescindendo dallo spazio e dal tempo, lo studio della loro essenza immutabile, insomma l’astrazione, la sublimazione – come abbiamo detto pocanzi –, e lo studio di questo nuovo fenomeno, che è certamente una creazione logica o spirituale, priva di reale esistenza, senza dubbio, ma che possiede rispetto al processo quasi lo stesso valore – non esattamente lo stesso, ma «quasi» – che il concetto possiede rispetto a un certo oggetto.
Pertanto, il metodo che la nostra indagine dovrebbe e potrebbe seguire in questa ricerca, di esposizione dell’essenza del fatto religioso, non è necessariamente quello psicologico, anzi quello fenomenologico è da preferirsi. Se usassimo l’altro metodo – perché potremmo servirci anche di quello – non ne scaturirebbe una filosofia della religione, bensì una psicologia della vita religiosa, che è tutt’altra cosa. Noi non vogliamo sapere che ne sia avvenuto dell’uomo nell’atto religioso, ma vorremmo dedurre, a partire da ciò, che cosa sia la religione in se stessa. Perciò: a questioni diverse, metodi diversi.
La disciplina religiosa è una disciplina filosofica; tuttavia essa non conduce, in verità, a una filosofia della religione, bensì a una psicologia dell’uomo, che va a completare l’immagine d’insieme dello spirito umano di cui già disponiamo. Al pari di una psicologia dell’intuizione artistica, della creazione artistica, la psicologia dei grandi calcolatori o dei giocatori di scacchi, vi è pure una psicologia della vita religiosa, che però non può condurre in alcun modo allo studio dell’essenza della religione, bensì alla conoscenza dell’uomo e dell’umanità.
Per la psicologia, la religione è un mezzo; per la filosofia, l’atto religioso, da mezzo diventa fine.
(n. 10, ottobre 2020, anno X)
NOTE
1. Postfazione di M. Eliade a N. Ionescu, Roza vânturilor. 1926-1933, Ed. Cultura Națională, București [1937], p. 421.
2. G. Vattimo, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002; V. Vitiello, Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Bari-Roma 1995; La religione, a cura di G. Vattimo e J. Derrida, Laterza, Bari-Roma 1996.
3. W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2016.
4. Gv: 18, 36.
5. Allusione al corso di filosofia della religione tenuto nell’anno accademico 1923-1924, per il quale si rimanda alla nostra Introduzione, p. 41 ss.
6. Georg Wobbermin (1869-1943). Nella sua opera in tre volumi, Systematische Theologie nach religionspsychologischer Methode (Hinrichs, Leipzig1913-1925),ha elaborato un’interpretazione psicologica del fenomeno religioso, che risente dell’influenza di Schleiermacher e William James.
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