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In ricordo di Enzo Moscato tra Eros e Thanatos: «Gesù. Gesù…’a morte, ccà è sulo festa a mare!»
Il 13 gennaio scorso ci lasciava una delle menti più geniali del panorama teatrale italiano: Enzo Moscato. Insieme ad Annibale Ruccello, Antonio Neiwiller, Leo De Berardinis e Manlio Santanelli getta quelle che saranno considerate le basi della Nuova Drammaturgia Napoletana. Gli anni ’60 e ‘70, con le loro rivoluzioni culturali e sociali, hanno portato una ventata di novità anche nel teatro napoletano, che attualizza quelli che sono i temi storici della drammaturgia, ma contemporaneamente la diffusione dei mass media apre l’uscio a un’omologazione linguistica che tende ad annullare quella che per decenni è stata un’identità linguistica regionale-culturale. Moscato e i suoi colleghi/amici sono pronti ad arginare questo appiattimento, questa limitazione linguistica che ci priverebbe delle più belle sfumature che si ritrovano nella lingua napoletana e di questa «missione» troviamo una bella spiegazione nelle parole di Ruccello: «C’è l’uso del dialetto napoletano molto ricco e di un italiano quasi letterario. Come artificio, beninteso, perché io non credo nell’italiano. Credo che sia una lingua inesistente, totalmente inventata. L’unico italiano vero è quello dei mass-media, il resto è un’invenzione degli intellettuali.» [1], e ancora: «Questo linguaggio [l’italiano, NdR] così appiattito, così brutto, è quanto di più sgradevole mi è dato subire acusticamente… La repulsione che mi ispira è pari solo alla irresistibile attrazione che mi porta a coglierlo, ad annotarlo, a memorizzarlo per poi riciclarlo in un’ambiguità di sentimenti che ancora devo riuscire a decifrare» [2].
Enzo Moscato, con la sua laurea in Filosofia e la sua esperienza di insegnante, porta in palcoscenico un «plurilinguismo» che lo consacra fin da subito sull’altare della Nuova Drammaturgia Napoletana, di cui è ritenuto uno dei «padri». La sua estrazione popolare, è nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli, è alla base di tutta la sua produzione artistica. Nei suoi drammi, poesie, canzoni si sente, si tocca la realtà napoletana, non quella della pizza e del mandolino, non quella della meravigliosa scenografia del golfo, bensì quella dei vicoli, i vicoli fatiscenti, putridi, i vicoli dei bassi, dove regna «a poverty that generates despair and the passage from despair to human abjection is not only fast, but above all inevitable.» [3]. Questa Napoli così cruda, senza sogni, senza speranza, questa lingua napoletana potente, autentica, che travalica gli standard omologanti della lingua nazionale e di qualsivoglia nazionalismo, che consente la trasmissione dei pensieri più intimi, serve anche «per definire i ruoli, per stabilire le convenzioni sociali, il vernacolo rappresenta così il popolo basso, gli emarginati, e gli emarginati sono così elevati a elementi base della tragedia» [4]. Infatti, lui sostiene che ciò che è popolare non è detto che sia necessariamente plebeo e non possa essere raffinato, e infatti, la sua città natale, i suoi Quartieri Spagnoli, sono sempre presenti nelle sue opere e ci spiega il perché: «a Napoli vivo in mezzo a una tribù dotata di tutte le gamme poetiche possibili e quindi i miei scritti hanno sempre dei picchi molto intellettuali e cerebrali ma anche affondi repentini nella materia, nella fecondità, senza che questo rappresenti una spaccatura. Sono gli infiniti gerghi, le infinite lingue, le infinite personalità di ciascun napoletano, che ci fanno e mi fanno schizofrenico, con la gran gioia e la gran tragedia di vivere più vite e più storie insieme» [5].
Con Moscato, e non solo, assistiamo al superamento della regia e al superamento del regista come spettatore professionale, di conseguenza si verifica la perdita della centralità di quest’ultimo, ma non la sua abolizione; pertanto, questa sua assimilazione parziale, o a volte totale, nella drammaturgia dell’attore ne esalta la sua crescita professionale, rendendolo sempre più autonomo, in modo da diventare regista di se stesso [6]. Il teatro di narrazione consente al nostro drammaturgo non solo di sdoppiarsi sul palcoscenico, ma anche di moltiplicarsi, attraverso la sua voce, con la narrazione e la canzone, e attraverso il suo corpo, con la mimica, la gestualità e l’espressività.
In Luparella, ovvero Foto di Bordello con Nanà, ne abbiamo una prova evidente: Luparella «O guaio cchiù gruosso, in fondo, erano quelle stanze, chelle stanzulelle, sette, piccerelle e strette, comm’a nu ritale, na capuzzella e spille. Celle frigorifere, freddissime a vierno e po’ caurare a staggione. E siccome tutte quante, per mestiere, portavamo pochi indumenti addosso, alla fine preferivamo vierno a staggione! E comme pecchè? Pecchè a vierno si faceva friddo na cosa e cchiù t’a putive mettere ‘ncuollo, no? Ma a staggione p’o calore p’a velletura, che te levave a cuollo? A pella toia stessa? Che te levave? Che te levave? Che te levave?» [7]. Luparella racconta, narra, la sua esperienza di «signorina» in una casa di tolleranza e la sua narrazione non è solo verbale, lei parla con il corpo, con gli occhi, con i gesti, come quando sottolinea il numero delle stanzette, descritte come celle di una prigione, mimando il numero con le dita; o quando enfatizza il freddo invernale e il caldo estivo con la gestualità, la mimica facciale e l’intonazione della voce. A questo punto qualcuno potrebbe obbiettare che le parole, allora, sono solo un corollario, ma no, perché i suoi testi sono di una forza e una potenza unica. La definizione delle stanzette/celle piccole al pari di un ditale, di una capocchia di spillo, innanzitutto dà il senso di claustrofobia dell’ambiente piccolo e poi della costrizione a cui molte ragazze sono soggette, perché vendute o perché oramai indebitate con la «madame» e, incapaci di riscattarsi, sono prigioniere anche se sembrano libere. Anche il simbolismo dei due oggetti tipici da sartoria: il ditale e gli spilli, uno protegge, mentre l’altro ferisce, raccontano un mondo tutto al femminile, così come quello dei bordelli. La descrizione della casa, delle stanzette, tutti i dettagli sono delineati come dei fotogrammi, sembra quasi che il nostro autore stia controllando i singoli fotogrammi di una pellicola prima di passare al montaggio, o come quando si sversa sul tavolo la scatola di un puzzle, se ne controllano tutti i pezzi singolarmente e solo dopo si comincia il lavoro di composizione.
Ma in Enzo Moscato questo teatro di narrazione si evolve in quello che Claudio Maldolesi e Gerardo Guccini definiscono «nuova performance epica»: «Parlando di nuova performance epica, intendiamo, infatti, indicare: che si sono costituite possibilità recitative imperniate allo svolgimento narrativo dell’eloquio; che queste sottendono diversi vissuti e tecniche d’attuazione; che il riconoscimento di tali diversità richiede l’utilizzo d’una visione più ampia di quella richiesta dalle singole modalità considerate.» [8]. I suoi testi teatrali sono dotati di un singolare aspetto individuale, hanno la capacità di forgiare un’infinità di personaggi che, non solo raccontano le loro emozioni, i loro pensieri, ma sono capaci di trasmetterli a un pubblico vario, di consentire a ciascuno di immedesimarsi nella narrazione: il narratore Moscato ha dentro di sé tutto un teatro, perché seguendo il precetto del filosofo Anassagora «tutto è in tutto».
È sempre stato considerato l’erede di Antonin Artaud, sia per la sua capacità di sdoppiarsi in autore e attore, sia per il dualismo dei suoi temi, dalla donna santa e puttana, alla sua città, Napoli, metropoli e fogna. E così come il drammaturgo si sdoppia in autore e attore, sulla scena l’attore si sdoppia in attore e cantante, dando vita quasi a un processo a spirale di hegeliana memoria, e in Rasoi l’attore comincia con un urlo straziante, lacerante, ma anche liberatorio, a cui segue la frase: «Na nutizia tengo, grande e triste a ve da’: so muorto!» [9] dopodiché intona la canzone napoletana Simmo e Napule paisà. La lapidaria frase iniziale, già di per sé è un ossimoro, un morto che di sua propria voce annuncia di essere morto, è una notizia triste e immensa, ma l’attore diventa cantante e intona una tarantella, dalla musica sì un po’ triste, ma che nel ritornello sottolinea una vaga superficialità dell’essere umano, nella fattispecie il napoletano, o un suo inevitabile fatalismo verso le sorprese che la vita gli riserva: «Tarantella, facennoce 'e cunte / Nun vale cchiù a niente 'o ppassato a penzá (…) Basta ca ce sta 'o sole / Ca c'è rimasto 'o mare / Na nénna a core a core na canzone pe' cantá / Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto / Chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdámmoce 'o ppassato / Simmo 'e Napule paisá!» [10]. La canzone, che non è scelta a caso, come niente è scelto a caso nella produzione moscatiana, è stata scritta nel 1944 da Giuseppe Fiorilli su musica di Nicola Valente [11] ed è stata molto criticata perché ritenuta un invito a dimenticare i danni del regime e la guerra. Ma se leggiamo attentamente il testo, è esso stesso un doppio, se da una parte troviamo i soliti luoghi comuni napoletani come sole e mare, dall’altra troviamo le macerie dei bombardamenti e le lacrime di chi ha perso tutto, soprattutto la famiglia. L’autore/attore/cantante che annuncia la sua morte è solo l’inizio di un caleidoscopio di attori/personaggi, senza spazio e senza tempo, che elencano tutte le brutture della «bella Napoli», le parole sono colpi di «rasoio» che lasciano cicatrici profonde, dallo scugnizzo che paragona Napoli a una fogna, alla statua della Madonna che racconta uno squallido fatto di cronaca, al camorrista vecchio stampo, che muovendosi come una macchietta del varietà, sulle note di Guapparia, fa una denuncia contro la nuova malavita. Il dramma si conclude con le parole dell’autore/attore: «Si, mo vulesse ca coccorune me dicesse a quanto tiempo songo muorto. Chesto, sule chesto nun’aggio penzato ancora.» [12]
Nella sua prefazione de Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud, Jacques Derrida dice che Artaud «è al teatro come ripetizione che egli non può rassegnarsi ed è al teatro come non-ripetizione che non può rinunciare» [13]; quindi il teatro è contemporaneamente ripetizione di ciò che non si ripete e originalità della ripetizione. Il nostro drammaturgo, Moscato, dimostra la veridicità di questa che potrebbe sembrare una contraddizione in termini, se non addirittura un paradosso, in diversi suoi lavori. Un esempio è Trianon, scritto nel 1983, che non è evocazione del famoso teatro napoletano degli inizi del Novecento, ma si tratta di un carcere, un carcere dove quattro donne che sono quattro prostitute, raccontano la loro quotidianità, narrano vicende passate e presenti, intervallate da invettive contro la legge: «’A Legge? ‘A Legge è comme nu rasulo, tene sempe cchiù e nu taglio, pe chi nun se vo arrennere ‘a Legge.» [14]. In queste narrazioni fatte per ingannare il tempo, Nanà, una delle quattro racconta di quando, durante la dominazione spagnola, il viceré, avendo visto un’enorme quantità di navi francesi nel porto pronte ad attaccare, abbia chiesto l’aiuto di «tre faccetoste, tre femmene ’e vita (prostitute), tre bazzariote (persone poco affidabili)» [15] per far ubriacare e distrarre con il sesso il nemico ed evitare lo scontro, in cambio avrebbero avuto il Trianon. A distanza di tempo un luogotenente francese, avendo visto il porto di Napoli pieno di navi spagnole, ha chiesto l’aiuto di tre faccetoste, tre donne di strada, tre bazzariote per evitare l’attacco spagnolo sempre con la promessa del Trianon (il Nostro vuole dimostrare che la storia si ripete, cambiano le facce e i nomi di chi comanda, ma non i fatti). Questa parola, Trianon, accendeva la loro fantasia, immaginavano fosse un palazzo nobile o chissà cos’altro perché: «’e puttane, soprattutto chelli napulitane, so’ fatte proprio accussì: a loro in fondo, nun ce ne fotte niente de denare, de solde, no…Loro so’ ‘nnammurate sulo d’ ‘e parole, ‘e chilli sciusce d’aria senza consistenza, ca so’ ‘e parole, meglio ancora si so furastiere.» [16]. Ritroviamo la storia delle prostitute e del Trianon in Partitura,ma se la prima parte può risultare una sorta di «ripetizione» del testo del 1982, subito la seconda parte diventa una non ripetizione e quindi sfocia nell’originalità: «dopo avergli impresso sul petto nu tatuaggio a forma ' e stella, a fforma 'e stella rossa a otto punte, e ogni punta diceva na lettera: m-e-r-e-t-r-i-x- m-e-r-e-t-r-i-x- e po' se ne ievano, cu nu piezzo d'inchino, si ve pare, cu ne piezzo 'e sciamanfù, si ve piace ma chesto, chest'era, chesto rimmaneva a lloro, 'e vaiasselle: carcere o scuro, carcere o scuro, sempre». [17] Ritroviamo Nanà di Trianon in Luparella, ma sempre come un’originale ripetizione, perché si sa che le situazioni assumono aspetti diversi a seconda delle angolazioni da cui sono riprese.
Compleanno, scritta nel 1992 è una pièce che Moscato scrive in memoria del suo caro amico e collega Annibale Ruccello, prematuramente scomparso nel 1986 a soli 30 anni in un incidente d’auto. L’amicizia e la complicità tra i due autori risale alla loro gioventù e lo stesso Moscato racconta in un’intervista che è stato proprio Ruccello, più addentro al mondo dei premi teatrali, dopo avere letto Pièce noire, a presentarla al Premio Riccione, e nonostante le previsioni avverse, il testo vinse nel 1985. In questa intervista Moscato racconta della stima reciproca, dell’amicizia, della complicità, ma soprattutto della mancanza di gelosia del talento l’uno dell’altro, cosa alquanto rara nell’ambiente [18]. Il compleanno in questione vuole festeggiare un’assenza, questa assenza è evidenziata da una sedia che resta costantemente vuota sulla scena, mentre troviamo vari elementi dei drammi di Ruccello, come la gatta Rusinè e le cinque rose. Il testo è una miscellanea dei personaggi di Ruccello e di Moscato, come donna Clotilde, don Catellino, Miezuculillo, il maniaco, Nanà, Luparella; di lingue come italiano, tedesco, francese, napoletano; di ripetizioni prese dai vari drammi che si intrecciano, si aggrovigliano, si arricchiscono, creando insieme un nuovo testo dove prende vita una sorta di stream of consciousness joyciano, uno sciorino di parole, di gesti di sguardi, mischiati a musica, balli, canti. È un one man show, Moscato è solo sulla scena, ma riesce a riempire il palco delle impalpabili, ma forti presenze dei suoi personaggi e dei personaggi di Ruccello, la sedia vuota rappresenta la forza, la potenza dell’assenza, che ritornando ad Artaud, è un’assenza che è presenza. Il suo teatro è «un viaggio allegorico intorno al mare (…) teatro che fa uso di pezzi già noti legati a frammenti di una nuova scrittura (…) una metafora come quella del mare. Mare di parole, di letteratura, di mitografia che spero sia leggibile. Mare che è tutto un giocare di metafore, di sineddoche, di antifone, di allitterazione. Mare fatto di carta di scrittura, con cui cerco di parlare all’animo dello spettatore.» [19]
Per Marcuse l’uomo evidenzia la sua natura istintiva attraverso la sua pulsione sessuale, ma è costretto a reprimerla per consentire al sistema sociale di sopravvivere, per cui impara a rinunciare a un piacere momentaneo in cambio di un piacere sicuro, anche se soggetto a costrizioni, e alterando la realtà perde il contatto con i suoi desideri. Questa assenza di repressione rappresenta l’archetipo della libertà, mentre la lotta contro questa libertà rappresenta la civiltà. In altre parole il piacere sostituisce la realtà e si rivela quale elemento traumatico nello sviluppo dell’uomo, sia dal punto di vita filogenetico (della specie) che ontogenetico (dell’individuo) [20]. Tutta la produzione del nostro drammaturgo ruota intorno a questi concetti, dove regna una sessualità sempre crudele, violenta, dove l’amore non esiste se non nella sua forma più primitiva o come merce di scambio, dove i dialoghi o i monologhi sono recitati in un crescendo di emozioni e di disperazione, emozioni snocciolate attraverso un sistema catottrico delineato dalla disperazione della quotidianità. I suoi lavori possono sembrare a tratti impegnativi, gravosi, forse anche un po’ caotici, talvolta sfiorano l’assurdo, il paradosso, ma i suoi testi sono sempre affascinanti, emozionanti e con il suo flusso di coscienza permette allo spettatore, non solo di leggere nella sua mente, ma di salire con lui sul palcoscenico, di sentire quello che lui sente. Quando il cadavere di Luparella viene violato dal soldato tedesco e Nanà cerca di fermarlo, possiamo sentire quella violenza su di noi, sentirci inermi, così come possiamo sentire le forbici che attraverso la mano di Nanà affondano nella schiena del soldato. Quando in Trianon, Nanà viene investita da uno scroscio d’acqua e al centro della scena, ferma, immobile, afferma che non è acqua ma urina versata dalle guardie, possiamo avvertire lo schifo, il senso di impotenza di queste quattro donne alla mercè di una Legge che non le tutela, sottolineando il fatto che gli ultimi restano sempre ultimi.
Quando Moscato scrive Tà-kài-Tà ha superato da un po’ il mezzo secolo, la sua scrittura è più matura, ma non per questo meno aggressiva, la linea di distinzione tra dentro il teatro e fuori dal teatro diventa sempre più sfumata, le due «entità» si completano e quella linea piuttosto che dividere unisce. Il testo è dedicato alla drammaturgia di Eduardo De Filippo, il titolo, infatti, è preso da un’idea di Eduardo per un film che voleva girare con Pasolini, che morì poco dopo; non ha velleità critico-argomentative, ma piuttosto metateatrali, dove lo stesso Eduardo si racconta, racconta la sua poetica, la sua arte, ma non si basa su nessun dato biografico, anche se cita dettagli importanti della sua vita. Moscato alterna cronaca e pensiero, realtà e fantasia, il buio e la luce che si avvicendano quando parlano E.1 ed E.2, dove E.1 è Eduardo e E.2 il suo doppio, torniamo, quindi, ad Artaud, dove la ripetizione è originalità e l’originalità è ripetizione: E.1 «(…) Un non muoversi mai da “qui”, pur andando “lì”…un restarci ed un partire…un resistere ed andare…un ridere e un soffrire…un marcire e un rifiorire…» [21], questo dualismo visto quasi come una colpa evidenzia un malessere che solo il palcoscenico può elaborare, questo conflitto interiore, questo spaccarsi in due, può essere esorcizzato solo sulla scena. La conflittualità insita in E.1 è già stata definita e quasi metabolizzata da E.2: «il poeta è pure chillo ca se fa morto da vivo e vivente nella morte (…) tengo, allora, na nutizia, grande e triste a ve purtà: ca io so’ vivo! E mi dirò “in frammenti” (…) l’unica condizione che pongo per continuare ad esserlo, è il frammento, la di-me scomposizione (…).» [22]
Il teatro di Enzo Moscato è un teatro colto, si avvertono riferimenti classici, conoscenze storiche e competenze linguistiche, si percepisce l’ironia, la passione, la sensualità, si intuisce il disagio, l’angoscia, ma il tutto è sempre molto ben miscelato e calibrato, in modo tale da non consentire il prevalere di un elemento sull’altro. Nel suo teatro ritroviamo la sua formazione classica, dove la recitazione ha soprattutto una funzione educativa, infatti, i greci appena si stanziavano in un luogo per fondare una città, vi costruivano subito un teatro, perché per loro la drammaturgia non era solo divertimento ma svolgeva un’azione didattica, perché consentiva di «contemplare in uno specchio magico la vita». L’allestimento era pagato con le tasse dei ricchi perché tutti, finanche gli schiavi, dovevano avere la possibilità di guardare «la vita» scorrere sul palcoscenico. Il palcoscenico, nel cui centro si trovava l’altare di Dioniso, il dio che rappresentava la vita in tutti i suoi aspetti, quelli felici e quelli feroci, il dio che incarnava la doppiezza dell’animo umano, simboleggiava l’esistenza; su questo palcoscenico i greci vedevano scorrere la vita reale, non erano spaventati dal lato buio della mente e dello spirito, volevano guardare «in faccia i loro mostri» perché la loro unica aspirazione era la conoscenza [23]. Ed è così anche per Enzo Moscato, il teatro è conoscenza, è crescita spirituale, il teatro è simulacro della verità, attraverso cui mostrare l’essere umano spogliato di tutti i suoi orpelli, per mostrare la sua anima, «il teatro è questo vedere fin dentro il buio e la notte per uscire dal buio e dalla notte lavati da acque segrete, come il sole che muore nel mare e ritorna a vivere nuovo ogni mattina» [24]. E come i greci, anche Moscato nel teatro trova la sua libertà.
Ph Fiorenzo De Marinis
Patrizia Ubaldi
(n. 2, febbraio 2024, anno XIV)
NOTE
[1] Annibale Ruccello, “Una drammaturgia sui corpi”, in Sipario, marzo-aprile 1987, n. 466, p. 72.
[2] Annibale Ruccello, “Perché faccio il regista”, in Sipario, marzo-aprile 1987, n.466, p. 78.
[3] Patrizia Ubaldi, “The Dickensian Naples in Vladimiro Bottone's historical novel”, in European Journal of Language and Literature Studies, July - December, 2023 Volume 9, Issue 2, p. 183. (Una povertà che genera disperazione e il passaggio dalla disperazione all’abiezione umana, non solo è veloce, ma è soprattutto inevitabile) Tradotto da me.
[4] Patrizia Ubaldi, «Abuso ed eccesso nella drammaturgia di Annibale Ruccello», in Eccesso e abuso nelle letterature romanze, Presa Universitară Clujeană, Cluj-Napoca, 2023, p. 166.
[5] Giulio Biffi, Visti da vicino 1, Guida, 2006, p. 70.
[6] Marco De Marinis, In cerca dell’attore, Bulzoni Editore, Roma, 2000, pp. 67-71.
[7] https://www.youtube.com/watch?v=7hpu1BPlF9Y. («Il guaio maggiore, in fondo, erano quelle stanze, quelle stanzette, sette, piccole e strette, come un ditale, una capocchia di spillo. Celle frigorifere, freddissime d’inverno e poi caldaie d’estate. E siccome tutte quante, per mestiere, portavamo pochi indumenti addosso, alla fine preferivamo l’inverno all’estate! E come perché? Perché d’inverno se faceva freddo si poteva indossare qualcosa in più, no? Ma d’estate, per il calore per il bollore, cosa ti toglievi da dosso? La tua pelle stessa? Che ti levavi? Che ti levavi? Che ti levavi?») Tradotto da me. La citazione è presa dalla recitazione poiché non ho avuto la possibilità e il tempo di recuperare il copione.
[8] C. Meldolesi e G. Guccini, “L’arcipelago della “nuova performance epica”, in Prove di drammaturgia, a. X nr. 1, luglio 2004, p. 4.
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