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Cultura e società nella Romania degli «anni bui»: l'esperienza e lo sguardo di un italiano
Arrivai all’Università di Iaşi una sera d’ottobre nella seconda metà degli anni settanta; ebbi una spontanea e calda accoglienza e fu subito amicizia e simpatia, ma fu soprattutto dialogo intellettuale e fucina, per me, d’insegnamento e non solo con i colleghi del dipartimento di lingue romanze. La mia formazione era avvenuta in quegli anni formidabili di una stagione unica ed irripetibile ed approdai a Iaşi con ancora in testa Eros e Civiltà, Storia e Coscienza di Classe, L’anima e le Forme ed I Grundrisse, in verità, letti male e, come molti della mia generazione, con la convinzione che l’immaginazione dovesse e potesse andare al potere. Non ci volle molto a capire, invece, che a governare, amministrare uomini e cose nel Paese era la ragione e l’immaginazione del potere. Collaboravo allora con due valenti colleghe nell’insegnamento della lingua e della letteratura italiana a giovani che sembravano avere idee chiare su cosa fosse la letteratura oltre ad una spiccata propensione per l’apprendimento della lingua. Molto spesso la loro concezione della letteratura non coincideva con la mia e la cosa diventava didatticamente produttiva perché il più delle volte ci abbandonavamo ad accese discussioni in cui mi colpiva la tenacia con cui difendevano le loro idee.
Sorprendente era il fatto che per quanto il Paese riconoscesse solo il materialismo storico e dialettico quale unica «scienza» valida per la comprensione dei conflitti sociali e del loro superamento, ma anche come paradigma etico ed intellettuale, sia nella prassi didattica che nella critica letteraria, di marxismo e materialismo storico e dialettico non c’era nulla; mentre l’orizzonte psicologico ed esistenziale, la formazione dell’individuo, «l’ingegneria dell’anima», sembravano andare in tutt’altra direzione. Sempre in quegli anni, ricordo, si completavano gli affreschi dell’ingresso principale e monumentale dell’Università (Sala Paşilor Pierduţi) in un bellissimo e raffinato stile di pittura metafisica, ma, ai miei occhi, sorprendente, visto il luogo ed il contesto. I classici del dibattito sul marxismo e la critica letteraria erano ignorati se non addirittura inesistenti, quello che in quegli anni veniva definito «marxismo occidentale» e che stimolava nel resto dell’Europa non poche discussioni, era oscurato, Lukacs ininfluente, parzialmente tradotto ed in ogni caso non quello di L’anima e le Forme e di Storia e Coscienza di Classe, i francofortesi sconosciuti e Gramsci, quando appariva, era una ulteriore e banalizzante esasperazione del Gramsci nazional popolare e, in ogni caso, mai quello dell’analisi dei gruppi intellettuali e dei contesti storici. C’erano invece, qua e là, alcuni slogan della catechesi staliniana e formule tratte dalla Dialettica della natura di Engels, sopravvissuti a tutti i cambiamenti, ma bene interiorizzati, disarticolati e senza alcuna connessione programmatica; una sorta di nenia ripetitiva, usata spesso come passepartout per poter discretamente dire e testimoniare altro da ciò che si voleva che si dicesse e che accadesse.
Mi sentii al centro di una situazione estremamente complessa e brulicante che tradiva l’immagine monolitica ed unidirezionale di quella che voleva essere una società diversa e con nuovi rapporti tra gli uomini. Fu per me un mondo stimolante principalmente sul piano intellettuale, perché mi metteva a confronto con intendi culturali ben celati, linee metodologiche e modalità di trasmissione del sapere che in parte mi erano estranee ed in primo momento devianti negli intenti, ma che finivano con l’aprirmi ad orizzonti critici nei confronti della cultura e del suo ruolo e significato nel Paese.
Un’analisi critica della transizione
Abbandoniamo per un attimo le prime sensazioni per citare uno studio su quegli anni, apparso nel 2004, e che mi sembra di estremo interesse e forse unico nel suo genere se non altro per la sua schiettezza ed onestà intellettuale.
Secondo Cătălin Zamfir, nel suo O analiză critică a tranziţiei, è intorno agli anni settanta che inizia a formarsi, cementarsi ed a proporsi con interessi propri quella classe sociale che alla fine degli anni ottanta sarà decisiva più d’ogni altra cosa, secondo noi, per la fine dell’esperimento comunista: La tecnocrazia. Quest’ultima, pur avendo caratteristiche ed obbiettivi strategici diversi da quella dei paesi a capitalismo maturo, cosa gravida di notevoli conseguenze sul piano politico e non solo, veniva a trovarsi in sintonia con essi e con un processo che già in quegli anni investiva il senso della politica e del modo di considerare la società ed i suoi conflitti.
«Un ruolo particolare hanno avuto gli specialisti che occupavano posizioni chiave nell’amministrazione della società. Questi ultimi avevano conquistato una certa autorità ed indipendenza nella costruzione della società socialista moderna. Per porsi al riparo da sospetti politici, gli specialisti svilupparono una specie di ideologia dell’apolitica e del tecnocratico. Sempre per motivi di protezione politica, i problemi strutturali e critici della società comunista furono passati in secondo piano, mentre l’attenzione si concentrava sul cambiamento dei componenti settoriali verso i quali il regime aveva una certa tolleranza. In questo contesto, gli specialisti tesero a costituirsi in una nuova classe sociale, con un programma specifico. Tecnocrazia.
Un punto essenziale del progetto riformista tecnocratico era la promozione del principio dell’autonomia delle sfere di attività sottraendole alla tutela del politico. La promozione della logica specifica dei settori di attività rappresenta un importante strumento per isolare il politico, che fino ad allora impose la sua logica in tutte le sfere della vita sociale.
Dal punto di vista politico una riforma progressiva non poteva essere realizzata se non attraverso un allargamento del quadro democratico. Nelle condizioni in cui, però, il regime comunista poneva al centro del sistema politico il principio dell’indiscutibile del partito unico, l’unica possibilità di allargare la democrazia era quella del principio della democrazia partecipativa:non una partecipazione politica a livello di vertice, bensì una partecipazione non politica a tutti i livelli dell’organizzazione sociale, in modo particolare nella sfera delle organizzazioni economiche e sociali. Non è un caso che l’approccio occidentale della democratizzazione delle imprese divenne un argomento di ampia diffusione». [1]
«Artigiani di un sistema moderno, in molti punti simile a quello esistente nei paesi occidentali, i tecnocrati romeni rappresentavano un orientamento distinto da quello della classe politica e sempre più opposto ad essa. […] L’automatizzazione delle componenti settoriali della società romena si accentuavano in rapporto alla politica globale. La priorità dei valori tecnici specifici di ogni settore divenne una fonte importante di resistenza del tecnico nei confronti del politico.
Il regime comunista non è riuscito mai ad ottenere da parte della tecnocrazia una piena lealtà politica. […] A sua volta, il sistema politico era costretto ad assimilare una parte dei valori della tecnocrazia per poter amministrare una società sempre più complessa ed al tempo stesso entrata in una crisi profonda». [2]
Negli anni settanta la svolta parsoniana sistemico funzionale era consolidata nelle società a capitalismo maturo, mentre la «game teory» era paradigma ampiamente diffuso come controllo dei conflitti nell’impresa e teoria del comportamento razionale in un ambiente sociale. A farmi scoprire la «game teory» ed a parlarmi di essa come modello di nuova e più avanzata razionalità per il governo delle società complesse, fu l’allora rettore dell’università di Iaşi, uno stimato economista, durante una delle nostre conversazioni nel suo ampio ed ospitale ufficio. Parlava da tecnico, da esperto e non da politico e senza rinnegare il passato, anzi stabilendo una continuità con esso, parlava della necessità di nuovi strumenti tecnici e neutrali per comprendere la complessità che si era venuta a creare, anche al di là della stessa volontà degli uomini.
Svaniva nei suoi discorsi il tradizionale concetto di conflitto quale fattore d’instabilità e discontinuità della società, stato patologico dell’organismo sociale che la politica deve di volta in volta debellare e risolvere; la politica, la specifica politica del Paese, pensata come fase ultima di approdo della modernità, aveva risolto il problema, si era pervenuti, però, ad una oggettività complessa in cui l’attenzione andava rivolta al conflitto inteso ormai come ambito costitutivo della realtà sociale stessa, della società intesa come sistema, e quindi studiarlo ed intervenire nella direzione di ottimizzazione degli strumenti di governo di essa per più avanzati equilibri. Non è un caso che in quegli anni aumentavano sempre più esperti della razionalizzazione dell’impresa capitalistica provenienti dal mondo del capitalismo avanzato a tenere conferenze e seminari in quella che era ritenuta il tempio sacro del regime politico, l’Accademia Ştefan Gheorghiu. Colpiva lo scarto culturale con l’Italia di quegli anni immersa in conflitti dolorosi, alla ricerca di razionalizzazioni sistematicamente fallite e ad ogni modo portate avanti con strumenti, idee e modelli derivati dal dibattito del primo novecento. Al tempo stesso non poteva non sorprendere che mentre la politica ufficiale dichiarava una cosa, immaginava che stesse accadendo qualcosa di glorioso ed unico, la società reale, nei suoi punti nevralgici di funzionamento, si costruiva in direzioni opposte in un complesso ed ambiguo legame con la politica stessa, così come analizzerà poi Cătălin Zamfir. Il soggetto attivo, l’individuo fautore di destini singoli e collettivi si perdeva nell’oggetto unico ed indifferenziato di una realtà che finiva con l’essere assunta ormai come ʻnaturaleʼ; la qual cosa sembrava non dispiacere al disegno politico, che si garantiva, per questa via, l’assenza di un vero antagonismo e al tempo stesso la fedeltà ad un’idea di scientificità ormai sempre più astratta e non più dialettica come aveva inizialmente tentato in modo maldestro e superficiale di professare.
E gli uomini di lettere? Per questi il discorso era complesso e non univoco. Il loro ruolo nella costruzione del dissenso o del consenso era enorme. In assenza di un libero confronto, di una società d’immagini severamente controllate, anche come conseguenza di un mercato interno inesistente, la letteratura era l’unico luogo di esercizio per l’immaginario; mentre le teorie della letteratura, divulgate e praticate nelle scuole e dai mas media, erano l’unico strumento di codificazione e regolamentazione dell’immaginario privato e collettivo per definire una posizione esistenziale nel mondo e nella società.
L’onnipresenza della poesia
Sorprendente, quasi destabilizzante, fu osservare la quasi ossessiva presenza della poesia; al di là di quella buona o cattiva, vera o non vera, la poesia, il genere poesia, spadroneggiava in lungo e in largo. I quotidiani di maggiore diffusione in prima pagina avevano sempre, o quasi, dei versi, persino il foglio del sindacato dei ferrovieri pubblicava poesie. Con la poesia si introducevano e si sottolineavano i successi della politica e dell’economia. Era la poesia a richiamare negli stadi migliaia di giovani, fino a diventare fenomeno competitivo con chi aveva voluto la poesia come momento forte di un’idea di progresso e sviluppo. C’erano poeti ad ogni angolo, credo di non aver conosciuto ed incontrato mai tanti poeti. Per me che venivo da un paese e da una cultura che nel dopoguerra era stato molto critico nei confronti della esaltazione della poesia e che al tempo stesso non ha mai visto i propri contemporanei in un’ottica critica, agli inizi, il fenomeno era destabilizzante; andava capito più d’ogni altro fenomeno che mi si presentava nuovo. C’era la poesia patriottica che rispolverava banalizzando miti ottocenteschi, c’era la variante etnica e nazionalistica; ma c’era anche quella intimista e decadente ma non come quella europea o italiana stessa, c’era quella simbolista, c’era di tutto; ma principalmente c’era la poesia come strumento immediato di comunicazione e senza alcuna mediazione. Mi veniva spontaneo, nel disorientamento, pensare all’ostilità di Eraclito nei confronti di Omero ed Archiloco (Omero è degno di esser frustato e cacciato via dalle gare e con lui Archiloco) e alla sua critica di una cultura, la poesia, che seduce le menti dei molti senza comunicare una conoscenza iniziatica in grado di condurrel'uomo al di là dell'umano e nella sua storia. Si era in un periodo in cui l’ermeneutica non era ancora esplosa, almeno in Italia, e tanto meno quella legata alle mie inesperte letture di quegli anni, mentre in Romania di allora serpeggiava nascosta quella forse più oscurantista e che esploderà egemone nei primi anni dopo l’89. Ma questa è un’altra storia.
Tornando alla poesia e con il senno del poi, sarebbe certo arbitrario trattare le varie forme sotto le quali la poesia si presentava come espressioni intercambiabili di una realtà intellettuale indifferenziata; ma, al tempo stesso, ritenevo che il rapporto spesso esplicito che le attraversava non dovesse essere occultato da un rispetto metodologico delle distinzioni formali. Il primato della descrizione, il rifiuto della spiegazione, la privatizzazione dei bisogni, dei desideri, della creatività, erano, credo, modi ideologici di un’istanza di libertà e di individualità non certo nuova nella storia della cultura, ma nel caso specifico, profondamente piegata da una condizione regressiva, anche se ampiamente giustificata da una condizione di impossibilità da parte del mondo intellettuale abbandonato alla semplice autogestione politica della propria contraddizione e dal venir meno dell'orizzonte politico della trasformazione.
Anche in questo caso, come per la tecnocrazia, era il processo di destorificazione a cui si era sottoposti a ricollocare il sentimento di una funzione intellettuale in uno spazio protetto di autonomia. C’era però ancora qualcosa che mi inquietava e francamente mi tormentava, pensando anche alla dialettica dell’Illuminismo di Adorno, altro testo fondamentale della mia gioventù. Il dato di fondo che emergeva era che, contro il dominio del logos, il valore estetico esistenziale della poesia rilanciava il primato del soggettivo-vissuto, rivendicando segretamente e ben celato il ruolo che proprio la ragione classica le aveva assegnato come forma e creatività libera da condizionamenti e significati storici. Il paradosso, o meglio la contraddizione, risiedeva nel fatto che il sistema politico che si riteneva essere la tappa più avanzata del logos e che avrebbe definitivamente realizzata la modernità, al tempo stesso spingeva l’individuo, che avrebbe dovuto liberare, in una zona protetta, un ghetto, per potere difendere le promesse del logos e che venivano ora collocate in uno spazio metastorico. La sensazione era che si fosse di fronte ad una critica della modernità, corrotta e deviata, in fase unicamente difensiva al di là di ogni proposta conoscitiva ed operativa; una ritirata, come nel caso della tecnocrazia, più che strategica unicamente difensiva, in attesa di un evento esterno che avrebbe risolto il problema del cambiamento radicale.
Due fenomeni contro il disagio politico-esistenziale
A soccorrere il disagio politico-esistenziale negli anni settanta (e quando io arrivai a Iaşi il fenomeno era in piena e consolidata maturità), ad offrire coerenza teorica e compattezza al puntiforme processo di destorificazione, fu lo strutturalismo, o meglio la linguistica strutturalista ed in misura minore il generativismo, alla quale si associava la cogente visione mitico-fondativa della ritrovata tradizione romena e più specificamente Blaga ed Eliade. Due fenomeni forti che segneranno le future generazioni e non solo di intellettuali ed uomini di lettere. Si trattava, ed era visibile, di una questione generazionale: i trentenni di allora, educati negli anni liceali dalla catechesi staliniana, tenuti all’oscuro della stessa tradizione letteraria e culturale romena, trovavano nello strutturalismo ed in modo particolare nella linguistica, l’esercizio mentale per stare lontano da tutto, dai problemi della società e dalla politica e al tempo stesso uscire dalle angustie nazionali ed inserirsi nella grande famiglia europea e mondiale degli strutturalisti. Un’occasione unica per vincere l’isolamento e aprirsi ad altri mondi e, devo dire, nei quali si inserirono subito e con agilità e straordinaria competenza. Mentre i sessantenni di allora ritrovavano nei maestri della loro gioventù, in primo luogo Blaga, ma anche Eliade, Vianu e altri, il caldo rifugio in una oggettività senza soggetto che, se pur diversa e lontana da quella dei trentenni ed agguerriti strutturalisti, cospirava nella stessa direzione. A loro bastavano le idee della letteratura come sistema dei teorici dell’immediato dopoguerra, Curtius e Auerbach, a farli sentire partecipi e parte integrante della cultura europea e, per dirla con le parole di Lovejoy, inseriti nella Grande catena dell’essere. La competizione con i giovani era solo accademica. Ricordo la freddezza con cui venne accolta la Storia della Lingua Romena di Gheorghe Ivănescu, apparsa in piena egemonia strutturalista. Una storia che volutamente ignorava strutturalismo e generativismo e forse non solo per questioni generazionali dell’autore che li riteneva inutili, tranne per alcuni aspetti terminologici. La storia di Ivănescu aveva la colpa di affrontare il problema dello sviluppo della lingua romena alla luce dei contesti storici e sociali ed anche di egemonia di classe; una storia che per me, straniero e desideroso di conoscere una realtà storica e culturale, faceva capire molto. Allergia per qualsiasi riflessione sulla storia e sulla società comunque intesa di contro a un privilegio sia spirituale che tecnico che lo stesso sistema dal quale si ritiravano conferiva loro? Forse; ma c’era qualcosa di più, qualcosa che già si affacciava anche forte nei paesi a capitalismo maturo: l'antipolitica, quel diffuso atteggiamento di indifferenza se non di esplicita ostilità verso la politica, sembrava essere piuttosto l'altra faccia della politica. Di quella assoluta, onnicomprensiva e autoreferenziale, che ostinandosi a declinare impropriamente il linguaggio teologico, fini ultimi progressivi e unidirezionali, grandi valori quasi come fossero ontologicamente fondanti, non faceva altro che produrre un'inesorabile spoliticizzazione. In realtà, nella presunta contrapposizione polemica, l'antipolitica non faceva altro che riprodurre la vocazione spoliticizzante della politica assoluta, intensificandone l'esito nichilistico. Politica e antipolitica, pertanto, paradossalmente convergevano, in quanto l'antipolitica finiva con l’essere l'esito dell'esasperata politicizzazione della società.
La sovrapposizione delle due linee, solo apparentemente lontane, cospirava in modo particolare nell’insegnamento e a tutti livelli. In poco tempo la linguistica strutturalista si impiantò nelle scuole irrigidendosi come modello egemone e d’eccellenza, anzi come il «modello», per sclerotizzarsi in formule didattiche. Fenomeno ben noto in Francia che allora aveva la totale egemonia sulla critica letteraria [3] ed ancora attuale oggi se Mauriel Barbery, nel suo complesso e bellissimo L’eleganza del riccio fa dire alla giovane studentessa di scuola media Paloma: «Il francese con questa prof si riduce a una lunga serie di esercizi meccanici, sia di grammatica che di analisi testuale. Con lei sembra che i testi siano stati scritti per poter identificare personaggi, il narratore, i luoghi, il plot, i tempi del racconto ecc. Penso che non le sia mai venuto in mente che prima dl tutto un testo è scritto per essere letto e per suscitare delle emozioni nel lettore». [4]
E all’acido disappunto della professoressa perché lei, Paloma, trova sterile parlare dell’uso dell’aggettivo qualificativo come epiteto, risponde: «leggendo Jakobson risulta chiaro che la grammatica è un mezzo, non solo un fine: è un accesso alla struttura e alla bellezza della lingua , non è solo una roba che serve a cavarsela in società». [5]
Nella scuola più remota la linguistica unitamente alla matematica divennero le discipline fondanti i cui esiti sociali e forse antropologici dovrebbero essere accuratamente analizzati. I concorsi per l’insegnamento secondario di lingua e letteratura, nonché le varie tappe di carriera nell’insegnamento, erano rigidamente ancorati all’università ed era quasi impossibile che un candidato non passasse attraverso le forche caudine di saper dire se il brano di testo che ha sotto gli occhi sia «omo-» o «eterodiegetico», «singolativo» o «iterativo», a «focalizzazione interna» o «esterna», oppure sapersi districare abilmente tra le figure di Genette.
Tzvetan Todorov e la svolta strutturalistica
Significative due prese di posizione del più ortodosso dei linguisti strutturalisti della fine anni sessanta ed inizio anni settanta, Todorov, tempo dopo ed in un mondo radicalmente diverso da quegli anni. In una intervista proprio ad una rivista letteraria romena ricorda in quella che ora appare una ingenua confessione: «quando sono arrivato in Francia, venivo dalla Bulgaria, dove l’unico mezzo per fuggire dall’influenza della pseudo scienza marxista leninista era quello di fare studi molto formali, molto linguistici. Nella numerazione delle sillabe non poteva esistere marxismo leninismo». [6]
E più tardi, dopo la conversione ad altri interessi come l’etica ed una certa antropologia, a chi nel corso di una intervista gli chiedeva: «Lei è nato come critico letterario e studioso di semiotica. Come mai poi ha indirizzato decisamente i suoi interessi verso l'analisi storica?» Dichiarava: «La spiegazione è che io ho vissuto in Bulgaria i miei primi 24 anni e dunque, quando sono arrivato in Francia, in me era ancora molto forte la coscienza che si era formata sotto il regime comunista e l'esigenza che sentivo era di separare il mio lavoro dall'ideologia, dalla storia e dalla società proprio perché in Bulgaria tutto ciò era unito, normalizzato. Ma dopo una decina d'anni, verso la fine degli anni Settanta, ho voluto allargare il mio interesse anche alla società e alle persone che mi circondavano e mi sono sentito libero di farlo». [7]
E queste dichiarazioni valgono più d’ogni altra considerazione; anche perché lo strutturalismo conosceva nella Romania di allora unicamente la variante linguistica rigidamente limitato alla letteratura.
Negli anni '60 e '70 lo strutturalismo era stato un grande e potente impero ovunque. Aveva conquistato le scienze umane tutte e, per alcuni anni, era sembrato inattaccabile, eterno, e svolta decisiva nel modo di pensare. Coinvolse pesantemente, oltre alla linguistica, l'antropologia (Levi-Strauss), senza risparmiare il marxismo di Louis Althusser e la psicoanalisi di Jacques Lacan. Il suo avvento sembrò riscattare la cultura umanistica dall’accusa di scarsa scientificità. Lo strutturalismo ormai era il Metodo. E senza metodo non si sarebbe saputo che cosa fare delle opere letterarie.
La linguistica strutturale avrebbe permesso analisi testuali più sistematiche di quanto avevano fatto geniali ma unilaterali maestri della critica stilistica come Leo Spitzer ed Erich Auerbach. Sullo sfondo, il problema dominante sembrava essere il progresso della critica da un passato di caotico soggettivismo a un futuro di fondata obiettività. L'opera letteraria cominciò a essere descritta come una struttura sincronica autoreferenziale il cui significato ed il cui valore si giustificavano solo dall'interno del testo, senza riferimenti alla realtà extra linguistica, per esempio un autore o un lettore.
La svolta strutturalistica degli anni '60 creò non solo una direzione di ricerca, ma impose una moda la cui forza di suggestione era dovuta soprattutto all'introduzione di una terminologia di origine scientifica usata spesso come un gergo rassicurante e illusionistico. L'importante era analizzare testi, non importa di che valore fossero. Come se tutte le opere di tutte le letterature storicamente note avessero lo stesso funzionamento, le stesse caratteristiche testuali profonde, gli stessi rapporti con la tradizione e con il pubblico.
Significativo era il fatto che mentre lo strutturalismo si impossessava rigidamente degli studi letterari e linguistici in Romania non faceva sentire alcun eco negli altri settori delle scienze umane. Le opere di Foucault, di Lacan, e di Levi– Strauss circolavano ma solo per palati raffinati ed in ogni caso mai presenti, credo, come spunti metodologici nella costruzione del sapere scolastico in modo particolare a livello liceale.
Va detto che la naturale propensione per le lingue spingeva i romeni a conoscere e a leggere tutto; le discussioni con molti colleghi erano affascinanti, stimolanti e rappresentavano per me un arricchimento intellettuale notevole. Il dibattito su quanto in quegli anni avveniva in Francia, Inghilterra, Stati Uniti era ben presente, solo che, era forse mia impressione, tutto si piegava verso una sorte di oggettività fondazionale che trascurava il potenziale critico e soggettivo di qualsiasi linea metodologica. Era come se il soggetto si nascondesse, si celasse, sparisse fino a confondersi in una indistinta oggettività; una specie di «dissimulazione onesta» che trovava nella teoria ancoraggi forti per la salvaguardia dello stesso soggetto.
Umberto Eco, Benedetto Croce e Francesco De Sanctis: interpretazioni e influenze
Ricordo il grande successo di cui godeva Umberto Eco, ritenuto maestro di semiotica più d’ogni altro, e con quanta cura però si scivolava, nelle discussioni, sulla sezione «D» della sua «Struttura Assente». Da parte di molti era come se fosse quasi una delusione vissuta con stupore, la messa in discussione di un pensiero fondazionale, un vuoto nei confronti di un’ontologia che si frantumava lasciando orfani e privi di quel sostegno dell’antipolitica che, paradossalmente, era sostegno della politica totale del sistema.
Umberto Eco non era l’unico teorico italiano ad essere sottoposto all’oblio di alcune componenti critiche del proprio pensiero. Lo strutturalismo in Italia, oltre ad arrivare tardi, pur avendo prodotto opere di pregevoli qualità, non divenne mai progetto egemone nell’insegnamento medio ed universitario se non in casi frammentari. Dibattiti, pubblicazioni, analisi critiche non mancavano ma restavano ristrette al campo accademico e mai coinvolgevano un generale atteggiamento mentale nuovo. Grazie ad un’editoria attenta e forse senza confronti tra quelle occidentali, venivano di volta in volta immessi nel circuito: Mukarovsky, Greimas, Lacan, Derrida, Lotman, Bachtìn ecc. I detrattori attaccavano lo strutturalismo e la semiotica come ideologia del capitalismo avanzato, ma, credo di poter dire ora, da posizione conservatrice, senza vedere in esso gli aspetti, se pur contraddittori, utili ad una organizzazione diversa del sapere. Così accadeva per le direttrici sistemico-funzionali e la teoria dei giochi in politica; anche in questo caso non mancavano traduzioni, seminari universitari, discussioni tra esperti, mai però divennero seri e veri modelli per il governo della società. In entrambi i casi l’Italia ufficiale, quelle delle istituzioni culturali all’estero, ignorava totalmente l’esistenza dei fermenti e delle discussioni teoriche in cui il mondo occidentale si dibatteva. L’idea dominante, e non vorrei sbagliare, era quella di un generico «L’importante è essere presenti» e là dove vi era un programma di intervento non si andava oltre, e vorrei ancora non sbagliare, un intelligente crocianesimo di sinistra.
Ed a proposito di Croce, mentre in Italia la chiusura della teoria letteraria verso l'estetica, e di ampi settori dell’estetica verso la teoria letteraria, impediva utili scambi e comunicazioni, in Romania l’estetica crociana e teoria letteraria stabilivano un sotterraneo sodalizio, una complicità segreta su un punto in comune molto forte: l’autonomia della poesia. D’altra parte, sia per Croce come per i formalisti e gli strutturalisti, la poesia è del tutto aliena da finalità pratiche e l’artista non deve rispondere che all’imperativo del bello. Come per i formalisti, anche per Croce la poesia è pura forma in cui si risolvono i contenuti. E la poesia si identifica inoltre, per il filosofo italiano come per i teorici slavi, con l’espressione linguistica. In perfetta sintonia con quanto sostenuto da Jakobson il testo è in sé autosufficiente e non occorre uscire fuori di esso per apprezzarne le qualità. Infine, un altro interessante punto di contatto: per i formalisti la letterarietà non va ricercata soltanto nelle opere che rispondono ai canoni ufficiali della letteratura, essa appartiene a qualsiasi oggetto che possiede determinate proprietà; e così per Croce la poesia può incontrarsi dovunque, e semmai più spesso al di fuori dell’istituzione letteraria. Sintomatico era anche l'annullamento di qualsiasi barriera tra verso e prosa.
Senza comunicare tra loro, l'estetica idealistica e il formalismo russo delineavano in sostanza la stessa concezione dell’arte, il primo su basi rigorosamente estetiche, il secondo su basi linguistiche. Il sodalizio tra sensibilità crociana, ed era una sensibilità attestata principalmente sul Breviario di estetica – Aesthetica in nuce” (Un testo che non pochi professori di liceo e di una certa età facevano leggere in Italia fino alla soglia del ‘68 agli studenti, in modo che questi imparassero a riconoscere l’ospite prezioso di ogni letteratura: La poesia e tecniche formaliste risiedeva nel fatto che l’idea crociana di poesia e la sua estraneità alla storia, oltre a creare un caldo rifugio nei confronti di una realtà ostile, conteneva una maggiore fruibilità poiché non necessitava di tecniche e formule particolari e poteva attingere al serbatoio del senso comune. La poetica decadente del Croce (e come non pensare al successo della Poetica del Fanciullino del Pascoli, almeno tra i cultori della cultura italiana!) raggiungeva anche i non addetti ai lavori divulgando e confermando il senso di una poeticità nelle cose oltre il contingente. Si incrociava con la tradizione romantica della poesia, del concetto dell’arte per l’arte, convalidava l’estremo rifugio protetto in un mondo idilliaco strizzando l’occhio alla tradizione mitico-fondativa. Tra estetica crociana e tecniche formalistiche e strutturalistiche c’era, così mi sembrava, come una divisione dei compiti: alla prima il compito di creare ed interpretare un sentimento comune capace di coinvolgere tutti gli strati socio-culturali, ai secondi lo strumento tecnico, colto, alto, il compito di creare una mentalità scientifica e normativa anche nella individuazione del percorso di un popolo (ormai pensato indistinto) verso la meta finale. E quale paradigma se non quello di De Sanctis più idoneo a raccontare le vicissitudini ed il travaglio della linea ascendente di un popolo?
Una storia della letteratura, quella di De Sanctis, scritta come un romanzo storico, anzi anch’essa romanzo storico dell’Ottocento italiano, offriva tutti gli elementi di riferimento per un’antropologia nazionalistica di immediata fruibilità che coglieva ed individuava presunte specificità ed originalità che venivano da lontano e da tempi immemorabili. Estremamente colta e raffinata, la cultura romena di quei tempi costruiva un mondo parallelo e sotterraneo a quello che la politica voleva; pagava il prezzo però, a mio avviso, all’antipolitica. La giusta e legittima difesa ad oltranza del soggetto si dissolveva in una oggettività speculare a quella della politica totale che dopo l’89, con la sconfitta definitiva di ogni pensiero totale e la morte dell’utopia di pensare l’uomo e la società oltre i valori di scambio, porrà una seria ipoteca sulla società, sulla cultura e sull’insegnamento.
Onofrio Cerbone
(n. 4, aprile 2014, anno IV)
NOTE
1. Cătălin Zamfir, O analiză critică a Tranziţiei, Polirom, Iaşi 2004, traduzione nostra, pag. 23.
2. Cătalin Zamfir, op. cit., traduzione nostra, pag. 106.
3. Vedi: Antoin compagnon, Le démon de la théorie. Littératur e sens comun, Editions du Seuil, Paris 1998, traduzione Italiana, Giulio Einaudi Torino 2000.
4. Muriel Barbery, L’élégance du hérisson, Gallimard, Paris 2006; L’eleganza del riccio, traduzione italiana, Edizioni e/o, Roma 2009, pag. 150.
5. Ibidem, pag 153.
6. «Romania literara», n. 2, 1999 (XXXII).
7. «Messaggero Veneto», 26 gennaio 2002, intervista a cura di Gianpaolo Carbonetto.
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