Nel segno dell’assenza. Omaggio a Wisława Szymborska «E ora qualche passo / da parete a parete, / su per questi gradini / o giù per quelli, / e poi un po’ a sinistra, / se non a destra, / dal muro in fondo al muro / fino alla settima soglia, / da ovunque, verso ovunque / fino al crocevia / dove convergono, / per poi disperdersi / le tue speranze, errori, dolori, / sforzi, propositi e nuove speranze. / […] curva dopo curva, / e stupore su stupore, / e veduta su veduta. / […] da luogo a luogo / fino a molti ancora aperti / dove c’è buio e incertezza / ma insieme chiarore, incanto / dove c’è gioia, benché dolore / […] e d’improvviso un dirupo, / […] Deve pur esserci un’uscita, / è più che certo. Ma tu non la cerchi, / è lei che ti cerca, / è lei fin dall’inizio / che ti insegue, / e il labirinto / altro non è / se non la tua, finché è possibile, / la tua, finché è tua, - fuga, fuga». [Wisława Szymborska, Due punti (Adelphi Edizioni, Milano 2006), p. 38. Da questa edizione saranno prese tutte le citazioni di Due punti]. Ascolto il notiziario RAI che informa con poche parole della morte di Wisława Szymborska. Prendo a caso dalla libreria una raccolta della poetessa. Mi capita fra le mani Due punti, pubblicato in Polonia nel 2005, in Italia, da Adelphi, un anno dopo. Apro a caso e leggo. A caso leggo la poesia da cui sono tratti i versi sopra citati. S’intitola Labirinto: quando fu inserita nella raccolta in questione la poetessa aveva 82 anni. *** Il caso, ogni caso – come dal titolo di una raccolta pubblicata nel 1972, in italiano Scheiwiller, 2003 –è anche figura centrale della poesia di Szymborska, quasi un suo mantra, la colonna sonora che regge il suo pensiero al punto che l’esserci nel mondo, ciascuno con caratteristiche personali e proprie, è un caso sin dalle circostanze della nascita. «C’è mancato poco / che mia madre sposasse il signor Zbigniew B. di Zduńska Wola. / E se mai fosse nata una figlia – non sarei stata io» (Due punti, Assenza, p. 11). Se il padre poi, continua la stessa poesia, avesse sposato la signorina Jadwiga R. di Zakopane, pure sarebbe nata una figlia diversa e forse i due figli, casualmente diversi, di padre e madre casuali (che non sarebbero stati suo padre e sua madre) si sarebbero incontrati e avrebbero giocato, ma lei no, lei non ci sarebbe stata nella foto di gruppo scolastica: unica assenza fra tante allegre presenze: «Ragazzine mettetevi qui / – avrebbe detto il fotografo – / quelle più basse davanti, quelle più alte dietro. / E al mio segnale fate un bel sorriso. / Ma prima contatevi, / ci siete tutte? // – sì signore, tutte»: tutte tranne lei la figlia per caso di suo padre e sua madre. Talora è l’insignificanza dell’esserci a suggellare l’assenza sullo scenario casuale delle relazioni umane, lasciate anonime: In altre poesie è il parallelo scorrere di vite e di giorni a proiettare l’ombra dell’indifferenza sulle vicende umane coinvolte in un susseguirsi ritmato di variazioni atmosferiche (Due Punti, Il giorno dopo – senza di noi, p.16), mentre ogni durata si relativizza (Due punti, Intervista con Atropo, p. 33) ed ogni accadere si staglia isolato in uno spazio senza sguardo (Due punti, Incidente stradale, p.14). «Cielo, terra, mattino, / ore otto e quindici. / Quiete, silenzio»: una leonessa e un’antilope si sfidano in una corsa per la sopravvivenza. È casuale l’inciampo («un quarto di secondo») che concede alla leonessa una cruenta vittoria. Come prima l’anonimato delle figure così qui la freddezza del linguaggio scientifico sembra irrigidire il respiro e fissare il susseguirsi dei fatti, piccoli o grandi ma sempre concreti per la loro particolarità, in una casualità/necessità senza scampo. «Il mio non arrivo alla città di N. / è avvenuto puntualmente. // Sei stato avvertito / con una lettera non spedita. // Hai fatto in tempo a non venire / all’ora prevista. // Il treno è arrivato sul terzo binario/ è scesa molta gente. // La mia persona, assente, / si è avviata tra la folla. // […] La stazione della città di N. / ha superato bene la prova / di esistenza oggettiva. // L’insieme restava al suo posto / i particolari si muovevano / sui binari designati. // È avvenuto perfino / l’incontro fissato. // Fuori dalla portata / della nostra presenza // nel paradiso perduto / della probabilità / altrove / altrove». Tutto è oggettivo, tutto si svolge, noi assenti (ogni essere umano è «esposto alla propria assenza»: Nato,in Vista con granello di Sabbia, p. 62.), ovvero presenti in altro luogo, secondo i limiti di uno spazio che ci appartiene, più o meno grande, circoscritto e raccolto. «Fra le dita del caso lo spazio / si srotola e arrotola, / si allarga e restringe. / […] Ci vien voglia di gridare: / come è piccolo il mondo, / come è facile afferrarlo / a braccia aperte! / e per un attimo ancora ci colma una gioia / raggiante e illusoria». (Séance, p. 197) Ogni caso significa: tutta l’infinita molteplicità dei particolari che fanno la vita sublime o crudele: perché il particolare, come ella scrive in Decapitazione «è inflessibile» e non perdona (p. 68). *** Da una totalità fatta di cielo e di terra, di nuvole, campi, fiumi, animali, stazioni, scambi, labirinti, casuali presenze, casuali assenze bisogna «cominciare» per guardare e sentire il mondo, per esserne forse «partecipi» nel senso in cui lo esige la pietra di Conversazione con una pietra (p. 49). È l’invito della stessa Szymborska: «Da qui si doveva cominciare: il cielo. / Finestra senza davanzale, telaio, vetri. Un’apertura e nulla più, / ma spalancata». «La divisione in cielo e terra / non è il modo appropriato / di pensare a questa totalità». (Il cielo, p. 181) Noi siamo parti di questo tutto e siamo questo tutto che ci pervade: «abitanti abitati», «abbraccio abbracciato». Siamo attimi di un tempo che parimenti ci invera. «Devo essere stata i molti altri posti / esattamente come i conquistatori di terre lontane». «Anche l’attimo fuggente ha un ricco passato». «Fitto e intricato è il ricamo delle circostanze. / Il punto della formica sull’erba. / L’erba cucita alla terra, / il disegno dell’onda in cui si infila il fuscello» (Non occorre titolo, p. 183). «Ogni inizio infatti / è solo un seguito / e il libro degli eventi è sempre aperto a metà». Delle cose che accadono, un amore che nasce, per esempio, «ci furono forse segnali / magari indecifrabili» che potevano farlo presagire: «Forse tre anni fa / o un martedì scorso / una fogliolina volò via da una spalla a un’altra?» Amore a prima vista, p. 199). «Sulla mano mi è caduta una goccia di pioggia, / attinta dal Gange e dal Nilo, […] Sul mio dito indice / il mar Caspio è un mare aperto, // e il Pacifico affluisce docile nella Rudawa, / la stessa che svolazzava come nuvoletta su Parigi / nell’anno settecetosessantaquattro / il sette maggio alle tre del mattino» (L’Acqua, p. 47 ). Qui c’è probabile un riferimento alle vicende storiche che riguardarono le relazioni fra Franchi, Papato e Longobardi in quell’anno con la sottolineatura del particolare minuto (giorno e ora) a rendere «quotidiano» l’evento nella sua concretezza ineludibile. Il tempo, lo spazio, i paesaggi, le vicende umane, la sintesi degli elementi: questa è la storia universale quella in cui si calano le guerre e le paci, le morti e gli oblii. «Dopo ogni guerra / c’è chi deve ripulire. / In fondo un po’ d’ordine / da solo non si fa». Perché infine la realtà esige. «…esige / che si dica anche questo: / la vita continua. Continua a Canne e a Borodino / e a Kosovo Polje e a Guernica. // […] C’è un distributore di benzina / nella piazzetta di Gerico [ …] lettere vanno e vengono/ tra Pearl Harbor e Hastings [… ] C’è tanto Tutto / che il Nulla è davvero ben celato. [… ] Talmente tanto accade di continuo / che deve accadere dappertutto […] Dov’era Hiroshima / c’è ancora Hiroshima / e si producono / molte cose d’uso quotidiano […] Qual è la morale? – forse nessuna. / Di certo c’è solo il sangue che scorre / e, come sempre, qualche fiume, qualche nuvola. // Sui valichi tragici / il vento porta via i cappelli /e non c’è niente da fare – / lo spettacolo ci diverte» (La realtà esige, p. 189). *** La vita dunque tutta si riduce in questo memore oblio? Tutto viene appianato, quietato, levigato, quasi come pietra tombale, o ammasso di cose vecchie conservate a surrogare la mancanza dell’eternità (Museo, p. 33)?”. Tutto si ricompone nella natura estranea, nella percezione assente, attraverso il lavorio del caso? «Senza di noi non ci sarebbero i sogni. / Quello senza cui non ci sarebbe veglia / è ancora sconosciuto, / ma il prodotto della sua insonnia / si comunica a chiunque si risvegli». «La veglia non arretra d’un passo», «non le si può fuggire / perché ci accompagna in ogni fuga. / E non c’è stazione / lungo il nostro viaggio / dove non ci aspetti» (La veglia, citata da La fine e l’inizio, Scheiwiller, Milano 1997, p. 39.). Un’alterità misteriosa, da uno sconosciuto altrove tutto osserva e tutto patisce, si impone con la sua presenza vigile, dalla sua prospettiva non placata e non quietabile, esterna al paradossale funzionante congegno, in cui convergono i frammenti del vivere quotidiano (Sulla torre di Babele, p. 46, dove l’incomunicabilità deriva proprio dall’estrema frantumazione delle esperienze) e la somma dei guizzi della storia, nascono dolore e pietà. Dovremmo citare testi bellissimi: Il Clochard (l’uomo che dorme «con l’aria di un inventore di sogni» sotto lo sguardo amorevole di una cattedrale) (p.36 ); Il vecchio professore, dalle risposte piane ed essenziali sul volgere della vita, che accoglie tra i suoi ricordi uccelli senza nome e fiori di ciliegio e «quando la sera è tersa» osserva il cielo: «non finisco mai di stupirmi» dice «tanti punti di vista ci sono lassù» (Due punti, p. 23); Il monologo di un cane coinvolto nella storia o Il gatto in un appartamento vuoto, sulla ‘serietà’ del mondo animale (rispettivamente in Due Punti, p. 30 e La fine e l’inizio, p. 49). E ancora L’acrobata (p.74), bellissima anche dal punto di vista della forma, un aspetto importante nella poesia di Szymborska che abbiamo lasciato fuori dal nostro percorso di lettura e cui qui facciamo soltanto cenno per sottolineare come l’andamento dei versi, la ripetizione delle parole dalla fine di un verso all’inizio dell’altro, i loro suoni (che nella traduzione italiana sembrano rendere bene l’intento dell’originale) ricreano l’effetto visivo di un caracollante funambolico cammino, del passo incerto che indugia a ritrovare equilibri «da trapezio a / trapezio, nel silenzio dopo / dopo un rullo di tamburo di colpo muto, attraverso / attraverso l’aria stupefatta»… O, infine, Addio a una vista (p. 195), in cui il dolore per l’assenza di chi ci è venuto a mancare rende insostenibile la percezione della propria presenza. «Non ce l’ho con la primavera / perché è tornata. / Non la incolpo / perché adempie come ogni anno / ai suoi doveri. / […] Riesco persino a immaginare / che degli altri, non noi, / siedano in questo momento / su un tronco rovesciato di betulla. / […] Una cosa soltanto non accetto. / Il mio ritorno là. / Il privilegio della presenza – / ci rinuncio. // Ti sono sopravvissuta solo / e soltanto quanto basta / per pensare da lontano». *** Una lettura casuale ha dato l’avvio a questi spunti, «veduta su veduta stupore su stupore» nel buio e nella luce fra dubbi e certezze. Lungo il nostro percorso quel è diventato guida per una possibile sintesi diversamente significativa a cui la poetessa certamente tendeva e che la poetessa certamente già viveva in sé. Sotto una piccola stella «Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità. / Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio. / Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia. / Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria. / Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante. / Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo. / Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa. / Perdonatemi ferite aperte se mi pungo un dito. / Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco con il minuetto. / Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino. / Perdonami speranza braccata se a volte rido. / Perdonatemi deserti se non corro con un cucchiaio d’acqua. / E tu, falcone, da anni lo stesso nella stessa gabbia, / immobile, con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto, / assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato. / Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo. /Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte. / Verità non prestarmi troppa attenzione. / Serietà sii magnanima con me. / Sopporta mistero dell’esistenza se tiro via fili dal tuo strascico. / Non accusarmi anima se ti possiedo di rado. / Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque. / Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna. / So che finché vivo io stessa mi sono d’ostacolo. / Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche, e poi fatico per farle sembrare leggere». Ci sono poche stelle e lune nella poesia di Szymborska, a maggior ragione questo chiedere scusa sotto una «piccola» commuove. Gabriella Valera Gruber |