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«M’insegnavate come l’uom s’etterna»
Non so se io abbia imparato bene o male la lezione insegnatami dal mio maestro, scandita dal famoso verso dantesco del quindicesimo canto dell’Inferno, e non so se faccia una buona scelta esordendo con lo stesso verso, poiché potrebbe certo sembrare troppo ricercato, retorico, indiretto, e troppo aderente a uno stile enfatico obbligato in circostanze solenni di commemorazione. Sono però persuasa che la citazione riesca a tratteggiare, in maniera schietta e al contempo sofisticata, ancorché metaforica, l’essenza di un autentico rapporto maestro-discepolo, che rispecchia la naturale disposizione a fare cose mirabili ovvero la magnificenza dell’operato del modello-guida. E mi convinco sempre più che quest’espressione spieghi il modo in cui Marian Papahagi ha eccellentemente esemplato l’insegnamento impartito agli altri. Nelle parole rivolte da Dante al suo maestro, Brunetto Latini, durante il loro drammatico e commovente incontro (Inf. XV) viene indicato, come ben si sa, il contenuto di ogni autentica educazione: il maestro è, o dovrebbe essere, colui che insegna come l’uomo si «etterna», ovvero come l’uomo possa trovare l’immortalità grazie alla fama acquisita dalle sue opere, come possa conseguire qualcosa di imperituro ed eterno, una parola questa, di certo, ardua, che interpreterei, nel presente contesto, piuttosto come qualcosa di duraturo, di costruttivo, qualcosa di positivo e proficuo alla cui ricerca e attualizzazione si mira con disciplina, costanza e concentrazione.
Perciò, la potenza straordinaria del verso dantesco, dilatata generosamente verso multiformi aperture interpretative, potrebbe rappresentare una sorta di motto della vita di Marian Papahagi nonché un prezioso lascito del suo magistero, perché dietro ogni sua azione, ogni sua parola si annidava tale autentico impegno di educare, di spronare allievi e studiosi a impegnarsi, a lasciare un segno, piccolo o grande, sulla terra, a dare, in fondo, un senso alla vita.
Ho avuto la fortuna di essere stata sua allieva e, per pochissimi anni, sua collega, ergo: di essere stata testimone del fantastico dispiegamento del suo talento e del suo ingegno creatore. Parlando di lui, del mio maestro, la prima immagine che sempre mi viene in mente è appunto quella dell’artifex, dell’artefice. È un’immagine da cui non si può prescindere, poiché Papahagi è stato l’ideatore e il creatore di un intero universo, suo e nostro, strictu sensu di italianistica e/o di romanistica e più latamente di cultura, un (ri)fondatore di scuola/e e d’istituzioni, autore di saggistica e critica letteraria, ricreatore di opere in traduzione, forgiatore di giovani menti più o meno pronte a far fronte alla valanga incandescente e magnetizzante di conoscenze, che faceva generosamente, e con un pizzico di divertita malizia, cadere loro addosso. E potrei ancora continuare a scandire i ritmi della complessa e riformatrice partitura da lui ideata ed attuata.
La seconda immagine che mi sorge spontaneamente nella memoria è quella di una persona estremamente elegante, ad litteram e metaforicamente - sono diventate proverbiali le sue raffinate camicie azzurre che certe volte rispecchiavano quel colore del cielo romano che considerava fosse unico e rappresentativo della città eterna. Era signorile nelle sue manifestazioni, ma, al contempo, il suo sguardo sempre vivace emanava un irresistibile spirito ludico e sprizzava una sorta di allegria contagiosa.
Marian Papahagi ha depositato il suo credo in una vita attiva, dispiegata in innumerevoli campi, spesso rivolto a raggiungere con ritmi frenetici, e insieme avvincenti, obiettivi e mete deputati a infondere, in maniera inconsciamente schietta, trasporto motivante nelle persone che gli stavano attorno.
L’insieme delle attività a cui si dedicava con una forza travolgente, definivano, in fondo, la sua personalità scientifica, squisitamente europea e per apertura mentale e per vocazione spirituale. Il suo cosmopolitismo gli derivava probabilmente anche da attributi per così dire naturali, personali: la disponibilità al dialogo, che nutriva la sua onnivora curiosità, il talento per le lingue, la vocazione al discorso critico, sono elementi importanti e definitori che, di certo, meriterebbero di essere affrontati partitamente per poter suggerire un’immagine complessiva della sua versatile ed eclettica attività, nel senso più autentico e genuino della parola, ma tale impresa richiederebbe un arco temporale che superasse ampiamente lo spazio concessomi in questa sede. Mi soffermerò, quindi, su brevi appunti utili a mettere a fuoco soprattutto la figura del critico e dello studioso e quella del traduttore, con un particolare sguardo al volume Intelectualitate și poezie e alla traduzione dell’Inferno dantesco. Sono questi degli aspetti a cui rimaneva comunque sottesa, in maniera costante e ineludibile, l’immagine del Professore, in primis di lingua e letteratura italiana, una professione mai compromessa dall’operosità per le sue molteplici competenze.
Il critico
La centralità della precoce formazione scientifica presso la Sapienza Università di Roma ha lasciato una forte impronta sulla sua preparazione, dal momento che il magistero di Aurelio Roncaglia, nell’ambito della Filologia romanza, ha insegnato al giovane studioso l’importanza metodologica dell’approccio ravvicinato al testo letterario medievale. Una lezione ben appresa e fatta propria, in seguito applicata, con ammirevole acribia, in numerosi studi critici, che non si sono di certo limitati, in ambito più generale, al solo Medioevo.
Era il metodo critico che doveva dunque, per il nostro, adeguarsi al testo, e non viceversa. Papahagi rifiutava di piegarsi a schemi o formule preesistenti, magari restrittive, e riconosceva come principio essenziale e imprescindibile l’ascolto del testo, il che non significava d’altronde trascurare la transtestualità o l’intertestualità, visto che un’opera letteraria non si costituisce in un universo autosufficiente, quasi fosse una monade ermeticamente chiusa in se stessa. Lo scrittore diventa il lettore di se stesso, e il lettore diventa scrittore. Certamente si circoscrive in questo modo una situazione privilegiata e, in tal senso, i suoi «esercizi di lettura» (ad esempio, Ungaretti) rinviano alla condizione stessa del discorso critico, che non è altro se non la trascrizione dell’esperienza personale, dunque intima, della lettura.
La condizione fondamentale che determina il rapporto tra filologia e critica è la loro componente ermeneutica. È lo stesso Papahagi, nella sua lectio magistralis con cui inaugurava l’anno accademico nel 1996, ad affermare che «il filologo è, in una prima approssimazione, quello scettico che, senza negare tale speranza, aspira non a investire senso, contribuendo alla perennità dell’opera e all’universalità di un messaggio prestigioso, bensì a ricollocare al loro posto i significati del testo originale, e […] in siffatta prima ipostasi, sembra opporsi al critico, il quale lavora innanzitutto con la speranza che ci sia in qualunque momento spazio per un’inedita ipotesi interpretativa. Questa vocazione per l’originario e per l’autentico costituisce l’essenza della filologia» [1](trad. ns.). Perciò la filologia, intesa non in senso meramente tecnico (così invisa a Benedetto Croce da essere da lui sprezzantemente additata come «critica degli scartafacci»), diventa essa stessa interpretazione ed esegesi testuale, che può dunque elevarsi al di sopra del coté puramente paleografico o codicologico, per accedere a una autentica, superiore, dimensione ermeneutico-critica.
L’unica monografia interamente dedicata alla letteratura italiana, Intelectualitate şi poezie [2], è dunque un lavoro di impianto essenzialmente filologico. Il volume, com’è noto, è incentrato sula letteratura del Duecento, senz’altro una delle grandi passioni di Marian Papahagi, una passione assecondata, come al solito, da un ragionamento intenso, acuto e persuasivo, dunque una realizzazione che si colloca quasi sotto una cifra ossimorica. Il critico dichiara la sua posizione «deliberatamente» personale, convinto che qualsiasi intervento critico implichi una componente personale, che non rappresenta ‘la spontaneità’ di una mera velleità, ma è l’espressione dell’inevitabile interferenza tra il soggetto dello studioso e l’oggetto investigato.
Possiamo osservare sin dall’inizio il tentativo dell’autore di impostare l’iter critico sulla tanto discussa problematica medievale dell’identificazione dell’aspetto individuale nonché di certi modelli di poeti ed intellettuali, che delineassero l’evoluzione portante verso l’acquisizione di una coscienza poetica. Dietro i due termini del titolo si celano, di fatto, le tappe di un discorso teso a racchiudere in sé le opere dei poeti duecenteschi, che spaziano dai tentativi di imitazione di una scuola formale, come’era quella siciliana, che si intrecciano sul piano temporale con una poesia perfettamente aderente allo spirito dell’epoca, la poesia religiosa, per filtrare in seguito le diverse ipostasi dell’amore sacro e profano, fino alla presenza, numericamente ridotta eppure vasta a livello ideologico, di una profonda intertestualità, di una specifica «resurrezione del reale».
L’approccio ermeneutico e quello filologico sono le uniche modalità idonee a ripristinare, in maniera convincente, l’esistenza di una pluralità di significati e la capacità creativa dei poeti. L’abilità del critico, la limpidezza delle idee, la propensione alla sintesi e la fluidità della presentazione, si snodano con naturalezza all’interno di un percorso erudito, in grado di districarsi e destreggiarsi con una strepitosa quanto naturale disinvoltura tra i nomi dei più insigni studiosi di medievistica. Se la poetica medievale prendeva spunto dal lato individuale per raggiungere quello universale, di exemplum tramite il filtro allegorico, il volume di Papahagi ricorre a una tecnica a rovescio, nel senso che mentre la prima parte è dedicata a delineare i reperti della poesia amorosa, l’interpenetrazione di un paradosso, solo apparente, tra misticismo e laicismo, e un’altra interferenza, non solo possibile, ma reale, tra filosofia e poesia, la seconda parte, incentrata sulle figure dei poeti, ha un forte carattere monografico. La critica medievale, afferma Papahagi, durante i secoli ha oscillato tra la visione negativista degli umanisti e quella positiva dei romantici, tra alterità e riduzione dunque. Perciò la missione del critico, di rintracciare una via di mezzo, che non si finalizza affatto in un compromesso, è tutt’altro che facile. Tuttavia tale barriera si rivela fittizia, poiché il carattere essenziale dei testi medievali, vale a dire l’intertestualità, racchiude in sé i concetti di unicum e multiplum, la struttura stessa dell’epoca attesta una certa ambiguità dei testi, il che equivale in fondo a riconoscere la possibilità che una serie di aspetti conservino la propria ambiguità.
Da questa succinta, veloce disamina, possiamo dunque desumere che la concezione di Papahagi sul lavoro critico si fondava sul complesso connubio tra una vocazione ermeneutica, speculativa e filosofica, provvista di competenze filologiche, e una certa vocazione artistico-letteraria, che permettesse un accesso più autenticamente empatico ai valori dell’opera [3].
Il traduttore
La sua missione di traduttore Marian Papahagi la esplicitò esordendo con testi della poesia contemporanea, verso cui sentiva un forte richiamo, e parliamo qui di trasposizioni da autori appartenenti alle letterature italiana, ispanoamericana, portoghese, brasiliana, per poi estendersi a saggi di critica, di estetica e a opere di narrativa. Possiamo notare fin da subito, dunque, un’apertura alla sincronia, letteraria e non solo, e alla diversità, forse in parte riferibile alle sue origini non romene.
Marian Papahagi, pur nella sua solarità e cartesiana limpidezza, si sentiva comunque attratto in massimo grado da tutto ciò che, in quanto difficile, complesso, talvolta incifrato, comporta un mettersi fieramente alla prova. Sicché anche le sue scelte di traduzione si istradano verso due autori accomunati per eccellenza da una essenzialità problematica: vale a dire Dante e Montale. Per la magnifica traduzione dall’opera in versi di quest’ultimo ottenne, nel 1997, il prestigioso Premio Internazionale “Diego Valeri” - Città di Monselice. Quanto al primo, la sua impresa si è purtroppo interrotta, per imperscrutabili ragioni divine, quasi al mezzo del percorso e non possiamo che rammaricarci del mancato completamento della traduzione della Commedia, in considerazione della qualità e della forza suggestiva della resa stilistica che incontriamo nei canti da lui tradotti.
Il mirabile intento di cimentarsi nella trasposizione in versi delle tre Cantiche dantesche, ben munito di tutto il relativo bagaglio esegetico-critico, più o meno recente, e forte delle traduzioni romene antecedenti (in particolare di George Coşbuc e di Eta Boeriu), deve probabilmente molto alla seduzione su di lui esercitata dalla critica ascrivibile alla cosiddetta Scuola storica, e specificatamente, forse, all’apprezzamento per i magnifici saggi lasciatici da un maestro del metodo qual è stato, nella critica dantesca, Michele Barbi. Anche se, è appena il caso di ricordarlo, la diuturna, ventennale frequentazione, amorevole e studiosa, della Commedia è di certo stato il motore primo di tale oltranza traduttiva.
L’ardua impresa compiuta dal traduttore-esegeta Papahagi si spiega tramite la necessità, sentita da ogni nuova generazione, di reinterpretare Dante in un modo altro, adeguato alle più recenti acquisizioni critiche. La sfida più alta, da parte del traduttore, s’identifica con la volontà di offrire una resa nella lingua d’arrivo che contenga - e lasci possibilmente intendere, seppure in filigrana - tutti i rinvii interni danteschi. Papahagi dichiarava il suo intento di lasciare il testo nella sua difficoltà, il che equivale in pratica a lanciare una sfida allo stesso lavoro di traduzione. In realtà, la versione romena andava evidentemente corredata da un vasto apparato critico e da un commento che offrissero al lettore la possibilità di avvicinarsi alla Commedia cogliendo, a partire dal microtesto, le molteplici valenze, per così dire implicite, oltre ai quattro livelli di senso presenti nelle pieghe del tessuto connettivo dei canti, per giungere a una lettura adeguata e compiuta del macrotesto. Tale commento era altresì destinato a fornire opportune indicazioni, utili a chiarire al lettore erudito talune scelte operate dal traduttore che aveva talvolta preferito allontanarsi dal dettato originale secondando opzioni legate a criteri di traduzione al livello del verso piuttosto che della terzina, allo scopo di conservarne la specifica densità semantica, ovvero in nome di motivi di ordine metrico (ad esempio, nel verso «O de li altri poeti onore e lume», Inf. I, 82, il concetto di “onore”, ancorché significativo e ricorrente in Dante, viene tralasciato, per evidenti ragioni metriche; ma il concetto verrà poi ripreso e spiegato nel successivo Canto IV in cui assume la posizione di parola-chiave).
Tale apparato critico progettato da Papahagi è stato, però, per fortuna, completato dalla giovane studiosa Mira Mocan, la quale ha curato, nel 2012, l’elegante edizione dell’Inferno, di alto rigore filologico, edizione accolta nella collana bilingue “Biblioteca italiana”, edita dalla prestigiosa casa editrice Humanitas. Da menzionare tanto la premessa incoraggiante scritta da Irina Papahagi che ci lascia spiare nel laboratorio del traduttore quanto l’eccellenza del lavoro della curatrice che rende quasi impercettibile la transizione.
Il lavoro di Papahagi mirava dunque, anche in ambito traduttivo, a seguire la stessa linea filologica che definiva il metodo di lavoro dei suoi scritti critici. Nell’intervista del ’97, già citata, Papahagi dichiarava di non credere nella disgiunzione tra le traduzioni belle infedeli e quelle brutte fedeli, credeva invece «nella possibilità di poter dare una traduzione esatta e bella», credeva nella traduzione filologicamente precisa, autentica, che rispecchi tanto lo spirito dantesco quanto la comprensione di Dante, e, non da ultimo, credeva in una trasposizione aderente allo spirito della lingua romena [4]. Ed è proprio questo l’esito del suo impegno: una traduzione esatta e bella, in cui il testo romeno riecheggia la complessità di quello italiano e diventa in questo modo anche la testimonianza delle complesse modalità creatrici adoperate dal poeta fiorentino.
Per illustrare quanto è stato asserito, propongo alcuni esempi prelevati dal Canto XIII dell’Inferno. Come ben sappiamo, Dante crea un linguaggio che rifletta i contorti stilemi retorici che caratterizzavano il personaggio storico Pier della Vigna, così, ad esempio, nei versi 70-72, in cui si ragiona con magistrale tortuosità sul suicidio, Papahagi conserva l’eco degli artifici, il contorsionismo della sintassi, in perfetta sintonia con la tragica e innaturale trasformazione esteriore e interiore dell’illustre consigliere di Federico II che «ingiusto fece me contra me giusto» (v. 72), trasposto così in romeno: «nedrept în contra-mi, drept făcu-mă iară» [5]. Mi sembra altrettanto suggestiva la conservazione della tecnica di costruzione del verso partendo dalle parole in rima per la cui esemplificazione ricorro ai lemmi in rima rinfreschi / m’adeschi / m’inveschi (vv. 53-55-57), che diventano in romeno sporesc / m’ademenesc / zăbovesc [6], dove riesce a mantenere la stessa similitudine sonora del gruppo consonantico -esc. E un ultimo esempio dello stesso canto, verso 25: «Cred’io ch’ei credette ch’io credesse / Eu cred că el crezuse că crezusem» [7], in cui il traduttore serba sia l’intricato artificio che la forte simbologia fonica del verbo della supposizione, quindi rende mirabilmente il momento di smarrimento e di stupore di Dante personaggio.
Concludo così, con la riaffermazione del primato dei valori, dell’etica e della deontologia professionale rispetto alla prassi quotidiana, queste nostre annotazioni, impressionistiche sì, ma fedeli nella memoria allo studioso e al maestro impareggiabile, all’uomo dal multiforme ingegno, che rimane, per me e per noi, Marian Papahagi.
Monica Fekete
(n. 10, ottobre 2019, anno IX)
NOTE
1. Marian Papahagi, Câteva reflecții despre filologie și critică, in Idem, Rațiuni de a fi, Atlas, Bucuresți, 1999, pp. 15-25: 17-18: «Filologul este, într-o primă aproximare, acel sceptic care, fără să nege această speranţă, aspiră nu să investească sens, contribuind la perenitatea operei şi universalitatea unui mesaj prestigios, ci să reaşeze la locul ce le revine semnificaţiile originarului, şi […] în această primă ipostază pare a se opune criticului, care lucrează mai ales cu speranţa că există oricând spaţiu pentru o ipoteză interpretativă nemaiauzită. Această vocaţie a originarului şi autenticului e esenţială pentru filologie».
2. Idem, Intelectualitate şi poezie. Studii despre lirica din Duecento, Cartea Românească, Bucureşti, 1985.
3. Cfr. Prin rațiune, prin muncă intelectuală izbutim să punem stavilă haosului, Intervista del 1997 fatta da Dora Pavel, in Marian Papahagi, Raţiuni..., cit., pp. 102-144:113.
4. Ivi, p. 112.
5. Dante Alighieri, Divina Commedia. Inferno / Divina Comedie. Infernul, Traducere din italiană și comentarii de Marian Papahagi, cu o Prefață de Irina Papahagi. Ediție îngrijită, introducere și completarea comentariilor de Mira Mocan, Humanitas, București 2012, p. 149.
6. Ivi, p. 147.
7. Ivi, p. 145.
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