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La «Casamatta» di Tudor Ganea, esordio vincente di affabulazione e suspense
Tudor Ganea (classe 1983), di professione architetto, fa il suo sorprendente debutto come scrittore (con alle spalle un corso di scrittura creativa sotto la guida di Florin Iaru e Marius Chivu, da cui sono usciti altri/e scrittori/scrittrici esordienti) con il romanzo Cazemata (Polirom, Bucarest 2016, pp. 207) centrando in pieno l’obiettivo e confezionando una storia che combina la suspense con il mistero, il fiabesco con la realtà, l’affabulatorio con le tinte poetiche, il romanzo giallo con il realismo magico: insomma, una congerie di direzioni e piste narrative che ingarbugliano a un certo punto forse un po’ la matassa da epopea «pontica» (l’azione si svolge sulle coste del Mar Nero) ma che nonostante tutto, o proprio per questo, riescono a sedurre decisamente il lettore per come l’autore sa disporle, miscelarle, piegarle al suo intuito di narratore, puntando e venendo sostenuto anche su e da una scrittura dinamica, cangiante, a volte lineare, altre volte esuberante, multi-espressiva (mirabile in questo senso la resa dei dialoghi nella stretta parlata di Constanța).
Fulcro magico e maledetto attorno cui ruota la narrazione è una casamatta dismessa, un vecchio fortino tedesco, residuo bellico, in un quartiere di pescatori della città di Ovidio (città natale dell’autore, fra l’altro) al cui interno o nei cui paraggi avvengono fatti inspiegabili: il ritrovamento del corpo senza vita di un giovane con tagli su tutto il corpo, dei muratori scomparsi improvvisamente senza lasciare traccia mentre lavoravano per conto di una ditta di costruzioni per erigere proprio sopra la casamatta un condominio di lusso, una voce udibile fin dentro le case che emerge attraverso le tubature dall’intrico di canali sotterranei della casamatta; fenomeni inquietanti, come giganteschi disegni tracciati per terra con il gessetto colorato o sulle pareti dei condomini, non si sa come, dai bambini del quartiere, e altro ancora. In tutto ciò l’autore innesta, amplificandola, la storia (quasi una storia nella storia) dei portentosi poteri di un bocchino d’argento che, se suonato a mo’ di zufolo, scatena nelle donne un irrefrenabile appetito sessuale, storia accennata nella prima parte del romanzo e che nella terza viene sviluppata e ammantata di leggenda. Questo bocchino d’argento racchiude, oltre ai suoi prodigi sessuali, anche una maledizione, che dopo essersi abbattuta sul padre – il mirabile gingillo era passato di padre in figlio fin dal trisavolo di origini turche – colpirà ferocemente anche il figlio, il pappone Coco, al quale, come successe al padre, saranno strappate a morsi le labbra dalla bocca (da chi e perché lo lascio scoprire ai lettori). Grazie al bocchino magico, il padre di Coco aveva potuto arricchirsi con le prostitute «attizzate» alla bisogna sotto l’effetto del diabolico oggetto, andando di porto in porto e portandosi appresso una sorta di postribolo ambulante. Ebbene, c’è un legame detonante – e sotterraneo – tra questa ancestrale maledizione del bocchino d’argento e l’atmosfera di mistero alleggiante attorno alla casamatta, i cui tentacoli si dipartono dal passato per avviluppare, risucchiandole e deformandole, la realtà e la vita quotidiana del quartiere, in un crescendo che ricorda certe atmosfere che si respirano nella narrativa fantastica di Mircea Eliade. A indagare su questi enigmatici fenomeni viene inviato sul posto, sotto copertura, l’ispettore Radu Adamescu, il quale verrà irrimediabilmente inghiottito dallo scenario di enigmi di cui sarà testimone – e che lo farà passare quasi per visionario agli occhi dei suoi scettici superiori –, in episodi quasi allucinatori, provocati (l’autore sembra suggerircelo, ma il sospetto aggiunge ulteriore fascino alla narrazione) da un tumore al cervello a stadio avanzato che starebbe già intaccando alcuni sensi.
Mauro Barindi
Frammenti da Cazemata
Dopo aver oltrepassato le rotaie del tram che svoltavano a curva, l’ispettore scoprì sull’asfalto altri due fiori di ninfea: uno tratteggiato con gessetto rosso, l’altro con i petali riempiti con resti di calcestruzzo. Tirò energicamente su dal naso e volle sputare per liberare una narice tappata. Faceva sempre più fatica a respirare. Non riuscì a espettorare niente, sicché continuò per la sua strada diretto verso la scala del condominio. Prima di entrarci, scorse altri due, tre fiori con i loro petali di gesso dischiusi sull’asfalto di fronte alla casamatta. Sui muri dei posti-macchina a sinistra del condominio, alcuni bambini stavano disegnando i denti aguzzi e le code inarcate di certi quadrupedi dal pelo multicolore. I cani stilizzati coprivano le lastre di eternit in un caotico miscuglio composto da orecchie aguzze, unghie, musi e occhi umani, di grandezza sproporzionata. Chiuse la porta metallica di vetro armato, salì le scale e infilò la chiave nella toppa della porta. Prima di entrare nell’appartamento, la suoneria del cellulare lo avvisò che aveva ricevuto un messaggio. Con una mano sulla maniglia, tirò fuori con l’altra il cellulare dalla tasca dei pantaloni e lesse l’sms: «Buongiorno. Le ricordiamo che domani, 09.09.2015, alle ore 19.00, ha un appuntamento fissato per la lettura del risultato delle analisi presso l’ambulatorio del dott. Ion Petru. La ringraziamo, Clinica Ultralife».
***
– Avanti il prossimo!
Dalla porta socchiusa, l’ispettore vide un attaccapanni su cui era appeso un camice bianco. Da una delle tasche del camice fuoriuscivano i tentacoli di uno stetoscopio. Il ragazzo seduto accanto a lui si alzò ed entrò nell’ambulatorio, passando di fianco all’anziano signore che era appena uscito. Coloro che lo avevano accompagnato lì, un uomo e una donna oltre la cinquantina, rimasero seduti.
– Digli anche di quel dolore al fianco destro, gli sussurrò la donna. Il ragazzo le fece cenno con la mano di fare silenzio.
Subito dopo che il ragazzo aveva chiuso la porta dietro di sé, la donna estrasse da una tasca della giacca un libricino sottile, lo aprì posandolo sulle ginocchia e si mise a leggerlo sottovoce. L’ispettore drizzò gli orecchi per ascoltare, ma riuscì appena a distinguere una frase, l’unica a essere udibile chiaramente e su cui la donna ritornava ripetutamente, rallentandone la foga verbale e pronunciandola lentamente: «Salva il tuo servitore Robert». Poi la sua voce si spegneva, scivolando su una sfilza di parole confuse, lette velocemente e annegate in mezzo ai bisbigli. L’uomo accanto a lei aveva la barba bianca, lunga di alcuni giorni. La teneva con una mano appoggiata sulle spalle e stava guardando un programma che dava la tv posta su un sostegno in alto, nell’angolo della stanza. Il programma mostrava alcuni container messi all’asta. Un gruppo di persone gridava offerte per accaparrarsi il contenuto di uno dei container zeppo di scatoloni sigillati.
Dall’altra parte della stanza, una vecchia, da sola, con il fazzoletto in testa, fissava il vaso in cui era piantato il ficus di plastica lì vicino a lei. Per via delle diottrie, parecchie, l’ispettore riusciva a vedere i suoi occhi enormi, quasi fossero disegnati direttamente sulle lenti.
I termosifoni erano al massimo e il calore accumulatosi all’interno gli aveva seccato la gola. La donna respirava con la bocca aperta, e i suoi rantolii si interrompevano solo quando deglutiva. Poi ricominciavano, ritmati all’inspirare e all’espirare. L’ispettore Adamescu si alzò dalla sedia imbottita punzonata di borchie per dirigersi verso il distributore d’acqua posto accanto al ficus. Quando passò davanti alla vecchia, sentì odore di naftalina e di unguento cinese al mentolo. Da sotto le maniche della vestaglia indossata sopra un giubbottino impermeabile sbucavano delle mani dalla pelle raggrinzita e piene di chiazze marroni. Teneva i palmi rivolti all’ingiù, appoggiati ciascuno su un ginocchio. A guastare quella perfetta simmetria della sua postura era la testa rivolta verso il ficus: le punte perfettamente allineate delle scarpette di tela imbrattate di fango rinsecchito, le ginocchia incollate tra loro e con le dita delle mani che riposavano simmetriche sulle rotule, le spalle reclinate in avanti a formare uno stesso angolo.
Perfino le grandi vene sul dorso delle mani sembravano rispecchiarsi le une nelle altre.
Quando arrivò davanti al distributore d’acqua, si piegò sulle ginocchia ed estrasse un bicchiere di plastica dal tubo laterale. Per tutto il tempo che tenne premuta l’estremità del bicchiere contro il beccuccio dell’acqua fredda, osservò i suoi occhi resi sproporzionati dalle lenti. La vecchia sbatteva le palpebre solo quando nella stanza si sentiva il nome sussurrato dalla donna che leggeva il libricino. Per il resto del tempo, le sue pupille verdi, colpite da cateratta, guardavano fisse il vaso della pianta. Si sentì bruciare il pollice e l’indice e lasciò cadere il bicchiere. Alcune gocce schizzarono anche sulle mani della vecchia, che però rimase impassibile.
– Che le è successo? domandò l’assistente sporgendosi dalla scrivania posta sotto il televisore.
– Mi sono scottato, rispose l’ispettore. Esce acqua bollente dal beccuccio dell’acqua fredda.
– Oh, mamma mia! esclamò l’assistente, che nel frattempo si era alzata dalla scrivania per andargli vicino.
Prese anche lei un bicchiere e con l’orlo premette il beccuccio di colore azzurro. Dopo aver riempito il bicchiere fino alla metà, immerse un dito nell’acqua e lo tirò subito fuori:
– Ha ragione. Eppure funzionava fino a poco fa. Ho bevuto anch’io. Dovrò avvertire la ditta …, disse, poi aprì una porta su cui era scritto «Toilette clienti» e si sentì lo scroscio dell’acqua gettata nella tazza del water.
Dopo che l’assistente aveva chiuso la porta della toilette e informato per telefono la ditta che forniva l’acqua del guasto al distributore, l’ispettore ritornò al suo posto e approfittò della scarsa attenzione della donna seduta accanto a lui per gettare di nascosto uno sguardo al libricino, su cui riuscì a leggere solo un paragrafo: «Sposa di Dio, con Lei il tuo servitore (nome) riceve dal nostro Signore grandissima misericordia». La parola «nome» e le parentesi tra le quali compariva erano stampate in grassetto che si ripetevano così evidenziate da un punto all’altro su entrambe le pagine. Girò lo sguardo verso il televisore quando la donna accanto a lui riprese i suoi bisbigli. Un americano con in testa un berrettino girato al contrario aveva vinto l’asta e ora stava fendendo con un taglierino il nastro adesivo con cui erano stati sigillati gli scatoloni. L’uomo aveva ritratto il braccio dalle spalle della donna e guardava concentrato come l’americano frugava negli scatoloni. Nel momento in cui la porta dell’ambulatorio si aprì e il ragazzo comparve sulla soglia, l’americano stava tirando fuori qualcosa da uno scatolone, sparpagliando intorno mucchi di polistirolo sotto forma di trucioli. La donna di colpo si alzò in piedi e si diresse verso il ragazzo che aveva lasciato dietro di sé la porta socchiusa. In mano teneva una grande busta, da cui fuoriuscivano gli angoli di una radiografia. Gli prese le mani fra le sue e gli domandò con voce tremante:
– Come è andata, figlio mio?
– Tutto bene, disse il ragazzo sorridendo, nessuna ricaduta.
La donna si mise a piangere e il ragazzo la strinse fra le braccia. Anche l’uomo con la barba incolta si era alzato in piedi e lo guardava contento. Il ragazzo gli tese un braccio, facendogli segno di avvicinarsi, e tutti e tre si unirono in un abbraccio da cui si sciolsero quando la voce alle loro spalle gridò:
– Avanti il prossimo!
I tre si scostarono subito di lato, obbedienti, quasi spingendosi fuori dalla traiettoria dell’ispettore che entrò nella stanza, chiuse la porta dietro di sé e rimase in piedi.
– Prego, si sieda! gli disse il dottore da dietro la scrivania senza neppure guardarlo. Annotò qualcosa in un grosso registro, dalle copertine in cartone.
L’ispettore si avvicinò e si sedette sulla comoda sedia davanti alla scrivania. Gli sembrò di sprofondare sempre più giù sul soffice cuscino che si sgonfiò rumorosamente sotto il suo peso. Dopo aver terminato di scrivere, il dottore chiuse il registro, si lisciò il mento e lo guardò serio da sopra gli occhiali.
– La cosa va maluccio, signor Adamescu. È aumentato.
L’ispettore lo guardò negli occhi senza rispondere. Il cuscino della sedia sotto il suo sedere stava ancora espellendo dell’aria ai lati.
– Ci vede doppio qualche volta? gli domandò il dottore senza batter ciglio. Mi ha sentito? Le ho chiesto se vede mai doppio, ripeté vedendo che non riceveva risposta, guardandolo con attenzione.
– No. Non mi è mai capitato.
– Emicranie, fischi agli orecchi, cefalee, vertigini, disturbi nel parlare… niente?
– Niente, dottore. Solo… una certa pressione al naso.
– Al naso? Non c’entra niente il naso con quello che ha lei… Va maluccio, ripeté il dottore e si alzò in piedi.
Prese dal tavolo una radiografia e, tenendola in mano, si diresse verso il negativoscopio appeso sopra il lettino. Lo accese e infilò una lastra sotto il margine superiore. D’un tratto dall’immagine comparvero per contrasto le forme degli organi.
– Vede quanto è cresciuto? gli indicò il dottore facendo un cerchio con il dito su una zona della radiografia. Si è esteso anche al lobo di destra. Si è incuneato in profondità, ha quasi raggiunto il talamo.
L’ispettore guardava in silenzio i gesti circolari del dito del dottore. Guardò la zona sulla radiografia, che gli ricordava la forma dei trucioli in polistirolo del container dell’americano. Dalla finestra socchiusa era entrato un moscone, ronzava e sbatteva continuamente contro i vetri. Il dottore interruppe la spiegazione e seguì con lo sguardo l’insetto finché si andò a posare sull’infisso bianco in PVC. Si fece silenzio. Il dottore si avvicinò lentamente alla finestra. Si fermò vicino al davanzale e protese una mano col palmo a conca, seguendo i movimenti del moscone mentre si spostava a zig-zag sul vetro pulito. Poi si sentì una botta. Il vetro tremò. Il moscone gli era sfuggito e volava di nuovo nell’ambulatorio.
– Al diavolo! disse il dottore e spalancò la finestra. Magari così uscirà! disse poi, cercando con gli occhi l’insetto il cui ronzio non si sentiva più ma che non si riusciva a vedere da nessuna parte. L’ambulatorio si riempì di una folata di aria fredda.
Ritornò vicino al negativoscopio, lo spense, tolse la radiografia e la infilò in una busta. Si sedette di nuovo alla scrivania ed estrasse da un cassetto una penna, con la quale incominciò a scrivere qualcosa su un post-it. L’ispettore Adamescu osservò le impronte di grasso lasciate dalla mano del dottore sul vetro della finestra, da cui il condominio di fronte si vedeva appena. Il moscone era atterrato proprio lì e se ne stava immobile.
– Ecco! disse il dottore e gli porse il post-it su cui aveva scritto un nome e un numero di telefono. È il numero del professor Davidescu di Bucarest. Mandò giù la saliva e dopo una breve pausa continuò dicendo, accentuando le parole: È il suo numero personale, e si appoggiò con la schiena alla spalliera della sedia.
Si tolse gli occhiali, li posò sulla scrivania e cominciò a sfregarsi gli occhi con le nocche delle mani.
– Deve fare una paracentesi. Davidescu è il number one. Taglia e poi via, se ne va ai congressi… A quello se gli infili un ago nel culo non gli esce sangue: gli esce medicina. Quando gli telefonerà, gli dica che sono stato io a dargli il suo numero. Se fa il prezioso, ce n’è un altro… all’ospedale del Ministero degli Interni. Un certo Gheorghe. Anche quello è bravo. Dato che lei è uno di loro, non dovrà stare in lista d’attesa. Fece un pausa per alitare sopra le lenti degli occhiali e ricominciò a parlare mentre le strofinava con un angolo del camice: Quello che ha lì doveva essere tolto da tempo! Preghi che non sia maligno… perché, purtroppo, il tumore in pratica non è operabile. D’accordo? disse tonico il dottore, poi si rimise gli occhiali e si alzò in piedi.
Si alzò anche l’ispettore Adamescu, annuì e si diresse verso la porta. Proprio nel momento in cui la apriva per andarsene, sentì la voce del dottore:
– E mi raccomando, quando gli telefonerà, faccia in modo che sia prima delle otto. Deve riposare anche lui con tutti ‘sti interventi… E se non dovesse risponderle al primo colpo, non lo stressi. Va bene?
L’ispettore annuì di nuovo in segno di aver capito e chiuse la porta dietro di sé. Prima di raggiungere la sedia dove aveva lasciato il giaccone, il dottore aprì la porta e gridò:
– Avanti il prossimo!
– Non c’è più nessuno, dottore, gli disse l’assistente. Abbiamo finito con quelli di oggi.
– Bene, disse il dottore e alzò lo sguardo verso lo schermo del televisore. Il container era pieno di scatoloni ora aperti e capovolti. Tra gli scatoloni, una marea di trucioli di polistirolo. Al centro, l’americano boccheggiava sfinito tenendo in mano una taglierina. A un certo punto si tolse il cappellino e, facendo la faccia schifata, lo gettò per terra in mezzo a tutto quel polistirolo. Mi prepara un tè prima che me ne vado? domandò il dottore con gli occhi fissi sullo schermo.
– E con che cosa, dottore? L’apparecchio dell’acqua è guasto.
– Come che è guasto?
– Guardi. Ho telefonato già a quelli della ditta. Possono venire solo lunedì, dicono… È stato fortunato il signore qui, disse la donna e indicò con un cenno della testa l’ispettore che si stava chiudendo il giaccone, è stato lui ad accorgersi che era rotto. Vero?
– Come dice, scusi? domandò l’ispettore già sul punto di andarsene.
– Usciva solo acqua bollente, ma dopo che il signore è entrato da lei in ambulatorio, ci ho provato io e ora esce solo acqua gelida come il ghiaccio.
– Penso che un po’ d’acqua sia schizzata anche sulla signora che era seduta vicino al ficus di plastica, disse l’ispettore mentre si dirigeva verso l’uscita.
– Quale signora? domandò confusa l’assistente.
– La signora che stava vicino al distributore, vicino al ficus… la signora anziana, le disse l’ispettore con la mano già sulla maniglia della porta.
La donna dietro alla scrivania girò la testa verso il dottore e alzò perplessa le spalle. L’ispettore chiuse la porta dietro di sé senza dire neanche buona sera.
– Se n’è andato via prima qualche cliente? domandò il dottore una volta che erano rimasti da soli.
– No, dottore. Oggi si sono presentati solo il signore che è appena uscito, la famiglia Ionescu col figlio Robert e il suo vicino di casa, che è entrato per primo. E basta. E tutti e cinque erano seduti lì davanti. Lo sa no che tutti si siedono lì per vedere la tv. Nessuno vicino al ficus. Non so a chi si riferisse il signore… Non preferisce un caffè?
– Che cavolo è quella pozza sotto il vaso? disse il dottore interrompendola e si avvicinò al ficus. Guardi un po’, Cristina, filtra da sotto dell’acqua sporca. Quando ha cambiato la pianta?
– Non ho cambiato nessuna pianta, dottore! Disse l’assistente, che nel frattempo si era spostata anche lei vicino al vaso e con un'unghia punzecchiò una foglia, da cui incominciò uscire del liquido.
(cura e traduzione di Mauro Barindi)
(aprile 2017, anno VII)
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