«Crimă la Torino», il giallo di Stelian Ţurlea ambientato al Salone del libro

Si potrebbe parafrasare il titolo dell’agile e stuzzicante giallo Crimă la Torino (Crime Scene Press, Bucarest 2014, pp. 128) di Stelian Țurlea (1946) con «Storia di una vendetta» in cui fa capolino anche una banda di mafiosi romeni, tanto per restare in tema di vendetta…. Siamo a Torino, al termine dell’edizione del 2013 del Salone del libro. Un noto milionario, romeno di nascita ma da tempo cittadino italiano, conosciuto come «il Nababbo», bandisce un concorso letterario molto particolare, con un premio per il vincitore ammontante alla stupefacente cifra di centomila euro, che consiste nello scrivere in dieci giorni un romanzo giallo di duecentomila caratteri dal titolo Assassinio a Torino. I tre candidati (l’aitante George Vișinescu, la trafficona Laura Mogan, il veterano Nicodim Robotan) che alla fine accettano la sfida sono ospitati in una villetta di una lussuosa zona residenziale fuori Torino dove dovranno scrivere il libro isolati dal mondo ma con tutti i confort possibili. A loro è consegnata anche un’abbondante documentazione, quella relativa a un fatto di cronaca nera, reale, il canovaccio su cui devono imbastire la loro storia poliziesca: il rapimento e l’uccisione di una giovane romena, Maria Grapponi, di origini italiane, accaduto sette anni prima, un caso rimasto avvolto nel mistero e archiviato dalla polizia dopo infruttuose indagini. Nella trama viene introdotto anche il commissario Giovanni Nolte, ora in pensione, il quale aveva seguito la vicenda senza successo; pregato dallo stesso Nababbo, dietro lauto compenso, starà a disposizione dei tre scrittori per assisterli in qualche modo, rispondendo a loro dubbi e domande circa quel fatto le cui indagini, chissà, potrebbero anche essere riaperte, e la cui definitiva e tardiva soluzione riscatterebbe la sua reputazione. Fra colpi di scena (il vecchio Nicodim Robotan muore all’improvviso) e intrighi (Laura Mogan ruba dal portatile di George Vișinescu un romanzo già scritto con cui vincerà il concorso), fra gelosie e misteri, fra digressioni nel tempo e nella realtà odierna, fra piani fittizi e reali esterni e interni alla vicenda – infatti, come anticipato all’inizio, nella trama s’incunea anche la cronaca recente relativa al caso di una piccola cosca mafiosa tutta romena sgominata a Torino dalla polizia nel 2013, che viene agganciata alla dimensione immaginaria della storia sotto forma di una vecchia vendetta familiare mai sopita risalente all’ultima guerra – Stelian Țurlea in questa sorta di giallo nel giallo tratteggia con ironia e vivacità di linguaggio i comportamenti e le psicologie dei protagonisti e le situazioni ora cariche di tensione, ora di mistero, confezionando una storia che corre sul filo del rasoio di un intreccio che gioca più sull’interazione dei personaggi e sulle loro contraddizioni umane e caratteriali che sul «classico» cadavere ancora caldo di un morto assassinato. Non sveliamo altro e lasciamo quindi ai lettori il piacere di scoprire il resto della storia di cui siamo certi non resteranno delusi



Frammento da «Crimă la Torino»


4.
L’intero viaggio era esordito sotto il segno delle peripezie. Già l’arrivo a Torino non era stato dei migliori e come se non bastasse persi cinque ore ad aspettare Eloisa. Non aveva ceduto all’idea di non venire con me, aveva pensato di farmi una sorpresa, ma sarebbe stato troppo svegliarmi lì con lei accanto, a mia insaputa, sicché alla fine mi disse che sarebbe arrivata anche lei, e le mie perplessità non espresse trovarono risposta prima ancora che io potessi aprire bocca,
non sono mai stata in vita mia al Salone del libro, voglio vedere com’è!
non sono mai stata in vita mia a Torino, ho sentito dire che è una città stupenda!
finora ho partecipato a tutti i tuoi successi, ora non mi vorrai mica rifiutare questo con la traduzione!
Avrai pur bisogno di qualcuno che ti faccia le foto per il tuo archivio personale!
e forse ti servirà anche una segretaria!
non mi puoi impedire di venire!
Dopo cotanta filippica, mi rassegnai ma di colpo mi inventai di dirle che sarebbe piovuto in continuazione,
Doina Ruști mi ha detto che a Torino piove sempre quando si tiene il Salone del libro, nei tre anni che ci è andata le è successa sempre la stessa cosa, e poi ho controllato AccuWeather,
non m’importa, io voglio venire lo stesso.
Punto e a capo.
Ovviamente non trovò più biglietti negli stessi aerei per Torino via Roma, sicché l’attesi in aeroporto fin dopo mezzanotte e quando arrivò, mi si gettò al collo baciandomi come una scolaretta, senza che io riuscissi a dire qualcosa. Per fortuna a quell’ora la sala d’attesa era quasi deserta, c’erano solo alcune guide annoiate e mezzo addormentate che non avevano tempo di stare a guardarci, aspettavano un gruppo di spagnoli atterrati anche loro per il Salone con lo stesso aereo. Fortuna che all’albergo non ci sarebbero stati problemi, se si dimostrava di essere sposati, avrei pagato solo il posto letto in più.
Dormimmo come due ghiri e quando la mattina ci svegliammo, facemmo l’amore: mi resi conto che non era poi stata una brutta idea il suo arrivo. Ne ero contento in qualche modo. Ma mi sembrava così strano che fosse arrivata quando da lì a quattro, cinque giorni, a Salone concluso, se ne sarebbe dovuta andare con me chiuso in ritiro… Non pensavo di perdere delle ore accompagnandola all’aeroporto, detestavo separarmi da lei, era anche questo il motivo per il quale mi opponevo a che lei venisse a Torino, ho sempre odiato le separazioni. Mi spezzavano il cuore.
Mi inflisse però un colpo mortale raccontandomi dei suoi ultimi incontri con Laura Morgan, feci un gesto con la mano, non mi interessava. In effetti, ero sotto l’effetto delle emozioni in vista del lancio del libro e Laura Morgan mi faceva lo stesso effetto irritante che se mi avessero infilato nel deretano un ferro arroventato o versato del peperoncino negli occhi. Per fortuna che Eloisa non era rancorosa, colse subito il punto e mi si aggrappò al braccio come solo lei sapeva fare lungo i chilometri del Salone fino allo stand romeno dove, con mia enorme sorpresa, era accorso un po’ di pubblico non composto solamente da romeni immigrati in Italia, questi caso mai erano al lavoro e non avevano tempo per i libri. Tra un dibattito e l’altro e un paio di interviste, passeggiammo per le sorprendenti vie della città, ci riparammo dalla pioggia del primo giorno gironzolando sotto i suoi chilometrici portici, non so se esista un’altra città che ne abbia così tanti. Doina Ruști si sbagliava. Torino non è la città delle piogge interminabili, ci furono anche giornate di sole ed Eloisa e io camminammo fino allo sfinimento, ci facevano male i piedi, ma non riuscimmo a vedere la famosa Sacra Sindome, era ancora in restauro, e non avevamo voglia di andare al Museo del Cinema né di visitare nessun altro museo. Camminando senza meta sperimentai il senso di estraneità che ci tenevo a trasmettere a tutti coloro che sarebbero giunti in questa città, avvisandoli di non tentare di pranzare dopo le quattro o le cinque del pomeriggio perché tutto, assolutamente tutto era chiuso fino a sera, ti dovevi considerare estremamente fortunato se riuscivi a trovare qualche bar dove prendere una birra, attorno alla zona superturistica del lungo Po.
Non so come trascorsero i giorni. La sera prima della chiusura del Salone, Eloisa mi disse inaspettatamente che non avrebbe fatto ritorno a Bucarest,
come sarebbe a dire che non ritorni a Bucarest? quasi convinto che non si fosse espressa bene,
rimango qua, disse,
ma io devo lasciare l’albergo, è pagato solo fino a domani, io andrò in non so quale villetta,
non fa niente, rimango e pagherò io, ho i soldi,
non si tratta dei soldi,
allora tanto meglio,
ma io sarò isolato, avrò da fare, non avrò tempo da dedicarti,
non ti devi preoccupare, andrò a passeggio, penserò a te, incrocerò le dita per te, parleremo per telefono, mica ti sistemeranno in una caverna.
E qual è il motivo per il quale vuoi restare? feci io in un estremo tentativo,
voglio essere qui quando vincerai,
non è sicuro che sarò io a vincere,
io ne sono sicura invece!
E con questo finimmo la discussione, fa una faccia tutta sua quando vuole mettere fine a una discussione, qualsiasi cosa uno si possa ingegnare, non caverebbe un ragno dal buco, lei si sarebbe limitata a ripetere quello che aveva appena detto. La conoscevo.
Non aveva più senso spaccare il capello in quattro. La abbracciai, con la mente altrove, facemmo l’amore, ci addormentammo, facemmo l’amore un’altra volta all’alba, mentre mi sussurrava “campione, campione” e poi uscimmo dall’albergo davanti al quale ci aspettava un pullmino bianco a sei posti.
Laura Mogan e Nicodim Robotan erano già seduti dentro.

5.

Non so che strada facemmo, non badai né agli incroci, né ai nomi delle vie; l’autista era un tipo taciturno e baffuto, non ci dava alcuna indicazione, sebbene Laura gli avesse chiesto lumi in un paio di occasioni,
vedrete, vedrete, diceva
e poi si chiuse nel suo mutismo.
Di sicuro era stato istruito a comportarsi così. Dopo circa venti minuti giungemmo in una zona residenziale, tutta di villette, le intravvedevo in mezzo ai cipressi, varcammo alti cancelli di ferro, ci addentrammo percorrendo un vialetto di ghiaia, delimitato da cespugli di rose rosse e ci fermammo davanti a una lunga scalinata. Era come stare in un film. Come da film era anche la casa, una villetta a un piano probabilmente composta da dieci stanze o più, tutte con delle enormi finestre, con imposte di legno verniciate in azzurro e spalancate, un lusso austero. Una zona abitata da ricconi con governanti dell’Est europeo e autisti di colore vestiti con uniformi colorate e berretti con ricami dorati, le uniche persone che si potevano scorgere su quelle stradine deserte, spruzzate d’acqua da autocisterne dell’amministrazione locale, probabilmente ogni giorno, affinché non si posasse neanche un granello di polvere che altrimenti il vento avrebbe potuto sollevare facendolo posare sui giardini e sui terrazzi nascosti dietro cortine di cipressi e oleandri.
Fummo accolti in un salotto sofisticato da due rappresentati degli organizzatori, una ragazza dai capelli ramati e dal naso antico, armata con un tablet grande quanto un bloc-notes, e una signora di una certa età, dal naso all’insù, lentigginosa, con le braccia paffute che facevano tintinnare chilogrammi di braccialetti argentati uno sopra l’altro, tanti quanti erano probabilmente i suoi anni, con indosso un vestito di un rosso sangue che lasciò a bocca aperta perfino Laura. Sorridevano entrambe, indipendentemente da quello che noi gli domandavamo, e parevano decise a venire incontro a tutti i nostri capricci fin tanto che non avessimo superato il limite della decenza.
Erano le emissarie che ci illustravano finalmente di che cosa si trattava. Ognuno di noi doveva scrivere un romanzo giallo di almeno duecentomila caratteri, spazi inclusi, seguendo uno stile a nostra scelta. Né più né meno. Il titolo doveva però essere lo stesso – Assassinio a Torino. E così l’argomento: un assassinio commesso a Torino qualche anno prima.
A ognuno di noi fu consegnata una cartella ricolma di informazioni: un breve riassunto dei fatti narrati, ritagli di giornali e riviste, trascrizioni di dibattiti televisivi e un cd nel quale erano registrati tutti i dati forniti in cartaceo, qualora avessimo preferito leggerli sul laptop.
Una giovane romena era stata rapita, ricercata in tutto il paese per settimane, e trovata morta in Val Padana, lontano dalla città. Ancora oggi, a distanza di più di sette anni, non era ancora stato chiarito il mistero della sua morte. Furono arrestati i pastori che avevano trovato il cadavere, poi rimessi in libertà; il suo fidanzato, un cantante rock che sfidava il mondo intero con le sue lunghe chiome e la motocicletta dipinta a fiori gialli, ma c’erano delle immagini video riprese a un concerto sostenuto la sera in cui la ragazza era sparita e, per quanto fosse risultato sgradevole a coloro che avrebbero voluto vederlo in manette, fu rilasciato. La famiglia presso cui lavorava la giovane governante fu indagata per mesi, soprattutto il capofamiglia, che aveva fama di essere un donnaiolo, ma le indagini furono chiuse quando saltò fuori un ex amante in prigione a Milano che a quanto pare confessava di essere stato lui ad aver commesso il delitto. Ci volle poco ai giudici per capire che il ragazzo voleva solo farsi bello nel carcere dove era finito per aver commesso qualche furtarello. I carabinieri seguirono decine di piste false, l’assassinio fu al centro dell’attenzione della stampa per alcune settimane, poi ritornava sulle prime pagine quando qualcuno si ricordava che poteva trarne qualche vantaggio politico denunciando l’incapacità delle forze di polizia di risolvere i casi, oppure le organizzazioni per i pari diritti insistevano nel ricordare l’indifferenza con cui venivano trattati gli immigranti.
Se volevo dei particolari, li trovavo nel resoconto dettagliato del caso all’interno della cartella che mi era stata consegnata. Gli articoli dedicati all’inchiesta si facevano sempre più brevi e a intervalli di tempo sempre più ampli quanto più si allontanavano dal momento del rapimento, e a un certo punto il gruppo operativo sparì dal panorama. Negli ultimi pezzi si ipotizzava che le probabilità di scoprire qualche altro indizio erano ridotte al minimo tanto che l’unica soluzione ragionevole era quella di archiviare il caso. Sull’indagine si erano formate ormai le ragnatele. Il commissario che l’aveva condotta aveva dichiarato, nella prima intervista dopo essere andato in pensione, che avrebbe dato alcuni anni della propria vita per trovare un filo che lo conducesse a sciogliere il mistero in seguito al quale con amarezza si era visto scappare la promozione. Non era arrivato neppure a essere commissario capo, e alla carica di questore non aveva neppure osato pensarci.
Alcuni ritennero che era stato un errore archiviare il caso, fra di loro anche il Nababbo, per ragioni che lo concernevano. In un primo momento credetti che conoscesse la ragazza, forse era stata governante in casa sua o segretaria in qualche ditta, ma era provato che non l’aveva mai vista di persona.
Il Nababbo desiderava che noi scrivessimo un romanzo che partisse da questo caso. Non un docu-dramma, né un racconto giornalistico del caso, di cui la gente si era ormai stancata, bensì un romanzo che provocasse, che potesse sembrare la soluzione del mistero e perfino che suggerisse l’idea che si potrebbero riprendere le indagini. 
Andammo ad abitare in quella villetta facendoci su misura per dieci giorni l’orario che desideravamo. Scrivevamo di giorno o di notte, a seconda di come eravamo abituati, o quando ne avevamo voglia, non eravamo obbligati a svolgere attività insieme, ma nessuno ci impediva di trascorrere tutto il tempo uniti, se l’avessimo desiderato, mangiavamo quando volevamo, potevamo ordinare tutto quello che volevamo facendocelo servire in camera, con alcuni limiti: ci era stato vietato, per esempio, in maniera velata, lo champagne, mentre il vino era a nostra discrezione e ciò rese felicissimo il Veterano, che a tavola si faceva secche due bottiglie. Se avevamo bisogno di informazioni aggiuntive, le potevamo chiedere alla distinta signora dai braccialetti argentati. Potevamo uscire in città a ogni ora, ciascuno di noi aveva a disposizione un’automobile giorno e notte, potevamo comunicare con tutti, ma era preferibile che non parlassimo del concorso e delle sue condizioni finché non si fosse concluso. L’unico divieto era che non potevamo invitare nessuno alla villetta.
Al termine dei dieci giorni dovevamo consegnare i manoscritti stampati e aspettare l’esito.
La prima obiezione la sollevò il veterano Nicodim Robotan,
Io scrivo solo a mano, disse, uso il laptop solo per documentarmi, non ho mai scritto a macchina una pagina e non intendo farlo. Lo accettate scritto a mano? Ho comunque una calligrafia comprensibile.
La signora dai braccialetti non se lo aspettava, le pareva che il veterano provenisse dalla preistoria, oggi anche i bambini maneggiano i laptop, mormorò, ma trattenne il suo moto di sorpresa dietro un’effimera smorfia, fece una rapida telefonata, dopo di che disse che il problema si poteva risolvere, l’esimio scrittore  sarebbe stato affiancato da una segretaria che si sarebbe trasferita alla villetta e gli avrebbe battuto a macchina il manoscritto giorno dopo giorno, a mano a mano che glielo passava, di modo che tutti i manoscritti dei romanzi fossero consegnati alla commissione simultaneamente. Nicodim Robotam sembrava talmente al settimo cielo da dimenticarsi il divieto di fumare in presenza degli altri ed era sul punto di accendersi una sigaretta. Aveva ottenuto la prima vittoria.
In camera sua può fumare quanto vuole, lo ammonì la distinta signora, mettendo in chiaro le cose, ma negli spazi comuni, no.
Neppure la pipa? domandò Nicodim Robotan, come un bambino.
Neppure.
Fu la prima volta che scorsi nello scintillio dei suoi occhi un’ombra di asprezza.
Quando vedremo il Nababbo? domandò Laura Mogan all’improvviso. Alle due signore ci vollero alcuni buoni secondi per capire a chi si stesse riferendo. La distinta signora alla fine scoppiò a ridere,
è così che lo chiamate? domandò, mi sembra che anche gli italiani lo chiamino allo stesso modo. Non lo so, dipende solo da lui,
ossia è possibile che non si farà vedere alla fine? insisté Laura,
è possibile.
Borbottammo tutti qualcosa d’incomprensibile e la distinta signora si sentì in dovere di aggiungere,
ma sarà al corrente di tutto quello che accadrà qui e, se lui lo vorrà, potrebbe anche fare un salto da voi.
Era evidente che ci dovevamo considerare onorati, sicché tagliammo corto la conversazione per non venire a scoprire qualche altra bella sorpresa.
Ricapitolando: un nababbo si può permettere di buttare i soldi dalla finestra solo per soddisfare un suo capriccio. E degli allocchi partecipano a un concorso finendo in realtà in una trappola e non hanno una capperi d’idea di ciò che li potrebbe aspettare. Ma forse il capriccio non si limitava a essere un mero capriccio. Se uno di noi avesse scritto una variante che avrebbe risolto il mistero dell’assassinio, il prestigio del Nababbo sarebbe cresciuto fino alle stelle. E, comunque, avrebbe fatto soldi a palate con qualunque variante, nessuno doveva commiserarlo per il fatto che poteva finire in rovina. E in definitiva, in un modo o nell’altro, era di noi tre che si parlava e, se fosse esistita una borsa dei nomi degli scrittori, di sicuro almeno per un po’ di tempo ci saremmo trovati in cima alle quotazioni, trascinando dietro di noi, come la coda di cometa, le invidie di coloro che avevano fatto l’impossibile ma invano per partecipare essendo stati respinti.  
Stare lì dove eravamo noi implicava anche qualche sacrificio.

[…]

Giovanni

1.

Da quando era andato in pensione Giovanni Nolte non si era preso neanche un giorno di ferie, eccezion fatta per le domeniche lasciate da Dio nelle quali non muoveva un dito: non tosava l’erba davanti casa, né accendeva il barbecue per farsi alla griglia una costoletta di agnello; poltriva su una sedia pieghevole con accanto un cartone di birre che beveva, accendendosi ogni tanto una sigaretta e gettando i cerini per terra. La sua unica compagnia era un gatto vecchio e troppo pigro per cacciare ancora passerotti. Non aveva bisogno di null’altro. Da quando si svegliava fino al calar del sole. Assomigliava a quegli indiani capaci di rimanere immobili per un giorno intero, gli mancavano solo le penne colorate in testa. D’estate e d’inverno. Alle volte si appisolava sulla sedia, quando faceva buio, altre volte si trascinava fino al divano sul quale ronfava fino all’alba.
[…]
Piccolo, tarchiato, dalla mascella stretta, occhi piccoli infossati in orbite molto pronunciate, capelli radi ma ancora neri e mani grandi come badili, uomo un tempo appariscente, Giovanni Nolte non si riusciva mai a trovarlo a casa durante il resto della settimana, ma nessuno sapeva di cosa si occupasse esattamente. Fino a due anni prima era stato il più noto dei commissari, ma anche il più iellato. Quasi tutte le sue inchieste erano state portate a termine da altri o perché era troppo violento, e piovevano denunce, o perché non aveva pazienza e arrestava chi non doveva, e piovevano altre denunce, ma tutti quelli che avevano ripreso in mano quello che aveva cominciato lui ammettevano che non ci sarebbero riusciti senza le sue indagini, che era stato a un soffio dalla soluzione.
I colleghi si divertivano per via del suo nome, portaci sul set, Nick, così lo chiamavano, gli fecero vedere tutti i film con l’attore di cui portava il nome ed era giunto alla conclusione che quello aveva una faccia abbastanza onesta, ma di sicuro non avrebbe resistito alle pressioni della professione del poliziotto. Ne andava fiero.
Non conosceva l’uomo che quella domenica era entrato nel giardino di casa sua. Gli porse un biglietto da visita, Nolte lo lesse, il nome non gli diceva nulla, e non c’era specificato altro.
Sono già passato di qua, disse l’uomo alto ed emaciato, ma durante la settimana non c’è anima viva,
infatti, così è, annuì Nolte,
volevo fare quattro chiacchiere,
l’ascolto.
L’uomo corrugò la fronte. Avrebbe preferito un po’ più di gentilezza, ma ai tipi stressati c’era abituato.
Lei è l’unica persona ancora senza telefonino che io conosca, disse. Nolte non gli rispose.
Posso sedermi?
Prenda quella sedia, se la cosa andrà per le lunghe,
dipende.
Si avvicinò la seconda sedia pieghevole che stava di fronte a Nolte, si sedette e si sporse in avanti, le loro facce erano ora a pochi centimetri l’una dall’altra.
Sono qui per una missione, disse facendo una pausa.
L’ascolto.
Hai lavorato fino a due anni fa, esordì, dando del tu a Nolte, il quale lo guardò un po’ storto, il tizio aveva più o meno la sua età e si considerava alla pari, ma non si erano mai visti prima e un po’ di educazione non sarebbe guastata. 
Ti sei lasciato dietro alcune inchieste irrisolte, che sono state chiuse.
Dimmi qualcosa che non so, gracchiò Nolte, stappando con i denti una bottiglia di birra. Gli indicò con un gesto il cartone di birre, ma l’uomo rifiutò l’invito.
Il Nababbo vuole che tu gli dia una mano, disse. Cioè ti assume perché tu veda che cosa dicono quegli scrittori su Maria Grapponi.
Non c’era bisogno che gli spiegasse chi era il Nababbo. Né quello che aveva architettato. Se qualcuno gli avesse chiesto il suo parere, prima che fosse stata essa in piedi tutta quella storia, avrebbe detto che si trattava di una stronzata, le indagini non si fanno con dei dilettanti raccattati in giro. Ma siccome nessuno l’aveva interpellato, ci aveva pensato e ripensato su fin a convincersi che forse valeva la pena tentare di tutto.
Conosco la faccenda, i giornali ne sono pieni, è una sciocchezza, disse.
Il Nababbo ha un’altra opinione, gli replicò l’altro. Ha pensato che puoi far parte anche tu della squadra e che se dovessi fiutare qualcosa, dovresti andare fino in fondo. Oppure obbligare la polizia a riaprire il caso. Sarà il tuo un ritorno col botto. Spara la cifra per la quale vuoi lavorare. 
Non mi piacciono i tipi che si prendono beffe di me, disse Nolte, che sentiva montare dentro la rabbia. Posso fare del male,
nessuno cerca di prendersi beffe di nessuno. Questo è il messaggio che devo trasmettere. Non sei obbligato ad accettare, se hai altri progetti migliori,
non ne ho,
quindi ti sarà più facile darmi una risposta.
Perché io? domandò Nolte,
sei l’unico a conoscere tutti i particolari, non bisogna spiegarti niente, e capiresti subito se c’è qualcosa a cui nessuno aveva pensato prima. E il caso non doveva essere chiuso. E di sicuro vorrai scoprire quel che è accaduto, sempre che sia possibile.
Qualsiasi somma? domandò, dopo averci riflettuto un po’,
qualsiasi somma.
Nolte sparò alcune cifre, le più esagerate che gli venivano in mente, per sbarazzarsi il più in fretta possibile di quell’intruso che cominciava a dargli sui nervi,
mi sembra ragionevole, sintetizzò l’uomo.       
Nolte pensò di aver detto una cifra ridicola, ma non poteva tirarsi più indietro. Tracannò un bel sorso dalla bottiglia, guardando fisso negli occhi dell’altro a pochi centimetri dai suoi, non se l’aspettava,
farò di testa mia, disse,
mi sembra giusto,
e non renderò conto a nessuno,
e anche questo mi sembra giusto.
Nolte gettò la bottiglia vuota nel cartone.
Quando cominci?
Oggi. Domani. Quando vuoi.
Gli sembrava l’assunzione più facile della sua vita.




A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 5, maggio 2015, anno V)