Radu Paraschivescu: «Astăzi este mâinele de care te-ai temut ieri»

Radu Paraschivescu (1960), prosatore, traduttore, giornalista sportivo, miscela nel mirabile romanzo Astăzi este mâinele de care te-ai temut ieri (Humanitas, Bucarest, 2012) una sintesi perfetta fatta di finzione e realtà, epopea e agonismo sportivo, anelito alla libertà e caso umano, insomma una combinazione di elementi fra i più disparati che l’autore sa però trasformare in un racconto avvincente e originale, sospinto da una scrittura vivace e accattivante, generosa, caratterizzata da un linguaggio stilisticamente sostenuto e impeccabile. Passando da un’epoca all’altra, da un capo all’altro del mondo, Radu Paraschivescu inscena una storia che corre vertiginosamente su un filo teso tra fantasia romanzesca e dati storici dove le emozioni e l’agonismo calcistico si fondono e si compenetrano in modo ammirevole.
La vicenda ruota intorno a un canto che percorre secoli e continenti, una ballata – The Fields of Athenry – composta da Peter Mooney negli anni ’70 del secolo scorso, che l’autore traspone nell’Irlanda misera e affamata (è la grande carestia del 1845-49), ancora colonia degli inglesi, del XIX secolo: sono versi che esprimono compassione per un detenuto, Michael Flaherty, sbattuto in carcere dai britannici reo di aver rubato del granoturco da un magazzino per sfamare la propria famiglia. Quei versi rimangono impressi nella memoria di Michael, trasferito in seguito in una prigione di Macquarie, in Tasmania, e riecheggiano in lui con lancinante nostalgia e che recita ai suoi nuovi galeotti. Durante la prigionia, Michael tiene un diario e vi annota quel canto. Siamo ai nostri giorni: un editore inglese pubblica il diario di un detenuto, scritto all’epoca, e finisce nelle mani di un antiquario di libri. In questo modo, il canto fa ritorno in Europa, e un tifoso del Liverpool, attirato dalla storia di quei versi, dopo averli letti, li rielabora qua e là e trasforma quel canto nel nuovo inno, nel talismano corale della sua squadra, il Liverpool; il nuovo inno avrà il suo battesimo, per così dire, nei quarti di finale della Lega dei Campioni del 2005 contro la Juventus, cui farà seguito la finale contro il Milan. A due settimane dalla partita dei quarti di finale della Lega dei Campioni, Liverpool-Juventus, la parola d’ordine è: vendetta. Quale vendetta? Ebbene, sono passati venti anni da quella finale maledetta del 1985 (ma trenta oggi, nel 2015: a maggio infatti cadeva quel terribile e assurdo anniversario), la tragica finale di Coppa dei Campioni tra il Liverpool e la Juventus allo stadio Heysel di Bruxelles. Quella sera voci di spogliatoio dicevano che il Liverpool fosse stato obbligato a perdere la partita a tavolino come ricompensa per le vittime. Quale migliore vendetta se non eliminare la Juventus per lavare l’onta? E così sarà, perché il Liverpool batte la Juventus 2 a 1. E nella finale se la vedrà con il Milan…
Ma sulla cronistoria di questo doppio evento calcistico, narrato «in diretta» con precisione e competenza, sostenute da un ritmo coinvolgente, come solo Radu Paraschivescu può fare, s’innestano i vari elementi della trama che giungono qui al loro epilogo e soluzione, in una girandola di coincidenze e di dati reali e fittizi che incorniciano il romanzo con efficacia e tensione, non senza anche una frecciatina polemica nei confronti della «mafia» del calcio italiano (attualissima!), secondo il punto di vista della stampa sportiva britannica...
 



Frammento da «Astăzi este mâinele de care te-ai temut ieri»

Parte prima
AN GORTA MÓR

1

– Al dolmen! Tutti al dolmen! Presto! Datevi una mossa!
La voce di Martaugh lacerò le tenebre. Una voce aspra, arrochita, che sapeva chiedere e urlare. Che diavolo gli sarà preso stavolta? Liam Martaugh era un contadino che, come molti altri nel villaggio, tradiva la moglie con la bottiglia e spesso si addormentava ancor prima di raggiungere il letto, rotto dal lavoro della giornata e dagli energici effetti dell’alcol. Solo che, ogni volta che dava un ordine, la gente lo ascoltava. A nessuno saltava certo in mente di fare storie con quel colosso dalla crapa pelata e dalle mani con le unghie rotte che sembravano dei badili, al quale bastava poco perché gli saltasse la mosca al naso e allungasse la mano per afferrare un bastone.
– Su, di corsa! Che aspettate? Vi voglio al dolmen al completo!
Le donne e i bambini sapevano che l’ordine di Murtaugh non li riguardava. Le riunioni al dolmen erano una faccenda riservata agli uomini. Così era stato stabilito da tempo. Ogni volta che si dovevano comunicare delle notizie o prendere delle decisioni, i contadini si riunivano presso l’antica tomba e ascoltavano. Il piedritto di roccia era il luogo dove si tesseva il futuro del villaggio e dove si faceva giustizia quando qualcuno dei contadini sgarrava.      
Con i vestiti umidicci per via della pioggia che era scesa due, tre ore prima, con le teste affossate nel petto per proteggersi dal vento e con gli stivali che sguazzavano nella fanghiglia argillosa che ricopriva la strada, gli uomini del villaggio si stavano approssimando al dolmen, provenienti da ogni angolo. Accanto al dolmen erano state accese tre fiaccole, segno che durante il consesso sarebbe stata data una notizia di una certa gravità. Mano a mano che si avvicinavano, i contadini scorgevano davanti all’ingresso la figura schiacciata di un uomo, ma eretta sul busto, una postura che assume chi ha per ospite una persona di riguardo.
– Boyle il pazzo? farfugliò un tipo dai capelli fulvi di circa vent’anni, scostando la frangetta dagli occhi. Di nuovo? Che vorrà ancora da noi?
– È un’idiozia tirar fuori la gente di casa per sentire un pazzo come quello. Specie con questo tempo, gli fece eco un tizio mingherlino e barbuto, che si affannava a non rimanere indietro.
– Già, Dick Cahill, ma vallo dire tu a Murtaugh, se sei così temerario da stringergli la mano, sussurrò il ragazzo dalla capigliatura fulva.
Per loro fortuna, il capo era lontano e non poté sentirli. Altrimenti, li avrebbe strigliati entrambi per benino, così come aveva fatto tante altre volte con i contadini che avevano messo in dubbio le sue decisioni e la sua capacità di governare il bene comune. Quanto a Boyle il pazzo, tutti l’avevano preso in giro alcuni anni prima, quando disse per la prima volta, quasi scusandosi per la temerarietà della confessione, che aveva il dono di saper interpretare i segni del cielo e della terra. All’udire la fanfaronata del povero cristo, al quale, non ci voleva molto a capirlo, era andato di volta il cervello, non avevano riso tanto neppure quando si raccontavano le barzellette alla taverna. Tanto più che nulla di tutto ciò che Boyle aveva predetto si era poi avverato. Tranne una cosa. Ma perfino allora, dopo quella notte devastata da una furiosa tempesta, i contadini avevano creduto che non si fosse trattato altro che di una coincidenza. D’altronde, come si poteva fare affidamento alle panzane di un buono a nulla che aveva predetto tutte le sciagure che si potevano immaginare? Come si poteva avere fiducia nelle parole di uno che ti aveva detto già quasi una decina di volte che saresti stato spazzato via dalla faccia della terra per effetto di un’epidemia, di una guerra o di un cataclisma?
Boyle il pazzo attendeva immobile e impettito che gli uomini gli si radunassero intorno, rivolti verso il dolmen battuto dal vento e dalla pioggia. Aveva gli occhi spenti, ma gli fremevano le labbra livide come sotto il peso di un segreto che non poteva più tenere nascosto nei recessi della sua mente. Su di lui non aleggiava l’aura della profezia, quanto piuttosto il sospetto di una malattia che rincrudiva lentamente e senza pietà. Murtaugh gli si avvicinò, fermandosi accanto e gridò, come faceva sempre quando si riunivano:
– Pace agli abitanti di Athenry!
– Pace agli abitanti di Athenry! replicarono i contadini, alcuni svogliatamente, altri lasciandosi compenetrare dall’importanza del momento, per il tempo che sarebbe durato.
Il colosso si allontanò a passo lento dalla figura allampanata di Boyle il cui viso rinsecchito, con gli occhi infossati nelle orbite, era accarezzato dalle fiamme delle torce.
– Parla, Boyle, ti ascoltiamo, disse dopo essersi piazzato di fianco alla prima fila di uomini.
– E fa’ attenzione a come ci fai fuori questa volta, mormorò il ragazzo fulvo da qualche parte, dietro, abbastanza sottovoce affinché la battuta non giungesse né agli orecchi del capo, né a quelli del veggente.
Boyle raccolse le mani sul petto, lasciò spaziare lo sguardo sopra le teste dei contadini, passandosi la lingua sulle labbra. Infine parlò.
– Vedo una sciagura, proferì tetro.
Il mormorio che si aspettava da quelli lì radunati attorno al dolmen tardò a farsi sentire. Gli uomini sembravano averne abbastanza delle fole del veggente.
– Una sciagura da cui neppure Dio in cielo potrà liberarci. Una sciagura oscura come la notte, continuò Boyle.
Murtaugh sospirò con impazienza come a voler invitare il veggente a sbrigarsi.
– Una sciagura lunga quanto dieci guerre, più impetuosa della buriana e non meno feroce delle fiere della giungla. Una sciagura superiore a tutte quelle che si sono abbattute su di noi negli ultimi secoli.
Dick Cahill si grattò la barba e si alzò sulle punte dei piedi per sussurrare qualcosa all’orecchio del fulvo alla sua destra.
– Che pensi ci accadrà stavolta, Éamonn? Il colera, un’alluvione o la fine del mondo?
Murtaugh fulminò Cahill e il suo vicino con uno sguardo che prometteva una sonora bastonata. Anche a lui irritavano le parole a vuoto di Boyle, ma non aveva modo di troncargli la parola, per quanto lo avesse desiderato. Inoltre, il capo avvertiva che se lo scherno degli altri fosse giunto agli orecchi del veggente, questi non sarebbe stato in grado di riferire ciò che la sorte aveva in serbo per loro. A ogni modo, però, Boyle sembrava impassibile di fronte a tutto quello che sentiva e accadeva al suo intorno. Continuò a parlare ancora per qualche minuto e proprio quando i contadini pensavano di averne sentite abbastanza e che sarebbe stato più utile essere rimasti a casa, pronunciò tre parole che fece aggrottare le loro fronti.
An Gorta Mór.
Gli occhi di Boyle si erano fissati in un punto impreciso dell’oscurità; pareva quasi che stesse tentando di decifrare da dove potessero provenire i pericoli e le minacce più imminenti. Il veggente si lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, rimanendo diritto, con lo sguardo rivolto in avanti e le labbra che biascicavano senza sosta quelle tre parole:
An Gorta Mór. An Gorta Mór. An Gorta Mór.
La grande carestia? Come e dove? Che gli era pigliato a Boyle? Nessuno degli abitanti di Athenry viveva nella bambagia e non passava anno che non ci fossero disgrazie più o meno gravi, ma nessun contadino si era lamentato che gli brontolassero gli intestini per la fame. Nessuna madre del villaggio si era rigirata nel letto la notte al pensiero che il giorno dopo non avrebbe avuto nulla da mettere in tavola per i figli. E nessun capofamiglia si era lasciato penzolare dal ramo di qualche albero dopo essere stato sopraffatto dalla disperazione che la miseria trascina con sé. Era poco ma sicuro: il veggente si era prima tracannato qualcosa di forte. Nel caso in cui non si fosse semplicemente preso gioco di quegli uomini radunati attorno al dolmen. Forse sarebbe stato opportuno che Murtaugh lo chiamasse in disparte per dirgli due paroline. Prima che gli venisse in mente qualche altra sua baggianata. Altrimenti, all’indomani saresti stato svegliato perché ti precipitassi al dolmen per sentirti dire che agli inglesi stavano a cuore le sorti dell’Irlanda e che agli irlandesi volevano bene come se fossero loro fratelli. Di tutte le frottole che aveva infilzato fino a quel momento, ci mancava solo questa. Per ora.   
Probabilmente anche Éamonn, il ragazzo dai capelli fulvi di circa vent’anni, la pensava allo stesso modo, poiché dopo aver esitato un poco se aprir bocca o no, decise di farsi strada fra i contadini e di piazzarsi davanti a Boyle.
– Non è bello da parte tua farti beffe della gente, Jim, disse, per lo stupore di un Murtaugh furibondo. Ne avrai tante da raccontare al buon Dio il giorno del giudizio…
[…]
Il volto imperturbabile di Boyle fece montare su tutte le furie il ragazzo.
– Ti deciderai a dirci un giorno dove vai a pescare tutte queste fandonie? Al diavolo, Jim, abbiamo mogli e figli, abbiamo un sacco di cose per la testa e tu vieni qua a prenderci in giro. Hai tutta la mia comprensione, è difficile vivere da soli una vita intera, ma non è colpa nostra se ti è andata così. Lasciaci perseguire in pace il traguardo che ci siamo prefissi mentre siamo a questo mondo.
– Ma chiudi il becco, Éamonn! saltò su Murtaugh rivolto al ragazzo distante da lui pochi passi. Se ho deciso di radunarvi qui, puoi starne certo che l’ho fatto per il vostro bene. Andassi all’inferno se non ammettessi di averne fin sopra i capelli dei tuoi blateramenti. Giuro che alle volte ho pensato se non sarebbe stato meglio averti sbattuto la porta in faccia quando venivi a cercare rifugio qui dopo essere corso dietro le gonne di questa o quella che quasi quasi ci rimettevi la pelle.
– E se Boyle ha le sue visioni quando siamo al lavoro in campagna, ci chiamerai anche allora? osò domandare d’un tratto anche il piccoletto con la barba.
– A giudicare dal tempo che tu passi a spingere l’aratro o a menare la zappa, Cahill, la campagna non ti rimpiangerebbe neppure se mancassi due anni di fila, gli ribatté il capo con una faccia ribollente di minaccia.
Si sentirono alcune risatine, segno che, pur detestabile com’era, Murtaugh aveva un suo dono nell’arruffianarsi la gente quando gli si arroventava la lingua. In definitiva, l’idea di far convenire gli uomini della comunità attorno al dolmen era stata sua, e Boyle si era limitato a dare la notizia di aver presagito qualcosa. Ma se si voleva essere rispettati, non era sufficiente far tuonare la voce e curare col sugo di bosco chi protestava, ma era opportuno anche, ogni tanto, lanciare una battuta, una parola grossa o offrire un giro a coloro con i quali ci s’imbatteva alla taverna. Peccato che quel fulvo fosse così difficile da ammansire. Per il resto era un ragazzo in gamba, ma anche uno spaccone che non sapeva tenere la lingua a bada.                                         
E da quando aveva tenuto a battesimo Sean, il figlio di suo fratello, Michael, non c’era verso di intendersi con lui. Si credeva il centro dell’universo, tanto che si potrebbe affermare che neppure il sole si sarebbe permesso di sorgere su Connemara senza il suo consenso. Per sua fortuna, aveva una bella voce, come nessun altro, e Murtaugh sapeva che la maniera più sicura per rendersi antipatico agli occhi della gente di Athenry era di entrare in conflitto con i musicanti.  
Infatti, fu così che conobbe Éamonn, anni prima, dopo che il ragazzo aveva trovato rifugio ad Athenry in fuga da un marito cornificato di Loughrea. Se ne stava seduto per terra a gambe incrociate mentre, in una fresca serata d’autunno, circondato da una frotta di mocciosi, pizzicava le corde della sua chitarra, snocciolando una ballata che parlava di uno spazzacamino finito impiccato.

O, me name it is Sam Hall,
Chimney sweep, chimney sweep,
O, me name it is Sam Hall,
Chimney sweep.
O, me name it is Sam Hall
And I’ve robbed both great and small,
And my neck will pay for all
When I die, when I die,
And my neck will pay for all
When I die.

[…]


Parte seconda
ALLE PORTE DELL’INFERNO

Non sono bravo a far di calcolo e tenere il conto dei giorni, delle settimane e dei mesi. E non ricordo un sacco di cose – neppure quando mi hanno portato in questo posto dove finisce il mondo (forse era l’aprile del 1846, ma non ci posso scommettere), né quando mi hanno sbattuto in questa cella nella quale ora marcisco e dalla quale uscirò solo per penzolare dal patibolo. È strano come, invece, ricordi cose accadute molto tempo fa. Ah, come ride a volte l’uomo amaramente della vita, e la vita dell’uomo! E quanto cruda è questa sorte che un giorno ti fa adagiare nel grembo di Dio, e un altro ti stringe il cappio al collo.            
Chi l’avrebbe mai creduto?
Chi avrebbe mai detto, dopo essermi divertito, durante l’infanzia, a caracollare tra la prigione e il patibolo innalzato nella piazza principale di Galway, correndo dietro al carro dei condannati e gridandogli un buon viaggio all’inferno, che avrei finito i miei giorni in un antro, dietro le sbarre e con i ceppi ai piedi, senza poter sapere quando la guardia mi avrebbe portato, delle due giornaliere, l’ultima ciotola di fumante brodaglia?
Chi avrebbe potuto intuire nella mia spudorata allegria di allora che avrei esalato l’ultimo respiro così come avevano fatto parecchi altri sotto i miei occhi, mostrando le lingue rigonfie e le nerchie inturgiditesi nelle brache per l’ultima volta, mentre io, intrufolandomi fra i marosi della folla, in mezz’ora svuotavo molte più tasche di quelle che quegli sventurati avevano svuotato in un anno, i quali ora, con un cappuccio nero infilato in testa e le mani legate dietro le spalle, ballonzolavano in aria, scalciando a vuoto?
E chi avrebbe creduto, schiaffato in questa putrida cella, dopo che i miei occhi si erano abituati al buio, che avrei visto qualcosa che mai avrei voluto vedere?: alcune parole incise dalla mano di chissà chi sul muro della prigione, parole di una saggezza amara, che mettevano i brividi, che nessun altro se non io avevo gridato ogni volta che un condannato veniva spinto giù dal carro e scortato con il capestro al collo che gli avrebbe poi schiacciato il pomo d’Adamo. Erano le stesse parole che avrei udito molti anni dopo essermi trasferito a circa venti miglia a est di Galway, ad Athenry, proferite da un pazzo veggente, che, fissandomi negli occhi, quando ancora non si era propagata per bene l’epidemia della patata, mi aveva predetto un avvenire di furto, prigionia e morte.
OGGI È IL DOMANI DI CUI HAI TEMUTO IERI.
Quando per la prima volta mi sono scorse sotto gli occhi quelle parole intagliate nella carne del muro, ho capito che potevo dire addio a ogni speranza. È stato peggio di una condanna. È stato peggio del giorno in cui il governo ha deciso la mia sorte pregando poi il buon Dio – che beffa! – che avesse compassione della mia anima. Le parole sul muro hanno confermato il pensiero che si era annidato in me fin dal momento in cui ero stato spinto dentro la cella: che quel posto, in cui neppure i ratti osavano entrare, l’avrei ormai percorso in un solo senso. Senza ritorno. 
[…]  
Solo adesso mi rendo conto che forse avrei dovuto iniziare la mia storia dicendo come mi chiamo. Il mio nome è Michael Flaherty e sento come il cappio cominci a farsi più stretto. Perché anche se non ricordo più il momento in cui sono giunto in questo inferno circondato dal mare, ne so il motivo. Perché ho tentato di rubare. Sono entrato furtivamente nel granaio dove era immagazzinato il granoturco che il governo intendeva spedire nella terra dei Batavi e ho voluto impossessarmi di ciò che non era mio. Sarà stato anche così, ma non apparteneva neppure agli olandesi. In fin dei conti, eravamo stati noi a coltivare la terra, e non altri, sicché sarebbe stato più giusto che venissero incontro prima a noi che a qualcun altro, chiunque fosse stato. Solo che gli inglesi, gli venisse un accidente, avevano bisogno proprio allora di stringere rapporti con l’Olanda e si sono affrettati ad andare in loro aiuto. E se così agendo ci facevano assaggiare il randello in testa, tanto meglio. Sono centinaia e centinaia di anni che non ci sopportano, cioè da quando tentano di metterci il giogo al collo, di piegare la nostra tenacia, di debellarci. E quale migliore occasione potevano trovare se non durante l’imperversare della carestia che ha attanagliato il mio Paese in quegli anni di sofferenza?        
Il passato ti aiuta a preparare quel che avverrà in futuro, così si suole dire. Non so se sia vero o no. So però che nella mente mi turbinano ogni tipo di disgrazie avute in sorte – tempeste e terremoti nella vita, rivolte e tormenti – e mi è difficile decidermi da dove cominciare. Per questo voglio fissare per iscritto, per tutto il tempo che il Padreterno mi concederà di stare in questa terra prima di chiamarmi al Suo cospetto, la storia di quel che sono stato e di dove sono arrivato. La storia di un uomo perbene tramutatosi in ladro non per insulsa ingordigia, bensì per l’avversità del destino e la perfidia dei padroni. La storia di un padre strappato a suo figlio e di un marito portato via dalla moglie. La storia di un buon padre di famiglia trascinato a marcire in galera perché gli è toccato di vivere in tempi avversi.
Che ne sarà di queste pagine che sto riempiendo adesso d’inchiostro mi è impossibile dirlo. Forse saranno gettate nel fuoco dopo che non ci sarò più. Forse Sua Eccellenza il governatore le conserverà per mostrarle poi a chissà quale ospite di riguardo che inviterà a cena. O forse saranno infilate in una bottiglia e gettate nelle acque dell’oceano, il cui destino sarà alla mercé del vento e delle correnti. Se tuttavia fra qualche anno o secolo finiranno sotto gli occhi di qualcuno, esse saranno la prova che né la fame, né i soldati dei padroni, né la prigionia hanno potuto mettere in ginocchio un irlandese.
[…]

Parte terza
THE FIELDS OF ANFIELD ROAD

1

Basta, Mickie, me ne vado. Stammi bene, stavolta non torno più. Spero che ti andrà bene e che troverai la felicità in mezzo ai tuoi tifosi della curva Kop. Ti lascio così come ti ho trovato: incasinato. Mi rallegro che per causa mia tu non sia andato a fondo del tutto. A dire il vero, difficilmente ci saresti riuscito. In un modo o nell’altro.
Meg    

Michael legge ancora una volta il bigliettino d’addio, dopo di che lo passa a Geoff. Si prende una birra dal frigorifero, ne allunga una anche al suo amico, sprofonda nel divano davanti alla tv e fissa lo sguardo sullo schermo su cui stanno passando le immagini della pausa pubblicitaria. Che stronza! Guastargli così la partita. Anche se è registrata, e anche se sono appena trascorse quattro ore da quando è tornato dallo stadio di Anfield Road, Michael non vedeva l’ora di rivedere i due gol insaccati nella porta dell’Everton, il nemico sulla riva opposta del Mersey. Specie se a segnare erano stati proprio i suoi due beniamini, Gerrard e García. E proprio adesso quella scema di Meg ha avuto la brillante idea di mollarlo. Certo, non è la prima volta che gli accade di essere lasciato prima o subito dopo una partita dei ragazzi. Forse è anche a causa del fatto che i ragazzi giocano due o tre volte la settimana, e lui non può mancare alla curva Kop. Una volta che ci sei dentro, non ti è permesso di perdere un solo incontro con gli idoli. Meg questo non l’ha capito. E, d’altronde, neanche le altre.   
Michael rivanga nella memoria e fa riaffiorare le precedenti rotture.
Addio, Jenny, un giorno prima di Liverpool-Arsenal 1-0, trofeo Charity Shield.
Addio, Linda, la mattina di Liverpool-Manchester United, partita di campionato.
Addio, Fiona, la sera dopo Liverpool-Chelsea, altra partita di campionato.
Le sconfitte della sua vita amorosa sono coincise con le vittorie dei ragazzi. È sempre qualcosa. In definitiva, questo è quel conta. Il resto è sesso, frustrazioni e illusioni. Michael trangugia qualche sorso di birra e scuote la testa. È andata così, getterà il cuscino di Meg nell’armadio a riempirsi di polvere e pilucchi. È un gesto normale. Una dichiarazione di emancipazione. «I tuoi tifosi del Kop», ma sentila… Quanto disprezzo. Quanta cecità. E quanta pochezza d’idee, in definitiva.
– Ringrazia il cielo che te ne sei liberato, dice Geoff, seduto per terra, dove gli piace stare le volte in cui va a casa di Michael. Non faceva per te, dammi retta.
Michael annuisce e ricorda a voce alta:
– Qualche mese fa, quando il Newcastle ci ha battuto in casa, abbiamo avuto una lite furibonda. Mi ha detto che solo i coglioni trascorrono la vita fra una partita e l’altra. Le ho gridato in faccia le parole del Vecchio Bill: «Alcuni dicono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Vi posso assicurare che si tratta di qualcosa di molto più serio». Mi ha guardato come si guarda una nave su rotaie ed è filata a casa di sua madre. È ritornata dopo una settimana, disposta a perdonarmi, diceva. Solo che nel frattempo ci aveva battuto anche il Middlesbrough, quindi non aveva programmato benissimo il ritorno.
– Hai mai conosciuto per caso delle ragazze che s’intendono di calcio? domandò Geoff.
Intanto sullo schermo comincia la registrazione della partita. Michael e Geoff assistono come compenetrati dallo spirito santo, quasi si trattasse di un rito religioso. Escono dalla trance solo quando i ragazzi segnano, scatenando con ciò la furia della vicina del piano di sotto che si mette a battere il soffitto con il manico della scopa. Dài, dài, batti pure, spero solo che ti cadano i calcinacci in testa! la minacciò Michael con il pensiero.  
Tre secondi dopo la fine della registrazione, dal cellulare di Geoff si sentono gli accordi di una ballata, e sul visore appare il nome di Frankie Dorgan.
– Dimmi, vecchio.
– Semaforo verde, bofonchia la voce baritonale da fumatore incallito di Dorgan. 
– Evvaiii!!! urla Geoff prima che Dorgan riattacchi, pressato da urgenze di lavoro.
Fra due settimane si giocherà Liverpool-Juventus nei quarti di finale della Lega, e Dorgan ha saputo finalmente, dopo pressanti insistenze, che lo potrà sostituire al turno un suo collega, così potrà andare alla partita con Michael, Geoff e il resto della combriccola. Dal momento in cui sono stati resi noti i quarti, la parola d’ordine era «vendetta». All’infuori di Michael, gli altri tifosi del Liverpool non avevano letto Vent’anni dopo – e a dire il vero, probabilmente non avevano mai sentito nominare un certo Dumas padre. Ma il fuoco della rivincita e gli anni trascorsi dall’orrore di Bruxelles collimano. Sui muri e sulle staccionate si susseguono già scritte suggestive: «Facce tonte e bocche storte, di sicuro son nati in Piemonte», «In città, preparatevi, dei torinesi vedrete i cadaveri» oppure «Juve, covo di mafiosi / baciateci i culi pelosi». I vetri delle taverne del porto vibrano sotto i decibel dei cori in puro accento scouse. Perfino Glenn Fotheringay, l’editorialista del Liverpool Daily Post, si sbarazza del suo tradizionale aplomb e sbatte in prima pagina un titolo che la tifoseria trasforma subito in slogan: «Trentatré morti all’Heysel? Ragazzi, facciamogli altrettanti mazzi!»
Michael sapeva ciò che era successo nella finale del 1985 solo da internet o dai racconti dei tifosi del Liverpool più anziani che si trovavano all’Heysel. Aveva solo sei anni quando cominciarono a giungergli all’orecchio i nomi di alcuni degli dèi venerati da tutti i mortali scouse: Hansen, Rush, Nicol, Whelan, Wark. Ce n’erano altri, ovviamente, solo che la sua mente non riusciva ad assimilarli tutti. Ciò che si ricorda con cristallina nettezza era il grido di dolore di zia Jill dopo che aveva saputo che zio Rod era morto alla stadio schiacciato da un muro insieme ad altri cinque tifosi del Liverpool. Più tardi, Michael lesse dei trentatré italiani morti prima della finale e dei sospetti secondo i quali i ragazzi di Joe Fagan sarebbero stati obbligati negli spogliatoi a perdere la partita come risarcimento offerto ai piemontesi per le vittime delle tribune.
– Hai un’altra birra? domandò Geoff tra uno sbadiglio e l’altro. Dobbiamo parlare di una cosa seria.
Michael si alza dal divano, fa il suo dovere come padrone di casa, e alla fine stappa una Carlsberg anche per sé.
– Alla salute. Ti ascolto, che problema hai?
Geoff va subito al sodo, com’è sua abitudine.
– A te piace questo inno?
– Quale inno?
– Come quale inno? Il nostro.
You’ll Never Walk Alone? Stai bevendo un po’ troppo, amico. Prendi fiato.
– Quindi ti piace.
Michael aggrotta la fronte e guarda la sciarpa rossa appesa sopra la tv. Il titolo dell’inno è scritto a grandi lettere bianche, racchiuso da due cormorani.
– Geoff, non importa che mi piaccia o no. Casualmente, sì, mi piace una cifra. E comunque, è il nostro inno, cazzo. Ce l’abbiamo… 
– Già, già, lo so, da quasi quarant’anni, dai tempi del Vecchio Bill. È nostro, certo che è nostro. Solo che… non so, ha qualcosa che lascia mosci. Quando lo ascolto, mi prende sonno. Un inno deve metterti il fuoco dentro, e non farti addormentare. Ebbene, diresti che il nostro sia stato composto da Simon & Garfunkel, per la madonna. YNWA o Bridge Over Troubled Waters suonano allo stesso modo.
Michael lo guarda stupito.
– Spero che tu non abbia detto questa cosa al Kop. No, non l’hai detto, altrimenti non ne saresti uscito vivo. Ma spero che tu non abbia neppure l’intenzione di farlo.
– Per questo sono venuto a parlartene, Mickie. Ho un chiodo fisso che mi dice che faremo qualcosa.
– Noi due? Con l’inno? Ti è andato di volta il cervello? Che possiamo fare? Cambiarne il ritmo, accelerarlo?
– Potremmo proporre qualcos’altro, dice Geoff tracannando dalla bottiglia. Hai una sigaretta?
La partenza di Meg implicava, fra l’altro, la riacquistata libertà di Michael e dei suoi ospiti di fumare in appartamento. Finora, estate o inverno che fosse, chi aveva voglia di fumare doveva uscire in terrazzo. «Meno male che ci lascia bere in camera senza spedirci all’asciugatoio», sghignazzò l’anno prima un kopite dopo aver ricevuto il divieto di fumare direttamente dalla bocca di Meg.
– Geoff, ti è andato in tilt il cervello, eh, dice Michael gettandogli una pacchetto aperto di sigarette. Ho capito bene? Vuoi sostituire l’inno? Vuoi cambiare YNWA?
– Non esattamente. Lo accantonerei un po’ e farei spazio a un inno in cui si dicesse qualcosa dei ragazzi. In cui apparissero i nomi dei nostri, quelli di un certo peso. Paisley, Keegan, Lawrenson, Dalglish, Highway, Fairclough, McDermott, Kennedy, Case. E anche il Vecchio Bill, ovvio. Questo è quello che vorrei. Ma so che è come parlare della corda in casa dell’impiccato. A proposito, questo YNWA puzza un po’ d’incenso, non ti pare? Ok, Mickie, è evidente che non si può cambiare l’inno, non guardarmi più così. Si può affiancarlo a un altro. A qualcosa di più… che ne so, di più dinamico, di più diretto. E non così melenso, cazzo.    
Un giorno, durante gli anni ’60, Bill Shankly aveva sentito You’ll Never Walk Alone cantato da un gruppo di tifosi sbronzi, che festeggiavano in un bar la vittoria del Liverpool sull’Aston Villa. E sebbene il brano fosse stato inserito per la prima volta in Carousel, un musical americano per il quale andava pazzo in città più il pubblico femminile che quello maschile, il Vecchio Bill fu toccato nel cuore da come l’avevano cantato quei tifosi. Così tanto da farne poi l’inno del club. La direzione l’aveva guardato un po’ storto, solo che Shankly aveva appena portato il Liverpool alla conquista della Coppa del campionato ed era stato condotto in trionfo dalla tifoseria, sicché sarebbe stata per lo meno un’imprudenza opporglisi. In fondo, era stato sempre Shankly a decidere di porre una targa sopra l’entrata degli spogliatoi su cui era scritto semplicemente This is Anfield. Alla domanda di un giornalista sul motivo di quel gesto, il Vecchio Bill replicò con uno stridio nella voce che pareva quello emesso da un tram in curva: «Perché agli avversari diventi più piccolo, e ai nostri più grande».     
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Le truppe di occupazione della tifoseria del Liverpool fluiscono verso lo Stadio Olimpico Kemal Atatürk, una fortezza senza possibilità di opporsi all’assedio. Da lontano, la sagoma dello stadio ricorda più il capriccio di un architetto esaltato che un campo sportivo. Come mai tanti stadi nuovi sembrano sempre più a delle navi spaziali? sembra chiedersi ogni tanto qualche soldato dell’esercito composto solo di maglie rosse che affronta la calura di fine maggio procedendo senza fretta lungo le vie di Bașakșehir e inalando la brezza che soffia dal Mar di Marmara. «Perché l’aspetto estetico deve tenere il passo dei tempi» – è la risposta che aleggia sopra le teste coperte da cappellini rossi da baseball. È il giorno della finale, il giorno più atteso degli ultimi ventun anni, quelli cioè trascorsi da quando il Liverpool vinse per l’ultima volta la Coppa dei Campioni, dopo essere stata sconfitto dalla Roma in casa sua. Sono pochissimi i giornalisti presenti oggi a Istanbul come allora all’Olimpico per fare la cronaca. Forse un centinaio, ma certamente non di più. Alcuni sono morti di vecchiaia, altri si sono arresi alle malattie, all’alcol, a incidenti di lavoro o alle preoccupazioni. Ma non hanno dimenticato di trasmettere ai posteri la passione per i Cormorani e di inserire nei loro testamenti orali il dovere di seguirli sempre e ovunque.
I kopite guadagnano l’ingresso dello stadio, dopo aver sciamato per la città tutto il giorno. Alcuni si sono smarriti visitando la Cisterna, la basilica sotterranea, incespicando nelle passerelle metalliche e gareggiando gli uni con gli altri nell’acchiappare con le mani i pesci che facevano lo slalom fra le colonne sommerse nell’acqua. […] Stew e Rob, i capi tifoseria più rispettati, avevano fissato la partenza per lo stadio intorno alle sei del pomeriggio, e i kopite, mentre aspettavano il via, bevevano birra e provavano il repertorio per la finale. Mickie ha avuto un tuffo al cuore quando i tifosi hanno intonato il ritornello da The Fields of Anfield, soprattutto perché lo sentiva per la prima volta. Non era affatto male. Anzi, filava che era una meraviglia.
In realtà, è stato il momento in cui gli ha fatto emergere in superficie le navi inabissatesi in fondo al mare. La morte di Timmy lo aveva ridotto a pezzi, e per alcuni giorni non riuscì neppure a guardare negli occhi Harry Tyndell. Dopo il funerale, era stato molto combattuto se andare a Istanbul o no; ci avrebbe scommesso che qualsiasi kopite gli avrebbe detto di non rinunciare al biglietto per la finale della Lega dei Campioni neppure a costo della propria vita, specie quando il Liverpool si giocava la sesta finale della sua storia. Senza contare il fatto che la squadra avversaria era italiana, e per loro l’Italia era come l’incarnazione del Diavolo. Mickie ha tentato di non rovinare l’appetito a Geoff, a Frankie Dorgan e agli altri, anzi si è unito a loro facendo gli auguri in coro a squarciagola, in italiano, ad alcuni milanisti nei quali si erano imbattuti in un locale. Milan, Milan, Vaffanculo! Milan, Milan, Vaffanculo! Guardinghi e in inferiorità numerica, i lombardi non hanno reagito, limitandosi a starsene seduti da buoni ai loro tavoli con i nasi sprofondati nei menù.
– Questo è quello che mi piace dei mangiaspaghetti, i loro insulti hanno ritmo, ha sottolineato Frankie, del quale nessuno avrebbe sospettato una qualsivoglia propensione filologica.
– E i nomi delle squadre hanno due sillabe, quindi quel che va bene per una, va bene anche per tutte le altre. Inter, Inter, Vaffanculo. O Parma, o Lazio, o Doria, o Roma, ha aggiunto Geoff.
– O Juveeee!!! hanno urlato gli altri del gruppo come fulminati, intonando poi il mantra anale anche per i nemici piemontesi.
Però Mickie stava per far osservare che i nomi della Fiorentina e dell’Udinese non rientravano nello stesso schema prosodico, ma lasciò perdere. I ragazzi erano al settimo cielo per aver fatto quella scoperta, che senso aveva smorzargli l’entusiasmo? E quando il ritornello da The Fields of Anfield Road si è levato dal centro di Piazza Taksim ha avuto per un istante la sensazione che da qualche parte, dal tragico passato dell’Irlanda, gli sorridesse complice un altro Michael Flaherty. Sebbene avesse riletto Sono vissuto, sono morto, Mickie preferiva immaginarsi l’irlandese nella sua casa bassa di Athenry, mentre faceva l’amore con Mary o mentre giocava con Sean, e che mai si sarebbe aspettato di finire su quell’isola, Sarah, nel braccio dei condannati a morte della colonia penitenziaria di Macquarie.
I controlli all’ingresso sono come al Vaticano. Gli agenti dell’ordine perquisiscono minuziosamente ogni tifoso, e alle loro spalle ci sono alcuni ragazzi con il fegato ingrossato e con un auricolare infilato nell’orecchio, pronti a intervenire alla minima irregolarità. 
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I primi a uscire per il riscaldamento sono quelli del Milan. I kopite danno fiato alla rituale selva di fischi e cominciano a identificare da lontano gli avversari, curiosi di vedere quali giocatori getterà Ancelotti nella mischia fin dal primo minuto. Hmm, non butta bene. Ci sono tutti i mostri sacri, non ne manca nessuno. Ecco Ševčenko, Seedorf, l’olandese che si è portato a casa tre coppe di Lega dei Campioni con tre squadre differenti. Ci sono anche Maldini e Nesta, Crespo e Kakà, Pirlo e Cafu, e perfino quel marcantonio di Jaap Stam, con quella sagoma da boia medievale. Già, non sarà un’impresa facile, mormorano tra sé e sé i tifosi del Liverpool, mentre i milanesi si dirigono verso le tribune per salutare la propria tifoseria in preda al loro primo momento di delirio. Dopo qualche minuto, i giocatori si tolgono le tute e rimangono nella divisa bianca scelta per giocare la finale. 
Quando Steven Gerrard fa la sua entrata in campo leggermente di corsa, seguito dagli altri Cormorani, i kopite scattano in piedi come delle molle e scaricano sullo Stadio Olimpico la prima bomba di decibel. Lo stadio resta in piedi nonostante la sensazione che si stia scatenando un terremoto. Alle spalle di Stevie G. entrano in campo in ordine sparso Traoré, Alonso, Riise, Baroš, Finnan, Carragher, Dudek, Hyypiä, García e Kewell. Carlo Ancelotti e Rafael Benítez si stringono la mano e si abbracciano sotto le raffiche dei flash delle decine di fotografi con indosso i giubbotti fosforescenti. Uno degli schermi elettronici dello stadio riproduce in dettaglio la scena. Ma il sorriso dei due allenatori dice una sola cosa: preferirebbero essere più giovani di vent’anni e giocare invece di stare seduti in panchina a mangiarsi le unghie.
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©Humanitas, 2012




A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 7-8, luglio-agosto 2015, anno V)