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«Castelli in Spagna»: la forte testimonianza di Petre Sirin
Amori, illusioni, speranze, drammi e repressione politica dell’élite omosessuale romena degli anni ’50: tutto ciò è stato vissuto e raccontato in prima persona da un testimone d’eccezione, Petre Sirin, nel suo diario Castele în Spania – Cronică de familie, 1949-1959 (Prefazione di Alexandru Lupescu) edito da Humanitas (Bucarest, 2013, 285 pp.).
Nato a Chișinău nel 1926, da padre polacco, di Odessa, e da madre ucraina, di Kiev (si spegnerà a Bran nel 2003), Petre Sirin, professore di cinematografia, autore e regista di film documentari, per le sue origini cosmopolite, aureolate da vicissitudini familiari che sembrano uscite da un libro di avventure, è l’esempio perfetto di quelle personalità che brillano della luce che emanano gli uomini che hanno vissuto intensamente, nonostante tutto, la propria vita. E se a questo si aggiunge il fatto che era omosessuale, e che questo aspetto della sua personalità Petre Sirin non l’ha mai vissuto come una iattura (in questo senso ha avuto dei genitori esemplari), ma al contrario come qualcosa che lo distingueva dagli altri, e che assumeva con fierezza e con un certo snobismo, si ottiene il ritratto di un uomo di cultura di un’elevatezza umana e artistica a tutto tondo. In questo diario, da un lato Petre Sirin riporta la vivace e intima cronaca delle sue amicizie (gli amici che ne compongono la ristretta cerchia sono soprannominati, come se stesso, con fantasiosi e altisonanti titoli iberici, di qui il titolo che gioca in modo sottilmente allusivo alla Spagna, una Spagna immaginifica, appunto quella dei «castelli in aria» in cui rifugiarsi; spicca anche l’amicizia con Roland Barthes, l’allora direttore dell’Istituto francese) e dei suoi amori giovanili, in primo luogo della storia d’amore, poi diventata una profonda amicizia, con il musicista Mihai Rădulescu, arrestato nel 1959 doppiamente imputato in un processo-farsa per attentato contro il buoncostume e per «collusione» con il «sovversivo» gruppo Noica-Pillat, il quale, in un gesto di riscatto e di orgoglio, si toglierà la vita in carcere impiccandosi. Sono toccanti e drammatiche le pagine dedicate a questo tremendo episodio – legato non solo all’amico, ma anche a tutta la montatura politico-giudiziaria del caso –, dal suo arresto, alla riesumazione del corpo nel cimitero di Jilava e alla sua seconda sepoltura al Bellu nella tomba di famiglia (pagine riunite sotto il capitolo dall’eloquente titolo «Anul dur [Epilog]»). Dall’altro, il diario è uno spaccato prezioso dell’ambiente, delle dinamiche e della vita all’interno dell’élite intellettuale gay romena di quello scorcio d’anni, un documento interessantissimo e rivelatore, non unico nel suo genere (ricordiamo solo gli scritti memorialistici – in parte ancora inediti – lasciati dal critico letterario Ion Negoițescu (si legga il suo «scandaloso» Straja dragonilor), altro stretto amico di Petre Sirin, e dallo stesso Mihai Rădulescu, autore delle memorie Jocul cu moartea), ma senza dubbio unico perché aggiunge nuovi tasselli a un quadro che si sta ricomponendo solo da relativamente poco tempo.
Il brano che offriamo in traduzione ripercorre le fasi dell’arresto di Petre Sirin in seguito all’azione su vasta scala del regime atta a far piazza pulita degli intellettuali scomodi, non irreggimentati, e degli oppositori politici, attraverso azioni giustizialiste e «moralizzatrici» da vendere all’opinione pubblica. Petre Sirin dimostra qui tutta la sua tempra e prontezza d’animo, ricorrendo all’arma nonviolenta dello sciopero della fame per protestare, anche solo per se stesso, contro l’abuso subito. Un piccolo eroe del suo tempo.
Frammento da «Castele în Spania»
Le mie prigioni
Quando faccio del bene, non m’interessa di essere io buono, ma di elevare il prestigio dell’uomo agli occhi degli uomini…
Di conseguenza, non sono io quello buono, ma lo è l’uomo, e io sono solo un rappresentante dell’uomo.
Si deve cercare nelle persone quel che di buono c’è in loro, trovarlo e poi dirlo agli altri… Ché sono poche le cose che fanno bene alle persone come il bene che si scopre riguardo ad altre persone.
Ci sono tante cose buone nelle persone che aspettano solo coloro che sappiano discernerle in mezzo a tante cose cattive, che sono le uniche di cui si parla abitualmente…
Discernere le cose buone, formularle e dirle alla gente…
Queste sono state le ultime annotazioni scritte nel quaderno prima di essere arrestato.
Le nove e mezza di sera. Proprio quando mi stavo lavando i capelli in vista della partenza del giorno dopo per la montagna: Ciucaș – non ci ero mai stato prima ed era da parecchio tempo che desideravo andarci…
Avevo già comprato i biglietti del treno: due. Per me e per il mio amico – Don José.
Quel pomeriggio avevo ricevuto una telefonata da qualcuno che avevo conosciuto in modo del tutto fortuito, e mi chiedeva con insistenza un rendez-vous in città. Mi sono rifiutato in modo categorico, invocando la mia partenza prevista per il giorno dopo.
In effetti, come ho capito più tardi, si trattava di un tranello architettato dalla Milizia… Se avessi accettato di andarci, sarei stato arrestato in strada chissà con quale accusa. Sarei semplicemente sparito gettando nella disperazione i miei genitori…
Quindi, alle nove e mezzo di sera, si presentarono due tizi, si identificarono e mi chiesero di seguirli. Erano presenti mio padre, mia madre e Vadim Sargani – un vecchio amico di famiglia. Ion, per fortuna, non era in casa.
Mi concedettero un paio di minuti perché potessi asciugarmi i capelli e vestirmi. Fuori ad aspettarci c’era un’automobile – una jeep, con la quale fui condotto alla Prefettura della Milizia in viale della Vittoria.
Giunti a destinazione, salimmo al quarto piano e mi hanno fecero accomodare in una stanza.
Dopo essere entrati nella questione, uno dei due miliziani che era venuto ad arrestarmi e che era, come sono venuto a sapere più tardi, niente meno che Radu Marin – il capo della squadra della buoncostume, uno zotico sadico e furbo, ma nel fondo un idiota – mi mise davanti un paio di fogli in bianco e uscì, lasciandomi da solo perché scrivessi una dichiarazione…
La buttai giù abbastanza rapidamente, seguendo il principio di Giglio: il faut toujours nier…
Poi, dato che mi annoiavo, mi misi a camminare su e giù per la stanza. Un’ampia finestra, aperta, senza inferriate, dava su un cortile interno. Guardai giù. Ero al quarto piano come la finestra all’istituto [di cinematografia]. Il cortile era di cemento… Senza volerlo, ripensai alla tentazione che ebbi un anno prima, ai tempi di Săucan. Ma poi, dopo averci riflettuto su un po’, mi dissi che non aveva senso. In realtà, ciò che mi trattenne soprattutto è stata, credo, una sorta di curiosità… Fedele al mio doppio segno zodiacale – quello dei Gemelli –, anche questa volta sentii agire dentro di me due personaggi antagonisti: il primo – il protagonista, la vittima, il colpevole; il secondo – lo spettatore avido e curioso di vedere quello che accade.
A ogni modo, avevo dentro un odio e un malcontento per quello che mi stava accadendo – e in che momento? Proprio alla vigilia di una vacanza ben meritata, che desideravo da tanti mesi e che mi veniva vilmente sottratta. Sentivo la necessità, se non proprio di gettarmi dal quarto piano, di fare almeno qualcosa di eclatante, qualcosa che sottolineasse il mio atteggiamento di protesta… Mi scagliai a terra con forza, simulando in modo rumoroso una caduta o uno svenimento. Rimasi così per qualche istante in attesa di una reazione… Ma non successe nulla: nessuno mi aveva sentito… Mi alzai con un senso di imbarazzo e mi sedetti di nuovo alla scrivania, di fronte alla mia dichiarazione. E aspettai.
Radu Marin entrò più volte, forse insieme ad altri. Mi lesse la dichiarazione, sogghignando beffardo. A un certo punto fecero entrare un ragazzo, molto spaventato e con chiari segni di essere stato picchiato, portato lì appositamente perché mi riconoscesse. Io non lo conoscevo. D’altro canto, anche lui rispose negativamente alle domande degli inquirenti.
Dato che mi trovavo nel reparto apposito, percepivo che c’era parecchio movimento nei corridoi. A volte aprivano la porta per fare entrare un’altra persona tratta in arresto, ma, vedendo che c’era già qualcuno dentro, ci rinunciavano e passavano oltre… Di conseguenza, se non bastavano più le stanze per gli interrogatori, significava che era in corso un’azione di proporzioni inusitate.
E in effetti, poi venni a sapere che erano state arrestate più di quaranta persone…
E di nuovo avevo quel sentimento di curiosità, forse marginale, e tuttavia particolarmente pregnante, che mi dominava… Perché, sebbene fossi stato tenuto in quella stanza fino al mattino, il tempo trascorse abbastanza in fretta, impercettibilmente.
La mattina fui condotto negli scantinati della Prefettura perché mi fosse data una sistemazione. Mi ritrovai in una cella piccola, provvista di due brandine pieghevoli di ferro (quindi era pensata per due prigionieri), nella quale si trovavano già una decina di persone, delle quali quattro – i più anziani o i più privilegiati – dormivano due a due per brandina, mentre il resto si era accomodato per terra. A ognuno di noi era stata data una coperta militare ma, dato che era piena estate, non faceva freddo.
La mattina (e la sera) si faceva l’appello. Ci facevano uscire per andare alla toilette e per lavarci, mentre attorno alle undici, ci portavano, per il quarto d’ora d’aria, in un cortile interno simile a un pozzo di cemento armato profondo cinque piani. Io però ne approfittavo per fare la mia ginnastica quotidiana. I pasti – tre volte al giorno.
Al primo pasto, anche se non avevo mangiato da quasi 24 ore, o forse proprio per quel motivo, ma specie a causa della tensione nervosa interna, non avevo per niente fame e rifiutai il cibo… E, d’un tratto, mi balenò un pensiero: il gesto eclatante che mi sentivo necessariamente in obbligo di compiere era lì, alla mia portata: lo sciopero della fame!
Quel giorno rifiutai tutti e tre i pasti, senza alcuno sforzo speciale. E il giorno dopo, conformemente a un ben noto meccanismo biologico, non sentii più la fame. Cosicché, durante tutti e ventidue giorni della mia permanenza in Prefettura, non mangiai niente.
Gli inquirenti però facevano finta di non saperne nulla, sperando probabilmente che avrei ceduto a un certo punto. Solo il nono giorno il piantone fu chiamato in corridoio e interrogato se effettivamente non mangiassi nulla, cosa che lui confermò.
Già durante il terzo giorno, mentre mi trovavo su, al quarto piano, dove si trovava il Reparto della Buoncostume, mi trovai faccia a faccia con Vally. Quindi, anche lui… Ovviamente ci riconoscemmo rallegrandoci.
– Ah, quindi vi conoscete?! esclamò sghignazzando Radu Marin, che ci scortava in ascensore.
– Certo, siamo stati compagni d’università!
Ma in generale, durante quei ventidue giorni in Prefettura non fui tartassato dagli interrogatori. Forse in questa faccenda giocò un suo ruolo la mia situazione ʻeccezionaleʼ per via dello sciopero della fame.
Trascorrevamo le giornate seduti, dato che non ci era permesso di stare sdraiati. Siccome la cella era piccola, ci sedevamo per terra con la schiena appoggiata alla parete, il che ci risultava più comodo, e chiacchieravamo all’infinito: di autobiografie, di cinema, di fatti di ogni sorta… Per precauzione, tenni segreto il motivo del mio arresto, mentre ero assai apprezzato per come sapevo snocciolare all’infinito storie di ogni tipo, dalla mitologia degli Atridi fino alle avventure dei Tre Moschettieri. In questo modo, il tempo passava abbastanza in fretta, tanto più che ero costantemente sostenuto dalla coscienza della mia resistenza interna.
(…)
Al ventiduesimo giorno di permanenza alla Prefettura, mi fecero uscire e, insieme a qualche altro detenuto, fui trasportato al carcere di Văcărești in furgone.
Guardavo la città nel retro del furgone: davanti a me le strade fuggivano ritraendosi spaventate!
Qui, a Văcărești, alla mia curiosità sul piano esistenziale se ne aggiunse un altro, per così dire, di tipo scientifico o estetico: il monastero!
Ero stato trasferito dalla Prefettura per essere ricoverato all’ospedale del grande carcere a causa dello sciopero della fame, del quale, finalmente, avevano preso nota.
Il primario dell’ospedale del penitenziario era un uomo molto dabbene – il dottor Lustgartner, padre di Dan, allievo di Milena Popișteanu e proprietario del monolocale nel quale avrei abitato per un mese, molti anni dopo, a Parigi, insieme a Florino… (Il mondo è davvero piccolo!)
All’ospedale fui ricoverato in una stanza a due letti, e non nella camerata principale, che contava decine di letti. Ovviamente, continuai anche qui lo sciopero della fame. Dopo qualche giorno, il dottor Lustgartner venne a spiegarmi, con i suoi modi amabili e ponderati, che se avessi continuato lo sciopero sarebbe stato costretto a somministrarmi delle perfusioni di nutrienti e che comunque non avrei risolto nulla… (Mi ricordai di Gandhi.)
Infatti, il mio sciopero, che era una forma di protesta, aveva raggiunto il suo scopo e avrebbe marcato l’intero periodo della mia detenzione. Di conseguenza, potevo rinunciare tranquillamente a esso. A ogni modo, era durato 17 giorni. Al diciottesimo ricominciai a mangiare.
Nei giorni seguenti fui trasferito nella camerata grande, dove rimasi in degenza per una settimana. Nel frattempo, uscivo in cortile per stare al sole ed ebbi anche occasione di entrare nella chiesa del monastero di Văcărești come pure nell’elegante cappella dei Mavrocordat. Poi, a 26 giorni circa dall’arresto, fui dimesso e ricondotto in Prefettura. Questa volta fui sistemato in una cella più grande, della capienza di una decina di persone, e tanti eravamo, sicché per dormire c’era posto per tutti sulle 4 o 5 brandine di ferro. Fra i compagni di cella, questa volta si trovavano anche due ʻspagnoliʼ: Petrică R. e Nicu E., che conoscevo di vista. Ovviamente tutti e tre eravamo in incognito.
Ora che ero ʻguaritoʼ, le sedute per le indagini si intensificarono. Logicamente, io continuai a seguire lo stesso principio del il faut toujours nier…
Oltre al ʻmio uomoʼ, colui che mi aveva denunciato, era necessaria almeno un’altra dichiarazione che mi incastrasse. E in effetti me ne presentarono due nelle quali ero tacciato di aver commesso delitto; una di queste era quella fornita da quel Lucian Ryla che mi aveva procurato un biglietto per il film Roma, ore 11… Purtroppo per l’inquirente, erano dichiarazioni cosiddette di fama est, dato che io non ero mai stato insieme con le persone in questione. Nella dichiarazione di Ryla si faceva cenno anche al mio legame con Mihai Rădulescu, nella stessa casa in cui l’avevo conosciuto… Suppongo però che Ryla, essendo sotto inchiesta in rapporto a Mihai, ci fosse sorvolato sopra abbastanza facilmente, sicché Radu Marin non insistette in questa direzione, dato che non gli sembrò degno di nota questo particolare della dichiarazione. Ebbi l’impressione di essere stato interrogato sul conto di Mihai solo di sfuggita… Ringraziai Dio per questo e ovviamente neppure io insistetti…
In un’altra occasione, ebbi la soddisfazione di ridere in faccia a questo scimunito d’un inquirente. Mi aveva informato sprezzante che aveva due dichiarazioni contro di me, senza però farmele vedere. La prima di queste non poteva essere che un bluff, perché, all’infuori di due conversazioni di interesse puramente professionale, il giovane in questione era studente alla sezione di scenografia e non c’era stato nulla tra noi. E la seconda si riferiva a Ion Omescu. Ma riguardo a lui avevo una certezza: avrà avuto il Toledano, come lo soprannominavo io, i suoi difetti, ma ero certo che mai sarebbero riusciti a estorcergli una confessione come questa, neppure se minacciato di morte… E allora mi permisi di ridere in faccia al signor Radu Marin!
Più o meno è questo quello che riuscirono a trovare contro di me. Senza dubbio, però, se gli inquirenti non fossero stati dei bruti scimuniti, avrebbero potuto trovare molte più cose. Ma ero un ʻpeccatore fortunatoʼ, per dirla così…
Grazie alle continue pressioni di mia madre, che aveva conoscenze piuttosto altolocate nella ʻnomenclaturaʼ di quei tempi, la sera della vigilia del 23 agosto, a due mesi esatti dal mio arresto, fui messo in libertà. Assieme a me fu scarcerato anche Nicu E. Facemmo insieme la strada a piedi, da viale della Vittoria fino a Mircea Vodă, inebriandoci della splendida serata estiva… E visto che c’eravamo, approfittai anche per indicargli dove abitavo, non si sa mai…
La spada di Damocle
25 agosto 1955
Sono tornato lunedì sera, all’ora del tramonto. C’era solo Mamma a casa. Prima di arrivare, le ho telefonato.
Papà è fuori Bucarest, al mare. Ci aspettiamo che ritorni uno di questi giorni.
Lentamente, rientro nel ritmo normale della vita, ma al rallentatore però – non voglio farlo in fretta, perché temo di perdere in qualche modo quel che di buono avevo conservato durante gli ultimi mesi stando là, in solitudine…
Voglio stare da solo anche qui, in compagnia unicamente di coloro che mi sono cari e di coloro che a loro volta mi vogliono bene.
Le ultime due sere sono uscito a passeggiare con Mamma. Camminavamo per vie lontane e sconosciute, sparpagliate nella periferia di Bucarest…
C’è tanta pace nella coscienza che ho acquisito e che voglio conservare a tutti i costi, non voglio più gioie – non mi bastano più! Ora voglio la Felicità!
Non ho più incontrato Ion. Se n’è andato di casa il giorno dopo il mio arresto.
Quanto a Don José, il giorno dopo era venuto a prendere il biglietto, ci saremmo dovuti poi incontrare alla stazione. Papà gli raccontò quel che era successo. Si spaventò moltissimo, se ne andò senza più tornare.
(…)
Da Don Pedro de Aragón a Florino de León
Bucarest, 23 settembre 1955
Caro amico,
Non è l’arrivo inatteso della Vostra unica lettera che ci spinge a risponderVi così in fretta, bensì il desiderio di allietarVi con una buona notizia: quella del ritorno dalla schiavitù moresca del nostro caro Navarra. Ieri l’altro, alle ore sei della sera.
Finalmente, tutto fa parte ormai del passato! Quanto al futuro, esso è incerto: la giustizia dei mori non è sempre la migliore. Non importa: godiamoci il presente!
Noi conduciamo il solito stile di vita, buono e laborioso, che ci rende felici, tanto quanto è possibile esserlo. Bisognava realmente pagare lo scotto fino in fondo per avere diritto a tanta felicità. Mai la vita ci è parsa così bella!
Ma più di questo, ci sentiamo magnificamente bene in questo nuovo eremo che abbiamo allestito. Dovete venire a farci visita: è esattamente ciò che i Tedeschi definirebbero come gemütlich…
Per quanto concerne gli altri tipi di gioie, per il momento non si muove nulla. Perché ancora non sappiamo deciderci sul gesto d’amore. Stiamo fin troppo bene così!
Insomma, presto discorreremo in persona su tutto ciò. Vi aspetto,
Vostro Aragón.
(…)
10 ottobre 1955
Siamo di nuovo perseguitati! Comincio a capire di nuovo che cosa significhino i giorni senza gioia…
Citato a giudizio come colpevole davanti al Tribunale…
La vita mi tiene costantemente in scacco. E così sia. Ma per quanto mi riguarda, io continuerò a giocare!
Venez, Messieurs, je paie mes dettes!
(…)
19 novembre 1955
La solitudine è come una palude che mi sta inghiottendo lentamente, lentamente ma inesorabilmente. Un fango vetrigno, trasparente: la gente mi passa accanto, si agita e ride, parla… Io vedo tutto, nulla mi viene nascosto, vedo più di quello che loro sanno di se stessi e della loro vita, ma non posso comunicare con loro! Tutti i rapporti sono interrotti, e la volontà di avvicinarmi a loro – paralizzata e muta nel fango di vetro.
Quando penso al passato, ho l’impressione di essere stato un uomo molto, molto vecchio, i cui parenti, amici, tutti, tutti sono morti uno dopo l’altro, e lui è stato dimenticato e lasciato solo, risparmiato dalla morte.
In casa c’è un silenzio di tomba, solo fuori scende depositandosi sui cornicioni la prima neve che si scioglie però subito… Oh, se questa solitudine esistesse solo attorno a me, non sarebbe non problema, potrei fuggire via da essa! Ma è dentro di me, e devo sopportarla, perché negarla significherebbe negare me stesso.
È inutile! Anche se tutto dovesse finire in meglio per me e mi salvassi, noi non potremmo più ritrovare l’armonia dei tempi andati, perché la felicità è morta dentro di noi.
Sono un uomo giudicato e condannato. (Con sospensione della pena.)
E, se non avrò più un futuro, mi resta almeno il passato.
©Humanitas, 2013
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 12, dicembre 2013, anno III)
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