«Diario 1935-1944»: le provocazioni di Mihail Sebastian Accolto alla sua pubblicazione (1996) dalla critica internazionale come un vero evento letterario e subito tradotto in numerose lingue, il Diario 1935-1944 di Mihail Sebastian custodisce la memoria di un’epoca drammatica e complessa, ma attende ancora chi lo traduca in Italia. Crediamo utile fornire ai nostri lettori un primo approccio a questa importante figura e testimonianza. Note per un profilo biografico Lo scrittore, drammaturgo e saggista romeno Mihail Sebastian, nome d’arte di Iosef Hechter, nasce a Brăila (la stessa città, sulle sponde del Danubio, che diciassette anni prima aveva dato i natali a Nae Ionescu (il filosofo che tanto peso avrà nel futuro di Sebastian), come pure allo scrittore Panait Istrati, l’8 ottobre del 1907 (stesso anno di nascita dell’amico Mircea Eliade) da una famiglia della media borghesia ebrea che per generazioni si è sempre dimostrata leale, in modo attivo e concreto, alla Romania (un loro avo finanziò i rivoluzionari romeni del 1848, mentre il padre lottò al fronte nel 1916 contro l’impero austro-ungarico per l’unificazione del paese). «Diario 1935-1944»* Il Diario di Mihail Sebastian è stato accolto unanimemente alla sua uscita dalla critica romena e straniera come un vero e proprio evento letterario, tanto che, a pochi anni dalla pubblicazione, è stato tradotto in molte lingue (inglese, francese, spagnolo, tedesco, polacco, ceco), raccogliendo premi letterari (in Germania, nel 2006, il libro ha vinto il premio letterario Geschwister-Scholl) e suscitando un vivo dibattito fra storici e critici letterari. Nel 2007, si sono celebrati i cento anni dalla nascita dell’autore, evento che è stato salutato nel mondo da simposi e giornate di studi (in Israele, per esempio, si è tenuta il 24-25 ottobre 2007 presso il Centro di Studi sulla Storia degli Ebrei di Romania dell’Università Ebraica di Gerusalemme un affollatissimo convegno internazionale («Mihail Sebastian: scrittore romeno – scrittore ebreo») cui hanno partecipato critici e studiosi romeni e israeliani). Mercoledì, 27 [novembre, 1935] Venerdì, 25 [settembre 1936] «Vorrei che eliminassimo dalle nostre discussioni ogni allusione politica. Ma è possibile? La strada è in salita per noi, che lo si voglia o no, e riflettendo insieme anche sulle questioni più insignificanti, avverto il solco che sempre di più ci separa l’uno dall’altro. Perderò Mircea per così poco? Posso dimenticare tutto quello che di eccezionale c’è in lui, la sua generosità, la sua forza vitale, la sua umanità, il suo affetto, tutto quello che c’è di giovanile, di infantile, di sincero in lui? Non so. Avverto tra noi silenzi imbarazzanti, che nascondono solo a metà i chiarimenti da cui sfuggiamo, perché probabilmente entrambi li percepiamo, e in me le delusioni si accumulano sempre di più, tra cui non ultima la sua collaborazione (tranquillamente, come se nulla fosse accaduto), con gli antisemiti di “Vremea”. Farò comunque l’impossibile per tenermelo vicino». Martedì, 2 [marzo 1937] «Lunga discussione politica con Mircea, a casa sua. Impossibile da riassumere. È stato lirico, confuso, prodigo di esclamazioni, di battute, di invettive... Da tutto questo estrapolo solo il momento in cui dichiara, finalmente in modo sincero, la sua infatuazione per la Guardia, confidando in lei e aspettandone la vittoria. Giovanni il Terribile, Michele il Bravo, Stefano il Grande, Bălcescu, Eminescu, Hajdeu, tutti sono stati legionari alla loro epoca. Mircea li citava alla rinfusa... D’altronde non potrei affermare che non mi sia divertito. Secondo lui, gli studenti che hanno aggredito a pugnalate Traian Bratu [1], ieri sera a Iași, non sono legionari, bensì... o comunisti o simpatizzanti del Partito Nazional Contadino. Testuale. Per quanto riguarda Gogu Rădulescu (il signor Gogu, così lo chiama ironicamente Mircea), lo studente liberale che è stato frustato con funi intrise d’acqua nella sede dei legionari, ben gli sta. Questo è quel che si meritano i traditori. Lui, Mircea Eliade, non si sarebbe accontentato di così poco, anzi, gli avrebbe cavato gli occhi. Tutti coloro che non sono legionari, tutti coloro che perseguono una politica che non sia quella legionaria sono dei traditori della patria e meritano la stessa sorte. Verrà un tempo in cui forse rileggerò queste parole e non mi parrà vero che esse riassumono quanto detto da Mircea. Per tale ragione è bene sottolineare ancora una volta che ho solo riportato le sue esatte affermazioni. Questo nel caso in cui me le dimentichi. E forse un giorno, quando le cose si saranno placate, potrò leggere a Mircea questa pagina e vederlo arrossire di vergogna. Tanto meno posso dimenticarmi della spiegazione in base alla quale lui aderisce con tanto ardore alla Guardia: Ma nonostante la tensione che aleggia su loro, il forte legame d’amicizia e di solidarietà che lega Mihail Sebastian a Eliade non viene meno nei momenti più drammatici, come dopo il suo rilascio dal carcere di Miercurea-Ciuc, anche se il muro di gomma tra i due sembra non cedere; le considerazioni di Sebastian sono a tal proposito lapidarie nella loro disperazione, la disperazione di vedere un amico travolto dai suoi stessi errori di valutazione, dal suo avventurismo: Lunedì, 25 [settembre 1939] «(…) Nel pomeriggio sono stato a casa di Mircea. La mattina avevo incontrato Nina alla Fondazione, pallida, in lacrime, che si torceva le mani: Mihail Sebastian nel suo per Diario ci dà modo di incrociare anche Eugen Ionescu ed Emil Cioran, che con Eliade formano la più prestigiosa triade dell’élite intellettuale romena della generazione interbellica. Di Cioran ci sono solo alcune annotazioni, poche ma taglienti – in pratica, lo dipinge come un opportunista; ne citiamo le due salienti: «Questa mattina ho incontrato Cioran per strada. Era raggiante. “Sono stato nominato”. È stato nominato come addetto culturale a Parigi. “Capisci”, dice, “se non fossi stato nominato, se fossi rimasto qui, sarei dovuto partire sotto le armi. Proprio oggi ho ricevuto la cartolina precetto. Ma non mi sarei presentato per nessuna ragione. In questo modo, però, tutto è stato risolto. Capisci?” Certo che lo capisco, caro Cioran. Non voglio essere cattivo con lui. (E soprattutto non qui: a che servirebbe?) È un caso interessante. È molto più di un caso: è un uomo singolare, notevolmente intelligente, senza pregiudizi e con una doppia dose di cinismo e di vigliaccheria, comicamente fuse insieme. Avrei voluto, e ne sarebbe valsa pena, annotare le due lunghe conversazioni scambiate con lui in dicembre». «Nonostante abbia preso parte alla rivolta, Cioran mantiene il suo incarico di addetto culturale a Parigi, che gli aveva conferito Sima pochi giorni prima della caduta del governo. Il nuovo regime lo beneficia con un aumento di stipendio! Partirà fra qualche giorno. Eh, questa sì che si chiama rivoluzione!» Di Ionescu, con il quale Sebastian intrattiene rapporti più in sintonia con il suo sentire, il nostro autore ci offre uno squarcio nella sua storia personale, una confessione a lui rivolta in una situazione particolare, eccola: Sabato,10 febbraio [1941] «Sabato mattina Eugen Ionescu, ubriacatosi rapidamente dopo solo qualche cocktail, di punto in bianco si è messo a parlarmi di sua madre. Che fosse ebrea, lo sapevo da un pezzo, per sentito dire, e pertanto era una questione chiusa tra noi due. Stordito dall’alcol, il ragazzo ha iniziato a “spifferare tutto”, con non so quale sollievo, quasi sgravandosi di un peso che lo stesse opprimendo o soffocando. Sì, era ebrea, di Craiova, il marito l’aveva lasciata, da sola, con due bambini piccoli, in Francia; è rimasta ebrea fino a quando, in punto di morte, lui, Eugen, l’ha battezzata con le sue stesse mani. Poi, proseguendo imperterrito, mi ha parlato di tutti quelli che sono “ebrei” senza che lo si sappia: Paul Sterian, Radu Gyr, Ignătescu… Li invocava uno a uno, quasi con fastidio, come se volesse vendicarsi di loro o smarrirsi, inosservato, nella loro vasta congerie. Povero Eugen Ionescu! Quanto travaglio, quanta sofferenza, quanti sotterfugi per una cosa di così poco conto. Avrei desiderato dirgli quanto mi stessi affezionando a lui, ma era troppo ubriaco per fare il sentimentale con lui». Mihail Sebastian coglie altrove il momento di disperazione di un Ionescu sconvolto, colpito anche lui dalle leggi razziali che non concedono sconti neppure a chi si credeva immune dalla demenza razzista, e con il quale Sebastian «solidarizza» con l’amarezza, quasi ironica, di chi sa bene che cosa significhi: Mercoledì, 26 marzo [1941] «(…) Commovente, Eugen Ionescu [è] stato da me di nuovo ieri mattina, disperato, braccato, ossessionato, che non può sopportare l’idea di poter essere sbattuto fuori dall’insegnamento. Un uomo sano come un pesce che scopre di colpo di avere la lebbra può impazzire. Eugen Ionescu scopre che neppure il cognome “Ionescu”, neppure un padre incontestabilmente romeno, neppure il fatto di essere nato cristiano, insomma nulla, nulla, nulla può cancellare la maledizione che nelle sue vene scorra sangue ebreo. Noi, affetti da questa cara lebbra, ci siamo abituati già da tempo. Fino alla rassegnazione e a volte fino a non so quale triste, desolante sentimento di fierezza». In pieno furore nazista, Mihail Sebastian ci testimonia la sua consonanza personale, il suo sentirsi partecipe emozionalmente nei confronti di Eugen Ionescu in questo episodio: Venerdì, 3 ottobre [1941] «(…) Hitler ha parlato questo pomeriggio. Ero con Eugen [Ionescu] e Rodica a Cișmigiu, verso le 6 di sera, proprio nel momento in cui si trasmetteva il discorso. Ci siamo diretti al “Buturugă” (dove c’è un apparecchio radio) e ci siamo seduti a un tavolo. Avrei voluto ascoltarlo, ma dopo due secondi Eugen è scattato in piedi. Era pallido, sbiancato in volto. Il diario di Mihail Sebastian può essere letto perciò come uno straordinario documento storico, vivo, diretto, a volte impressionante per la sua crudezza per il modo in cui coglie e fotografa quel dato avvenimento, restituendocelo in tutta la sua drammaticità: eloquenti sono a tal riguardo, fra tanti altri, i passi che Sebastian dedica al terrificante pogrom di Bucarest del gennaio del 1941 (cui farà seguito in giugno quello altrettanto atroce di Iași), con assassinii efferati, bestiali, che lo lasciano quasi senza parole, inebetito da tanta violenza; eccone i passaggi più sconvolgenti: Mercoledì, 29 gennaio [1941] «Oggi è stato reso noto il numero ufficiale dei morti civili. Un po’ più di trecento. Non si specifica quanti fra legionari ed ebrei. La stima sembra al ribasso. Si continua ancora a parlare di oltre seimila morti ebrei. Forse è impossibile quantificare la cifra con esattezza. E forse non la si saprà mai. Parecchi ebrei sono stati uccisi nella foresta di Băneasa e lì abbandonati – molti di loro denudati. Sembra però che ne sia stato massacrato un altro gruppo nel mattatoio di Străulești. Sia gli uni che gli altri, prima di essere freddati, probabilmente sono stati mutilati in modo orrendo. La famiglia a stento è riuscita a riconoscere il fratello di Jacques Costin all’obitorio. Solo alla testa aveva quattro fori. L’avvocato Beiler era crivellato di colpi e, per giunta, aveva la gola tagliata. Giovedì, 30 gennaio [1941] «Vedo case devastate, negozi ridotti in macerie in strade affatto ebree, fin dove mai avrei creduto che l’ondata del pogrom si sarebbe potuta abbattere nel corso di una sola notte. Per esempio, questa mattina, una misera botteguccia in via Traian, vicino alla fermata del tram: mi ha fatto pensare ancora una volta atterrito a quel che sarebbe potuto accadere mercoledì notte, a casa. Ci sono persone che, come me, hanno passato quella notte lontane dalle proprie famiglie – e il giorno dopo non hanno trovato più nessuno, più niente. Rivedo, rivivo integralmente il terrore di quella notte (…)». Martedì, 4 febbraio [1941] «Non posso né voglio dimenticare gli orrori che abbiamo vissuto. Sto leggendo dalla Storia degli ebrei di Dubnow i capitoli sui grandi pogrom della fine del medioevo. Da alcuni giorni continua a essere la mia unica lettura. Sia che la cifra ufficiale sia vera (circa 300 ebrei assassinati), sia che essa, molto più grande di quanto si mormori (600-1000), corrisponda a quella effettiva, sta di fatto che, o così o diversamente, abbiamo vissuto uno dei più immani pogrom della storia. È vero che ci sono stati momenti, in passato, in cui la carneficina è stata comunque maggiore (durante la prima crociata ne sono stati uccisi 800 a Speyer e 1100 a Magonza – e così moltissimi altri quasi in tutta Europa, nell’anno della peste, Das schwarze Tod, del 1348,) – ma di solito la cifra media dei pogrom abituali risulta assai minore – 50, 80, 100 morti, queste sono le cifre che si incontrano nei martirologi ebraici, e Dubnow dedica a volte lunghi passaggi perfino a eccidi di minori proporzioni, rimasti comunque nella memoria. Oppure di quando viene a sapere della notizia della caduta di Parigi sotto il giogo nazista, un fatto sconvolgente, amaro, una ferita insopportabile: l’immagine della sua Parigi, impressa nella memoria del soggiorno giovanile, ne esce ora brutalizzata, sporcata per sempre: Lunedì, 17 [giugno 1940] «La Francia ha deposto le armi! Ma poi ci sono gli squarci sulle «minuzie» della vita privata: i suoi amori, la sua vita erotica, le sue difficoltà finanziarie, il rapporto con la madre e il fratello maggiore Poldy, che vive in Francia – per il quale teme il peggio durante l’occupazione nazista del Paese –, la trepidazione per la messa in scena delle sue commedie, la passione per la musica classica – con minuziose e puntuali descrizioni di concerti, cui assiste personalmente, e di brani musicali ascoltati alla radio, dai quali emerge tutta la sua sensibilità da melomane –, le gite in montagna trascorse, da solo o in compagnia, a sciare – il suo sport preferito (che troviamo in Jurnal de schi, all’interno del Diario: è una selezione di annotazioni relative agli anni 1937-1938, rimaneggiate da Sebastian, le uniche a essere pubblicate nel 1938 sulla rivista «Lumea românească») –, e poi la vita in caserma, i rapporti con gli amici, le assurde angherie delle leggi razziali, entrate in vigore sotto lo stato nazional-legionario del maresciallo Antonescu, descritte da MS nella loro progressiva assurdità, insomma un affresco dell’esistenza ritratto con ampie pennellate, cariche dei colori dei sentimenti più intensi e palpitanti.
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 9, settembre 2013, anno III) |