«I principi della Corte-Antica» di Mateiu I. Caragiale. Un libro-culto della letteratura romena

Libro-culto per eccellenza della letteratura romena, «esploso» quasi a sorpresa e riportato clamorosamente in auge – anche se da sempre, fin dalla sua pubblicazione, ha goduto di un nutrito stuolo di estimatori (i «mateini») e dell’entusiastica accoglienza della critica letteraria – in seguito al sondaggio sul miglior romanzo romeno del XX secolo, promosso dalla rivista «Observator Cultural» (v. n. 45-46, 47 del 2001), risultando al primo posto sulle centocinquanta opere classificate, Craii de Curtea-Veche di Mateiu I. Caragiale (MIC) è uno scrigno narrativo ricolmo di gemme che rilucono di un profondo splendore letterario, un unicum nella storia letteraria romena che proprio per questa ragione rimane un’opera insuperata e insuperabile. Come tutti i capolavori degni di questo appellativo, la sua lettura non è facile, né immediatamente fruibile per la sua densità stilistica e linguistica, per la fitta rete di rimandi, di evocazioni, di sottili echi nella ragnatela in filigrana che lo scrittore ha intessuto nei quattro capitoli che compongo il romanzo cui lavorò assiduamente a partire dal 1910. In quest’opera ci è magistralmente consegnato il ritratto trasfigurato di un’epoca al crepuscolo, filtrata attraverso la particolarissima visione e sensibilità dello scrittore, una visione su cui egli gioca dando fondo a una scrittura eclettica che serpeggia suadente, che insinua e s‘insinua languida, che elettrizza e invaghisce come una composizione sinfonica di Debussy o di Skrjabin o, forse meglio, di Mahler, la cui musica, che proprio come l’epoca nella quale MIC colloca l’azione, aggruma e proietta i funerei fantasmi da fin de siècle che preludono a imminenti tragedie. Pantazi, Pașadia, Pirgu e come quarto personaggio l’io narrante – dietro cui si cela verosimilmente lo stesso MIC – più un quinto (come propone Matei Călinescu nel suo saggio [1]), il «sodomita», il «pederasta» Poponel – dallo pseudonimo non a caso di una pruderie simpaticamente/malignamente evocativa, che appare in un veloce ma sapido «cammeo» nel secondo capitolo, figura antesignana e in qualche modo «sdoganatrice» dell’omosessualità nella prosa romena – compongono un quadro umano dalle mille sfaccettature e dalle mille implicazioni psicologiche ed esistenziali, offrendo i ritratti di se stessi, di uomini colti nel loro disfacimento o nella loro ultima stagione, rappresentanti prossimi all’estinzione, come ipertrofici dinosauri, di un ambiente e di un periodo nostalgico e decadente, sopravvissuti a se stessi e quindi irrimediabilmente datati.

Craii de Curtea Veche è un’opera che stranamente non è mai entrata negli interessi della schiera di traduttori italiani che tanto si erano prodigati invece a volgere in italiano un buon numero delle opere classiche del magico periodo interbellico (si veda, per farsene un’idea, il database «Scrittori romeni in italiano» sul sito di «Orizzonti Culturali»). La traduzione italiana (I crai della Vecchia Corte) è giunta molto tardi ed è stata pubblicata, con testo originale a fronte – abbinata alla novella Remember (1921) – non in Italia bensì in Romania dall’editrice Minerva nel 1980, e non a opera di un italiano bensì di un romeno, Florian Potra, coadiuvato, come recita la «Nota del Traduttore», da Bruno Arcurio, ex direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Bucarest, cui viene rivolto un vivo ringraziamento «per la sua utilissima collaborazione alla revisione del testo italiano e per la squisitezza dei suoi consigli». La reticenza ad affrontare un’opera complessa come Craii è confermata anche dal fatto che le altre sue traduzioni in lingua si contano sulla punta delle dita e sono o relativamente recenti, come quella in francese uscita dalla penna di Claude B. Levenson (Les seigneurs du Vieux-Castel, Remember, Losanna, L’Âge d’Homme, 1969) e in ungherese di L. Szenczi, Aranyifjak alkonya, Budapest, Európa Könyvkiadó, 1966) o  recentissime, come quella in spagnolo proposta da Rafael Pisot e Cristina Sava, Los depravados príncipes de la Vieja Corte, Valencia, El Nadir, 2008) e quella prevista in portoghese dalle edizioni Teodolito di Lisbona.
In ordine cronologico, la traduzione che qui proponiamo del primo capitolo di Craii è quindi l’ultima in lingua straniera e la prima in assoluto per l’Italia ed è significativo che in questa occasione sia proprio «Orizzonti Culturali» – la sede più idonea per il suo duplice carattere culturale – ad accogliere questo secondo tentativo, offrendo in tal modo al pubblico italiano, anche se parzialmente, il capolavoro di MIC.

[1] Matei Călinescu, Mateiu I. Caragiale: recitiri, Biblioteca Apostrof-Polirom, Cluj-Napoca-Iași 2003, 2007.         


Da «I principi della Corte-Antica» (Craii de Curtea-Veche)

Que voulez-vous, nous sommes
ici aux portes d’Orient, où tout est pris
à la légère…
Raymond Poincaré

(I)
L’accoglienza ai dissoluti

… au tapis-franc nous étions réunis.
L.Protat

Quantunque già il giorno prima mi fossi ripromesso di rincasare presto, proprio allora tornai ancor più tardi: il giorno dopo, verso il meriggio.
La notte mi trattenne sotto le lenzuola. Avevo perso la cognizione del tempo. Avrei continuato a dormire, profondamente, se non fosse intervenuto il fastidioso recapito di una lettera di cui era imprescindibile ne vergassi l’avvenuto ritiro. Scosso dal sonno, reagisco intontito, imbronciato, stizzito. Mi rifiutai. Mormorai solo di essere lasciato in pace.
Mi assopii di nuovo, ma per poco tempo. Quella dannata epistola ricomparve, seguita dalla crudele luce di un lume. Quel tanghero del portalettere non aveva trovato miglior soluzione che apporre la mia firma di suo pugno. Non gliene fui riconoscente.       
Detesto le lettere. Non mi sovviene, dacché sono al mondo, me ne sia mai stata recapitata una che contenesse una buona notizia, fatta eccezione per quella giunta dal mio buon amico Uhry. Ho terrore delle lettere. All’epoca le bruciavo senza neppure aprirle.
Questa era la sorte che sarebbe toccata anche a quell’ultima. Essendomi familiare la calligrafia, già ne avevo intuito il contenuto. Conoscevo a memoria l’indigesta pietanza di consigli e di rimbrotti che mi era propinata quasi a ogni principio di mese; consigli con i quali mi s’invitava a perseverare con maschia risolutezza sul cammino del lavoro; i rimbrotti perché non condiscendevo invece a perseverare. E, in coda, l’immancabile benedizione che Iddio mi tenesse sotto la sua santa protezione. Amen!
D’altro canto, nello stato nel quale mi trovavo, mi sarebbe stato impossibile imboccare qualsivoglia cammino. Neppure a letto riuscivo più a cambiare di posizione. Rotto nelle giunture, con le reni spezzate, avevo come l’impressione di essermi ridotto a una poltiglia. Nella mia mente offuscata balenò il timore di essere stato colpito da un attacco di apoplessia.         
Non era così, ma a lungo andare tutto ciò mi sopraffece. Da un mese a quella parte, alla chetichella e a perdifiato, con illusione e convincimento, mi ero dato al bere, al libertinaggio, al gioco. Negli anni che precedettero, ero stato duramente provato dagli eventi; la mia piccola chiatta era stata sferzata da potenti marosi. Mi ero difeso malamente e, nauseato da tutto oltre ogni limite, avevo risolto di trovare l’oblio rifugiandomi in un’esistenza di eccessi.
Solo che mi ero lasciato un po’ troppo andare e ben presto mi vidi costretto a deporre le armi. Le forze mi stavano abbandonando. Quella sera ero in un tale stato di prostrazione che avrei creduto che non mi sarei più potuto rialzare neppure se la casa fosse stata avvolta dalle fiamme. Ma d’un tratto mi ritrovai in mezzo alla stanza, in piedi, guardando sgomento la pendola. Mi ricordai che ero stato invitato a cena da Pantazi.
Che fortuna essermi destato, che gran fortuna! Gettai lo sguardo quindi con riconoscenza alla lettera paterna; senza di essa avrei rischiato di mancare all’appuntamento del mio carissimo amico.
Mi vestii e uscii. L’inverno era alle porte e il tempo fuori era di quelli che inducevano alle lacrime. Sebbene non avesse piovuto, tutto era bagnato: le grondaie penavano di gocciole, i rami degli alberi già spogli trasudavano; sui tronchi e sulle inferriate colavano, come sudore freddo, grosse stille. Questo era il clima che più di ogni altro propiziava a darsi al bere; i rari passanti che si stagliavano nella nebbia, erano pressoché tutti sbronzi. Uno spilungone, che stava scendendo dalla veranda di un’osteria, ruzzolò per terra senza più rialzarsi.
Disgustato, mi voltai dall’altra parte. Poiché la taverna prescelta per quella sera era in via Covaci, presi un cocchio, saggia decisione, giacché, al mio arrivo, gli altri convitati erano già alla seconda acquavite, mentre l’anfitrione alla terza.
Mi sorpresi nel constatare che tutti fossero convenuti così presto; Pantazi tuttavia mi spiegò che egli era giunto direttamente da casa, mentre Pașadia assieme a Pirgu direttamente dal «club», essendo le condizioni atmosferiche assai inclementi per indugiare  con gli aperitivi.    
Pantazi ordinò un altro giro di acquavite. Ma il buon umore cui brindammo, facendo tintinnare i bicchieri, latitava al completo. Temetti di riassopirmi. Nella sala nella quale era andata accendendosi la grossolana festa di bottegai – era un sabato – il nostro tavolo sembrava un banchetto funebre.
Il borș servito con panna e peperoncino verde fu sorbito in totale silenzio. Nessuno dei commensali sollevò gli occhi dal piatto. Pirgu, in special modo, sembrava sprofondato nell’uggia più cupa. Avrei dato io il la se l’orchestrina tzigana non avesse intonato un valzer che era una delle debolezze di Pantazi, un valzer sommesso, voluttuoso e triste, quasi funereo. Nel suo molle cullare palpitava, nostalgico e tenebroso senza fine, un tormento talmente straziante tanto che il medesimo piacere di ascoltarlo era frammisto a sofferenza. Non appena le corde dei violini alla sordina attaccarono dondolanti quell’amara confessione, per effetto del profondo incantesimo sprigionato dalla melodia l’intera sala ammutolì. Sempre più diafana, più soffusa, più lenta, come a voler confessare affetti e delusioni, turbamenti e dolori, rimorsi e pentimenti, la musica, sommersa nella nostalgia, si allontanava, si spengeva, sospirando fino all’ultimo, smarrito, un vano e purtroppo tardivo richiamo.
Pantazi si asciugò gli occhi.
– Ah!, disse Pirgu rivolto a Pașadia, in tono sdolcinato e atteggiando un’espressione languida, Ah! Quanto desidererei con questo valzer accompagnarti, quanto prima, all’ultima dimora; mi sa che non dovrò attendere ancora per molto perché questa festa della mia giovane età abbia luogo. Come sarà bello! Io, ubriaco, in compagnia dell’amico Pantazi, strapperò calde lacrime all’addolorato consesso, rendendo l’estremo addio, con un commovente discorso, al mio imperituro, indimenticabile amico.
Pașadia non profferì parola.
– Già, proseguì Pirgu, caricando di maggior svenevolezza il tono di voce e l’espressione del volto, Sarà bellissimo! Sarò io a portare su un cuscino le tue decorazioni. E, al settimo anno, per il gran banchetto di suffragio, al riesumarti, scommetto che ti troveranno tutto azzimato, tutto impettito, tutto agghindato, senza un capello bianco, quasi ti fossi conservato nell’argento vivo e nell’alcol, come un bel peperone in salamoia.                                
Ma Pașadia non gli badava, con la mente stava vagando altrove. Questa volta Pirgu aveva colmato troppo il sacco e fremevo di stizza poiché non lo potevo soffrire.
In gioventù, conducendo a Bucarest una vita autonoma e in solitudine, evitai di entrare nel giro di chicchessia, sicché nel ristretto circolo delle mie conoscenze, vagliate tutte con oculatezza, Gorică Pirgu non ne avrebbe mai fatto parte, se non fosse stato il compare inseparabile di Pașadia, per il quale nutrivo una devozione smisurata.
Pașadia era un portento. Una fortuita combinazione di circostanze l’aveva dotato di una delle caratteristiche più salienti di cui la mente umana possa disporre. Ho conosciuto da vicino buona parte di coloro che vengono ritenuti delle celebrità nazionali; tuttavia fra pochissimi di costoro ho visto congiunte, in sì meraviglioso equilibrio, tali e tante eccelse qualità come in quest’uomo trattato iniquamente il quale, per suo volere o per vitale necessità, si era predestinato da solo all’oblio. E non ne conosco uno pari che avesse fatto suscitare tanta cieca inimicizia contro di lui.
Avevo udito che ciò si dovesse in parte al suo aspetto. Ma che capo superbo aveva! In lui covava un che d’inquietante, tanta era la passione irrefrenabile, tanta era l’aspra alterigia e la spietata animosità che si palesavano nei tratti del suo mesto viso, nelle sfibrate increspature delle sue labbra, nelle sue possenti narici, in quel suo sguardo rabbuiato fra le cascanti palpebre. E in quel che diceva, con voce strascicata e sorda, si coglieva, con amarezza, un profondo senso di ripugnanza.
La sua vita, del cui passato raro era che gli accadesse di svelare qualcosa, era stata una serrata lotta iniziata precocemente. Discendente da illustre e agiato lignaggio, ebbe una vita tribolata fin dalla nascita, allevato da mani straniere, indi segregato all’estero per seguire gli studi. Tornato in patria, si vide depredato dai suoi, messo da parte, assillato, perseguitato e tradito da tutti. Che cosa non si era tramato contro di lui… Con quanta palese ingiustizia era stato accolto il suo operato, l’impegno profuso giorno e notte nella sua gioventù votata al sacrificio, come si accordarono tutti a ridurlo al silenzio! Dai difficili tentativi di ogni sorta provati in tanti anni di ristrettezze, che avrebbero sfiancato un ciclope, questa creatura di ferro ne uscì doppiamente temprata. Pașadia non era un uomo che si rassegnasse facilmente; la fiducia in se stesso e il sangue freddo non lo abbandonarono neppure nei momenti più bui. Risoluto a perseguire il suo scopo, egli infranse l’avversità delle circostanze, facendola girare con abilità a suo favore. Nessuno come lui seppe attendere e perseverare; con ostinatezza egli attese al varco la sorte, l’agguantò e la piegò al suo volere affinché le potesse strappare ciò che, in modo naturale, gli sarebbe spettato di diritto fin dal principio senza tribolazioni e patimenti. Una volta giunto al traguardo, si spinse oltre, affrontò tutti di petto, li sbalordì e, spietato castigamatti ma in guanti di velluto, appagò ogni suo capriccio. La via delle alte cariche gli si spalancava ampia e senza ostacoli, tuttavia, ora che poteva aspirare a tutto, vi rinunciò e si ritirò. Supponevo che a fondamento di quella strana decisione ci fosse stato, in qualche misura, anche il timore di se stesso, poiché, sotto quella glaciale apparenza, Pașadia celava un temperamento emotivo, intricato, tenebroso che, pur con tutta la padronanza di sé, si tradiva sovente in scatti di cinismo. Con il veleno addensatosi nel suo cuore di pietra, il potere l’avrebbe trasformato ben presto in una persona pericolosa. E in lui non vi era fiducia alcuna nella virtù, nell’onestà, nel bene, né alcuna pietà o acquiescenza verso le debolezze umane delle quali egli mostrava di essere del tutto estraneo.
Il suo ritiro dalla politica aveva tuttavia sorpreso in misura minore rispetto al cambiamento che intervenne nel suo stile di vita. In un’età nella quale in altri si fa largo il pentimento, egli, che sempre si era erto a modello vivente di sobrietà, di colpo si gettò a capofitto nelle sfrenatezze. Era ciò manifestazione di una vita che aveva condotto fino a quel momento tenendola nascosta, oppure il ripristino di antichi vezzi dai quali il desiderio di successo lo fece disaffezionare per tanti anni di seguito? Ché naturalmente non  era che siffatto mutamento avesse avuto luogo dall’oggi al domani. Come, non lo so, ma raramente mi è stato dato di vedere un giocatore così eccelso, un dissoluto così incapricciato, un bevitore così incontinente pari a lui. Ma è lecito forse dire che fosse decaduto? In nessun modo. Di un’eleganza sobria, pieno di dignità nel portamento e nel parlare, egli era rimasto un occidentale e un uomo di mondo fino alla punta dei capelli. A presiedere un solenne Consesso o un’Accademia, chi altri più adatto di lui si sarebbe potuto trovare? Chi non l’avesse conosciuto, vedendolo passare di sera, quando usciva, rigido e grave, con la carrozza al passo al suo seguito, per nulla al mondo avrebbe potuto credere in quali sozzure e in quali infimi luoghi andasse a sprofondare quell’imponente signore fin sul far del giorno. Per me, lo spettacolo di quella vita possedeva un che di commovente, in essa intuivo che si consumasse un oscuro dramma dell’anima il cui mistero rimaneva impenetrabile.
Qualora, nel tentativo di rievocare per esteso i tratti di questa nobile figura, mi fossi dilungato un po’ troppo, è perché non ho voluto sottrarmi al privilegio di farlo rivivere davanti ai miei occhi, poiché caro mi è il suo ricordo. Diversamente dal frequentatore di alcove notturne del traviamento bucarestino, in Pașadia io invece conobbi tutt’altro uomo. E quest’uomo però avevo modo di incontrarlo altrove. A pochi passi da corso Mogoșoaia, in una viuzza appartata, all’ombra di un vecchio giardino sfiorito, si ergeva, schiva e cupa, un’antica magione. Ero uno dei rari privilegiati che potevano varcare la soglia di quella sontuosa dimora, nella quale, fin negli angoli più reconditi, si riverberava, severo, lo spirito del suo padrone.
Lo trovavo nel suo studio, luogo di quiete e di raccoglimento, nel quale nulla penetrava dal mondo esterno. In quella stanza, tappezzata di panno color esca e cinta tutt’intorno da armadi sagomati di ferro incassati nelle pareti, con le finestre velate da tendaggi tante furono le ore memorabili durante le quali venivo intrattenuto, immobile su una poltrona, dalla conversazione dell’anfitrione. Succosa e avvincente, posata e ingegnosa, senza cedimenti, né divagazioni o eccessi, essa ti avvolgeva stretto nelle sue magiche spire, conturbante, rapinosa, affascinante. Pașadia era inoltre un maestro nel maneggiare il pennello e in gioventù fu provetto pittore. Era strabiliante la quantità di libri che aveva divorato. Conosceva la storia come nessun altro, che affinò in lui la dote innata di giudicare senza ingannare le persone, di molte delle quali, all’epoca in piena ascesa, egli aveva previsto, imminente, il triste declino e non posso non dimenticare come profferendo quelle parole funeste i suoi occhi rilucessero sinistri. Pașadia Măgureanu! Considerai quale un dono della Provvidenza la simpatia che egli nutriva nei miei confronti ed è motivo d’orgoglio per me essere discepolo di questo grand’uomo indomito,  e così stoico, del quale fra tutte le mende che la gente ravvisava in lui, concordavo nel riconoscerne in lui solo una, quella sì imperdonabile: l’amicizia con Gorică.
Gore Pirgu era un farabutto insuperabile e senza eguali. Le sue stucchevoli buffonerie da guitto spudorato gli valsero la fama di essere un tipo sveglio, alla quale si aggiunse – il perché non si sa – anche quella di bravo ragazzo, anche se bravo lo era solo nel commettere le sue malefatte. Questo malandrino aveva un animo sadico e corruttore. Traviato da piccolo fin nelle midolla, abile giocatore di aliosso e di testa e croce, idolo delle servette, frequentatore di tutti i ruffiani e i bari, era stato il beniamino del caffè «Cazes» e il cherubino delle case d’appuntamenti. Provai disgusto nel dipanare più minuziosamente la matassa di questo individuo sterile e triste che provava un’insana attrazione per tutto ciò che era sudicio e putrido. Pirgu aveva nel sangue la brama di dissolutezza zingaresca del nostro passato, con le trescherelle di periferia, le gozzoviglie nei monasteri, le canzoni sboccate, le sconcezze e le oscenità; e il gioco alle carte che era il suo unico mestiere e certe malattie nefande che lo avevano sfibrato prematuramente: queste erano le uniche cose sulle quali egli sapesse conversare, condite da tutto il repertorio di spiritosaggini che mandavano in estasi coloro che apprezzavano la sua imbecillità. E tuttavia Pașadia aveva trovato questi e non altri per stringerselo d’amicizia, il quale d’altro canto lo disprezzava apertamente, denigrandolo e umiliandolo senza pietà ogni qual volta ne sorgesse l’occasione.
– Senti, ti prego, mi disse, non permettere al tuo vicino che si suicidi; eccolo, si sta ficcando il coltello in bocca.
In effetti, tutto scrupoloso, Gorică armeggiava col coltello nello storione bollito, intingeva il boccone nella maionese e s’infilava in bocca il tutto, compreso il coltello. Feci finta di non vedere, di non sentire. Pantazi si piegò per cercare qualcosa sotto il tavolo.
– Secondo i suoi precetti, continuò Pașadia, il codice delle elementari buone maniere dice che con le verdure e con il pesce non si deve usare il coltello, né la forchetta con il formaggio, e in nessun caso si porta il coltello alla bocca. Ma è inutile dire che ciò vale nel caso delle persone raffinate, dei figli di boiardi, e non dei villani, della ciurmaglia. Sarebbe come far bere ai maiali l’acqua da una botticella!
Per Pirgu, che si reputava un esperto insuperabile delle usanze del bel mondo, quello non poteva essere affronto più umiliante. Tuttavia si ricompose subito, replicando arrogante a Pașadia che gliele avrebbe date di santa ragione.
– Non mi seccare con siffatte inezie, lo minacciò, altrimenti cambio registro. La vecchiaia ti sta dando al cervello…
Per ristabilire la calma, Pantazi propose di stappare lo champagne che, secondo la consuetudine invalsa nei nostri desinari, fu servito in ampi calici. Pirgu permise che gliene mescessero appena un dito, che colmò quasi interamente con dell’acqua frizzante. Dei quattro era l’unico non dedito all’alcol, si poteva anzi affermare che più che bere si gonfiasse di spritz al sifone, uno dal colore azzurrognolo. Raramente tuttavia gli accadeva di essere sobrio il mattino e quando si sbronzava, si esibiva in ogni sorta di pagliacciate, concluse le quali, avesse avuto un briciolo d’onorabilità, si sarebbe dovuto vergognare di tornare a mostrarsi in pubblico.
Brindando all’unisono alla salute di Pantazi, il nostro amato anfitrione, sorbimmo deliziati la vivificante bevanda. Pirgu se ne inumidì appena le labbra, facendo una smorfia.
– Lo champagne senza la compagnia delle donne, mugugnò, è come sprecato.
Le donne però, in modo categorico, erano state bandite per sempre dai nostri desinari. Tutti i tentativi di Gorică di permettergli di invitare delle amiche si erano rivelati vani. Pantazi avrebbe assentito con gioia, ma Pașadia era rimasto inflessibile. Ci limitavamo perciò a gettare furtivi sguardi da micioni alle signore dei tavoli accanto, le quali, assai di frequente, ci rispondevano anch’esse con maliziose occhiate.
Con il suo sguardo torvo e cupo, Pașadia spogliava un’ebrea bella formosa, seduta di fronte a lui, un poco più in là. Mi associai anch’io a questa cristiana impresa, sapendo che non avrei infastidito affatto il mio grande amico. Coscia della sua conturbante bellezza orientale all’apice del suo fulgore, di carnagione chiara e lieve come un volto di cera sul quale gli occhi di velluto ardevano come gelide fiamme fra le ciglia di seta, lei rimaneva statica, indifferente, nella sconfinata superbia del popolo eletto, così come le sue ave erano state trascinate e denudate ai mercati degli schiavi o sottoposte, più tardi, ai supplizi di Torquemada. Stando con le gambe accavallate, teneva la gonna alzata fin sopra le ginocchia, lasciando scorgere, pallide, attraverso le trasparenze delle calze nere, cosce impeccabilmente tornite. Quando decise di coprirle, lo fece senza fretta e senza arrossire. Pirgu insisteva senza pudore con una bottegaia dal viso acceso sotto il belletto, dalle forme generose e tutta agghindata. Sorridendole malizioso, con gli occhi socchiusi, lui sollevò il calice, ne centellinò il contenuto con soavità, passandosi poi lascivo la lingua sulle labbra. Solo Pantazi non guardava nessuno. Trasognato come sempre, il suo sguardo era smarrito altrove, mansueto e triste. Con un cenno ordinò dell’altro champagne.
Ma Pirgu si stava spingendo oltre. Usando il calice vuoto a mo’ di binocolo, con l’altra mano mandava bacini sensuali alla bottegaia che si torceva dalle risa. Pașadia lo consigliò di contenersi altrimenti sarebbe finito nei pasticci.
– Ti parrebbe opportuno, domandò, vederti sollevato di peso e scaraventato fuori?
Pirgu lo guardò con sprezzante compassione.
– Credi, forse, che io sia come te, che mi si possa sbattere fuori su due piedi, come un vagabondo, un perdigiorno? Chi non mi conosce qui o altrove, chi non mi vuole bene, dove non mi sento io a mio agio?
Per corroborare le sue parole, si alzò e si avvicinò al tavolo della signora alla quale baciò la mano, sussurrandole qualcosa all’orecchio; fece un giro anche fra gli altri tavoli, indugiando più a lungo presso quello della fascinosa ebrea.
– Rașelica mi ha domandato, ci disse al ritorno, come sia possibile che un uomo come me così distinto, figlio di boiardo, possa unirsi a individui tanto ordinari? Era costernata. L’ho pregata di non badarci; uno, le ho detto, è un povero vecchiaccio decaduto, un tempo era una gran cervello, ma oggi un rammollito; l’altro un pivello.
Pașadia incassò e tacque. Ne seguii l’esempio. Non poca fu la mia sorpresa nello scoprire quante persone conoscesse Pirgu.
Gente di ogni sorta e risma, in gran quantità, praticamente tutti. Chi infatti non gli era noto, laddove non aveva messo piede? Nelle impenetrabili case della borghesia mercantesca pavida e impaurita, nell’inespugnabile fortezza della schiatta giudea immersa nell’abbondanza, nei dimessi covi della rognosa plebe, ovunque, Gorică era accolto a braccia aperte, sebbene non sempre dall’ingresso principale. Si resta sconcertati come non infondesse in nessun luogo ripugnanza e timore, come se nessuno volesse vedere che, in quell’infima carogna che strisciava adulante e beffarda, l’astio teneva desta, aizzandola senza tregua contro tutti, una belva immonda e invasata, accanita nel seminare discordia, nel ferire, nell’infliggere del male, che pareva essere al soldo del destino come strumento di decomposizione e di sfacelo. D’altronde questi si peritava di farsi vanto della propria ignominia, boriandosi delle proprie imprese per le quali la legge contemplerebbe il carcere o il manicomio.     
Ancora scolaro, portava gli amici a frequentare donne degeneri. Per siffatte cose era avvantaggiato da una diabolica e fervida immaginazione. Di fomentare la depravazione, cui si era dato anima e corpo, ne fece una missione. Esperto nelle tresche e nei maneggi, era stato l’artefice della rovina di svariati figli di papà e della degenerazione di non poche donne; grazie a lui, nomi noti furono macchiati dal disonore. Raro era l’evento canagliesco nel quale egli non fosse stato coinvolto, e sovente solo per la crudele e insaziabile brama di farsi beffa degli altri, per la qual cosa non si tirava indietro per nulla al mondo: spiare, diffamare, spettegolare, seminare zizzania, fare da delatore, minacciare di spargere ai quattro venti un segreto confidato o estorto, missive anonime: tutto gli sembrava ugualmente valido, a seconda della bisogna. Sorgeva una domanda: che cos’altro avrebbe dovuto fare Gore Pirgu per passare per un cattivo ragazzo?
Lusingato che gli avessi tessuto le lodi, non fu necessario pregarlo due volte affinché mi rivelasse l’ultima peripezia della signora Mursă. Fu tuttavia interrotto dal commiato di Rașelica. Con passi sinuosi, si diresse verso il nostro tavolo per prendere il cappotto appeso all’appendiabiti lì vicino. Pirgu scattò in piedi per aiutarla. Rașelica era quanto di più splendido e meravigliosamente acconcio vi potesse essere; la sua vivida somiglianza con un fiore – un fiore nero tropicale, grondante di veleno e di miele – era originata involontariamente dalla calda fragranza che spargeva, inebriante di passione, a ogni suo movimento. Vista da vicino, però, senza che la sua bellezza nulla perdesse del suo sfolgorante aspetto, pareva possedere un che di ripugnante, in lei si percepiva, più che in molte altre donne, Eva, l’estranea, la nemica implacabile ed eterna, elargitrice di tentazioni e di morte. Il suo sguardo sereno, gettato lì, all’angolo dove eravamo seduti noi, s’accese di un severo scintillio al cozzare contro quello di Pașadia.
La seguiva un tale, un giovinotto incurvato e alquanto svigorito, dagli occhi cerchiati e vitrei e dalle guance accese da un rossore malaticcio. Una tosse secca lo perseguitava senza sosta. Il sorriso con il quale si accomiatò da Pirgu pareva esprimere la tristezza di un addio per sempre.
– È Mișu, ci disse Pirgu sottovoce. È con un piede nella fossa, ci sta lasciando. Ha assestato il colpo di grazia anche su di lui: e son già due in tre anni, senza tener conto di quelli che avrà strapazzato a destra e a manca. Buon pro gli sia, formidabile femmina, parola d’onore!
E rivolto a Pașadia: Ehi, pure a te non dispiacerebbe buttarti, credi che ne saresti all’altezza? Parla, su, affinché io lo sappia per farti da paraninfo, lo farei addirittura volentieri.      
Invece di rispondergli, Pașadia svuotò il calice fino all’ultima goccia.
– Ossia, perché tanta titubanza? insistette Pirgu, ché tanto sei prossimo al miserere. Non è noto a tutti forse che da tempo ormai fai affidamento a vari elisir di lunga vita? Ti vedi già la stola sui piedi, cerca quindi di appressarti alla dipartita per lo meno felice…    
Nel frattempo, in tutta la taverna si era sollevata una viva agitazione. Molti si alzarono dai tavoli, precipitandosi verso l’uscita. Si udivano delle sirene, stavano transitando i pompieri. Il cameriere che ci aveva servito ci disse che non era nulla di serio: aveva preso fuoco il comignolo di una casa vicino alla chiesa dell’Antica Corte, ma l’incendio fu domato prima ancora che giungessero le pompe dell’acqua. Alcuni dei commensali erano padroni o locatari delle case in quei paraggi e tutti ebbero un balzo al pensiero che le fiamme ne avrebbero potuto lambire gli immobili, particolarmente minacciose in quelle stradine, nelle quali gli edifici erano addossati gli uni agli altri.
La discussione cominciò a girare attorno all’Antica Corte della quale, se non fosse priva della chiesa con il campanile verde che ne porta il nome, si sarebbe perso perfino il ricordo. Forte della competenza che gli era riconosciuta, Pașadia iniziò a enumerare tutto quello che si conosceva riguardo a quelle dimore appartenute agli antichi prìncipi. Nulla di strabiliante all’apparenza. Come l’intero borgo, la Corte era stata incendiata e riedificata numerose volte e doveva coprire una vasta area, della quale erano rimaste alcune vestigia nelle fondamenta a volta di cui si trovava traccia ovunque in quegli spazi di periferia, per esempio al di sotto della taverna nella quale ci trovavamo noi. Che aspetto avesse è facilmente immaginabile: assomigliava in gran misura ai monasteri, dotato di parecchi stabili in modo da albergare l’intera marmaglia di corte e di zingari, edificata senza criterio, né stile, con rattoppature, abborracciamenti e raffazzonature, degna solo di fare da sfondo, per la sua laidezza, all’abiezione di una masnada regnante, tralignata a profusione con sangue zingaro, nella quale confluivano tutte le canaglie giunte d’oltre confine.
Gli domandai se è nell’incostanza dei prìncipi e nel timore delle invasioni che deve essere ricercata la ragione per la quale da noi non si edificò con la magnificenza e la solidità degli Occidentali. Il nobile piacere di costruire non fece difetto in alcuni dei nostri voivoda; Brâncoveanu un tempo aveva fatto erigere sui suoi vasti possedimenti ricche corti. Mi rispose di no; l’amore per il bello è uno dei privilegi dei popoli di alto lignaggio e fra questi non si poteva certo annoverare il nostro il quale non ha dato nulla alla civiltà. Se la prese poi con Brâncoveanu e, strappatigli il berretto principesco, la cuffia di principe del Sacro Impero, la corona di conte magiaro e la collana dell’ordine di Sant’Andrea, a rapide pennellate ce lo raffigurò come un bulibașa astuto, delatore e servile – l’indole insomma di uno schiavo. Che fosse stato contagiato anch’egli dai fremiti di edificare, di scavare e di abbellire che colsero i potenti del suo tempo corrisponde al vero, ma di codesta sciagurata figura dalle vaste ricchezze, che regnò allorquando il tumultuoso fiorire del barocco era all’apice, che è rimasto? Che cosa lasciò dopo di sé: le colonne del monastero di Hurez, il loggione del palazzo di Mogoșoaia, il complesso di  Potlogi, e poi?... E di siffatti scarsi e modesti rimasugli osiamo ancora farci vanto? Dovrebbero cessare una volta per tutte queste storie che ci sono solo cagione di   grandissimo imbarazzo!
Questa sua sortita non ci sorprese. Quando Pașadia osservava e giudicava con inflessibile asprezza tutto ciò che era romeno, sconfinava spesso con livore nella malafede. L’astio che covava non sopito dentro di sé cresceva rigoglioso e turbinava allora senza freni, straripante, avvampandolo come un tizzone, travolgendolo come l’impeto di un maroso. Non potendosi d’altro canto negargli la sua parte di ragione, trovai superfluo intervenire per ergermi a difesa di quel passato, al cui culto il mio pennello era debitore di una splendida iconostasi cui avevo lavorato minuziosamente in gioventù con uno zelo che rasentava la devozione. Non ce ne fu bisogno, poiché Pașadia, spontaneamente, rettificò in qualche modo la sua drastica opinione.
– È strano comunque, confessò, per quanto dal punto di vista artistico le trovi inferiori alla loro reminiscenza storica, non posso contestare a queste umili vestigia un certo fascino. Al cospetto di quelle meno significanti, la mia immaginazione spicca il volo e mi commuovo, mi commuovo profondamente.
– Personalmente ti comprendo, gli disse Pirgu, perché anche tu sei una rovina, una rovina venerabile, non però di quelle meglio conservate.
Ridemmo. Così ci dilettavamo noi. Il culto di Como ci faceva riunire quotidianamente da quasi un mese, a pranzo o a cena. Ma la nostra vera delizia consisteva nelle discussioni, nelle chiacchierate che avevano come argomento unicamente cose belle: i viaggi, le arti, le lettere, la storia – la storia in primo luogo – che aleggiavano nella serenità del firmamento accademico, dal quale venivano fatti sprofondare nel fango dalle battute di Pirgu. Era triste vedere come, nella sua cafonaggine, questo nemico della parola stampata rimanesse indifferente a ciò di cui si discettava. In Pantazi, tuttavia, Pașadia aveva trovato una mente limpida, uno spirito dotato e libero; non mi volevo perdere neppure una virgola del loro luminoso scambio di vedute e di conoscenze e il fatto che mi siano rimasti gli appunti che ebbi cura di annotarmi, mi consola, o mi risarcisce finanche, di tutti gli oggetti che con sofferenza ero andato perdendo dalla guerra a oggi.
Con mio grande dispiacere, quella sera il gioviale incontro dovette terminare con un certo anticipo; verso mezzanotte Pașadia partiva per la montagna.
– Attenderò con impazienza, disse, il giorno nel quale ritornerò per poter rincontrarci, a casa mia. E rivolto a Pirgu: Organizziamo anche una partitella a poker, vero? – così impari come si fa a giocare.
D’un tratto, Pirgu sbottò in un moto di furia incontenibile che, per sgravarsene, gli fece proferire d’un sol fiato un diluvio d’improperi, passando dalle ingiurie da carrettiere ai vituperi da fruttivendola e agli anatemi da zingaraccia. Venimmo a sapere che prima di pranzo, alla bisca, Pașadia giocò contro Pirgu con accanimento, ripulendolo, in un’accesissima partita a carte, di tutti i denari. Pirgu aveva perso venticinque poli e gliene doveva altrettanti.
Per calmarlo, Pantazi gli domandò se avesse bisogno di denaro. Pirgu gli replicò di no con fierezza, la qual cosa ci sorprese dal momento che lo vedemmo tirar fuori da una busta una mazzetta di banconote da cento. Aveva giocato tutta la notte, in una casa privata, dagli Arnoteanu, a chemin de fer e aveva fatto incetta. Pașadia gli chiese di saldare il suo debito.
– Giammai! disse Pirgu.
Pantazi saldò il conto, distribuendo laute mance ai camerieri e ai musicisti. Uscimmo. Ma fuori, la carrozza chiusa che stava attendendo Pașadia nell’angusto vicolo davanti alla taverna non poteva avanzare a causa di un crocchio di persone che, tra risa e strilli, ci piombò addosso. In mezzo a quel parapiglia, urlando come una furia, una donna si stava azzuffando con tre robuste guardie che a malapena riuscivano a tenerla a bada. Ritrovandocela quasi fra le braccia, tutti e quattro indietreggiammo di un passo.
Vecchia e avvizzita, il fazzoletto volato via dal capo, tutta cenci e scalza a un piede, sembrava, colta da tanta furia, una creatura infernale. Ubriaca fradicia, si era rigurgitata e urinata addosso per gran visibilio dei pezzenti e delle baldracche che gridavano in cerchio attorno a lei: «Pena! Pena Corcodușa!»
Osservai che Pantazi ebbe un fremito e impallidì. Ma, nel vederci, Corcodușa fu assalita da cieca furia. Quel che ci fu dato di sentire avrebbe fatto tremare il più pagano dei cuori. Perfino Pirgu rimase a bocca aperta.
– Ascolta con attenzione e memorizza, gli sussurrò Pașadia, hai l’opportunità di rifinire l’istruzione che ti è stata impartita a casa.
Le guardie allontanarono l’avvinazzata. Pantazi attaccò bottone con una ragazzetta che, sorridente, non aveva tolto un solo istante lo sguardo, vivo e compiaciuto, da quella triste visione d’ignominia umana, domandandole se sapesse chi fosse quella vecchia scellerata che ora si era gettata a terra in mezzo alla strada, come un orso, decisa a non rialzarsi più.
– È Pena Corcodușa, rispose. Si è ubriacata di nuovo. Quando è sobria, è una persona ammodo, ma quando alza il gomito, ne combina delle belle.
Dopo averle introdotto qualcosa nella mano, Pantazi scucì dell’altro alla ragazzetta. Venimmo quindi a sapere che Pena abitava nei pressi dell’Antica Corte, vendeva candele in chiesa, trafficava qua e là al mercato. La sua principale occupazione era lavare i morti. Un tempo era stata anche internata in manicomio.
A stento le guardie riuscirono a sollevarla da terra. Una volta in piedi, incrociò ancora una volta i nostri sguardi, si accalorò di nuovo, pronta a inscenare da capo la sua amichevole accoglienza, ma trascinata via, le parole le si soffocarono in gola, smarrendosi in un rantolio.
– Oh, voi, maledetti dissoluti dell’Antica Corte! fece tuttavia ancora in tempo a sbraitarci contro.  
Qualcuno, riemerso dal passato, aveva forse parlato per mezzo di lei? Chi lo sa… Ma credo che nulla al mondo più di quell’epiteto, dimenticato e da tempo ormai in disuso, avrebbe potuto rendere a Pantazi maggior piacere. Si era illuminato in volto, non si stancava di ripeterlo.
– Davvero, riconobbe Pașadia, più mirabile associazione di parole come questa non esiste; è superiore a «Cortigiani del cavallo di stagno», con il medesimo significato risalente ai tempi di Luigi XIII. Possiede un che di equestre, di mistico. Sarebbe perfetto come titolo per un libro.
– Povera Pena, mormorò Pantazi in un moto di malinconia, dopo una pausa di silenzio, Misera creatura, mai avrei creduto di rincontrarti. Quanti ricordi mi fai riaffiorare alla mente!
– Come, la conosci? domandò stupito Pirgu.
– Sì, è una vecchia storia; una storia d’amore, e non di quelle che occorrono ogni giorno. Si era ai tempi della guerra del 1877. Non credo sia svanito ancora il vivido ricordo che i russi lasciarono qui nelle donne, nelle donne di ogni estrazione. Fu un vero delirio. Una pioggia di rubli copriva avide Danae tanto sulle stuoie come sotto i baldacchini impreziositi da merletti. A Bucarest i Moscoviti avevano trovato una nuova Capua. Le dame avevano occhi solo per gli ufficiali russi. Ma colui per il quale tutte andarono in brodo di giuggiole era Leuchtenberg-Beauharnais, il bel Serghej, nipote dell’imperatore. Invano attesero che lasciasse cadere il suo fazzoletto, perché il caso volle invece che si gettasse, fin dalla prima notte, fra le braccia di una donna ordinaria, dalle cui braccia non poté più liberarsi. Era una ragazza delle borgate, non più giovanissima, già con le tempie un poco incanutite; io l’avevo conosciuta in occasione di qualche ballo in maschera o nei caffè all’aperto. Il fascino di questa creatura, in genere scontrosa, più eccentrica che bella, risiedeva nei suoi occhi, certi occhioni verdi, di un verde fosco, come quello della sciacquatura di pesce, come si dice da noi, dalle ciglia lunghe e dalle folte sopracciglia, e dallo sguardo un poco assente. Sarà stato il suo fascino speciale a intessere la malia nella quale fu catturato il cuore del condottiero? È possibile. È indiscutibile tuttavia che, condivisa da entrambi, la passione travolse quel bocciolo selvatico e il Principe azzurro nella cui figura si riflettevano, congiungendosi, i fulgori di due corone imperiale. Era cosa decisa che, dopo la guerra, Pena avrebbe seguito il suo signore e padrone in Russia. Leuchtenberg andò a morire come un crociato nei Balcani. Fui al seguito delle sue spoglie fino al Prut. La sera del 19 ottobre del 1877, il convoglio a lutto, con un vagone trasformato in cappella ardente, nel quale, in un’infinità di ceri e candele, i popi con i paramenti sacri e i cavalieri di guardia in corazze luccicanti scortavano il feretro dell’eroe immerso nei fiori, fece tappa a Bucarest sostandovi solo per alcuni istanti per ricevere gli onori. Dalla folla si levò un grido straziante e una donna si accasciò al suolo. Avete capito di chi si trattava. Quando ritornò in sé, dovettero legarla.
Da allora sono trascorsi trentatré anni.
Pantazi scrollò la cenere della sigaretta. Il rammarico prodotto in noi dalla triste storia di Pena non fu minore di quello che a lui produsse quell’impagabile ingiuria da lei scagliataci contro. Pașadia si accomiatò e salì in carrozza.
– Vento in poppa e ponti d’oro! gli gridò Pirgu.
In quel momento gli si attorcigliò la lingua, farfugliava. Gli costò alquanto confessarci che aveva giocato divinamente; perfino il compianto «signor Poker» in persona non avrebbe saputo far di meglio.
– Nonostante ciò, mi ha sbancato si lamentò, e non riesco a trovare consolazione. Ma me la pagherà, e cara, quel vecchio ipocrita, lo concerò io per le feste.
Insistette perché andassimo con lui.
– Suvvia, signori, ci esortava, non vi porto a indulgere in tentazioni.
Gli domandammo dove.
– Dagli Arnoteanu, rispose, dai veri Arnoteanu.
Non era la prima volta che Pirgu insisteva a invitarci a casa di costoro. Per liberarci di lui, gli promettemmo che l’avremmo seguito sempre e ovunque ma in un’altra occasione, non quella notte. Ci lasciammo lì, in corso Mogoșoaia, Pirgu prese verso la posta, noi verso via Sărindar. Era una notte umida e fredda, e la nebbia si stava facendo sempre più fitta. Quando con il pensiero mi vedevo già infilato a letto, a casa mia, Pantazi, com’era sua consuetudine, mi pregò di rimanere con lui. Stavo quasi per oppormi, ma per amor suo che cosa non sarei stato disposto a fare? Perché se per Pașadia provavo venerazione, per Pantazi avevo una predilezione: l’una aveva origine nella mente, l’altra nel cuore, e per quanto qualcuno possa essere forte, la mente cede il passo al cuore. Quest’uomo strano mi era stato caro già prima di conoscerlo, in lui mi sembrava di aver trovato l’amico che cercavo da sempre e spesso, o perfino più di questo, un altro me stesso.                   

A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 5, maggio 2013, anno III)