«Luntrea lui Caron», il romanzo postumo di Lucian Blaga

Luntrea lui Caron (Humanitas, Bucarest 1990, 2013): prova letteraria eminentemente autobiografica – il lettore che abbia una minima conoscenza della biografia del grande poeta e filosofo di Lăncram (1895-1961) ve ne ritroverà allusione in quasi ogni sua pagina – il romanzo «de sertar» postumo di Lucian Blaga (dato alle stampe solo nel 1990, ma preceduto da brani inediti nel 1989 con questo titolo – che non appartiene all’autore ma che la figlia Dorli approvò – in  «Revista de istorie și teorie literară» mentre suoi ampi estratti erano già apparsi in varie riviste letterarie nella seconda metà degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso) lo si legge, e lo si coglie, più come sequenza di eventi, di pannelli – come in un ciclo pittorico – atti a illustrare e a esporre narrativamente gli episodi di una vita che come romanzo inteso nella sua canonica accezione. Proprio per questo suo non facile incasellamento dentro gli schemi del romanzo, lo si è paragonato a una sorta di diario personale, di pagine di intime confessioni. Narrato in prima persona dalla voce, o, potremmo dire, dal doppio e alter-ego dello scrittore, Axente Creangă – professore di filosofia, allontanato dall’università di Cluj e degradato («munca de jos» era il termine per indicare l’attività cui erano relegati gli indesiderati del regime) a bibliotecario in una biblioteca di provincia, per essere un «nemico del popolo» – e inserito cronologicamente tra la fine della seconda guerra mondiale (l’affresco narrativo blagiano inizia con i bombardamenti degli Alleati del 1944) e l’«ossessivo decennio» dello stalinismo romeno, coincidente perciò con gli anni della maturità dello scrittore – il romanzo è il racconto in chiave morale e filosofica, con densi sconfinamenti poetici e meditativi, della tragedia vissuta dall’intellettualità «borghese» romena – espressa nella trama anche attraverso un ventaglio di archetipi umani – espulsa e radiata dalla società civile dal nuovo e illiberale ordine politico che si apprestava a mutare e a stravolgere il destino della Romania, scardinandone l’assetto sociale e culturale. A tutto ciò assiste da vittima predestinata l’intellettuale Blaga-Axente Creangă – rischiando anche a un certo punto di cedere alle sirene comuniste cui riesce però a sottrarsi –, opponendo a questa situazione la sua integrità di uomo libero e la sua volontà di non abdicare ai valori che lo sostanziano e ai quali non intende rinunciare. Su tutto ciò s’innestano altri temi fondamentali e paradigmatici della voce narrante, come quello erotico-sentimentale; due sono le figure femminili che s’incrociano nella trama con il protagonista, sposato e padre di una bambina (altro dato biografico…) – Ana Rareș e Octavia Olteanu – che costituiscono forse il perno attorno cui gira il romanzo, assieme a quello della natura, intesa, non a caso, quale paradiso-rifugio «mioritico» (gran parte dell’azione si svolge infatti nella campagna e fra le montagne della Transilvania), che si delineano entrambi perciò come spazi salvifici sul cupo sfondo della realtà storica. 
Nel brano che offriamo qui per la prima volta in traduzione italiana viene colto uno dei momenti più significativi e drammatici del romanzo, quello in cui il simbolismo (che si lega felicemente con il titolo dato all’opera) della scena da tregenda del pastore-diavolo con il suo branco di pecore da traghettare che si trasformano in lupi (nell’allucinata visione del pope Vasile – marito di Octavia, la quale è amante di Axente e che poi si suiciderà gettandosi nelle acque gelate del Mureș –, vittima anch’egli del regime e costretto, fra difficoltà economiche, a lavorare come barcaiolo), precede e si lega all’altra scena all’interno della loro locanda nella quale i tre personaggi sono protagonisti di un gioco dai risvolti erotici che supera ogni inibizione, trasformandosi quasi in un panico sfogo degli istinti e delle intime ossessioni.

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Frammento da «Luntrea lui Caron»

XII

[…]

Alla vigilia di San Nicola partii da casa più tardi del solito diretto alla locanda dei barcaioli. Il gelo che era sceso troppo in anticipo e che era durato una settimana aveva allentato la morsa. Il vento si era placato già dal mattino. Il cielo si ricoprì di nubi informi, compatte, di un plumbeo uniforme a coprire tutto l’orizzonte. Nevicava a larghi fiocchi, all’inizio, ma poi la neve iniziò a scendere placida, gradevole. L’aria si empì di un denso silenzio, giacché i fiocchi di neve parevano scendere quasi apposta per smorzare ogni rumore e ondeggiavano qua e là per raccogliere nella loro molle materia ogni mormorio. Quel giorno non ero uscito con l’intenzione di recarmi alla locanda. La profusione di cristalli di neve era come una caccia ai rumori che dovevano essere soffocati a ogni costo. Un grande silenzio si apprestava a scendere sulla natura. Ma perché? Quel giorno non ero uscito con l’intenzione di recarmi alla locanda. Ma la quiete dell’aria e il placido fioccare mi invitavano a mettermi in cammino. La neve fresca si posava e si rapprendeva dato che la terra era ancora secca per via del gelo di ieri e dell’altro ieri. Da quando aveva preso a nevicare fino a quell’ora del pomeriggio, lo strato di neve si era ispessito di un palmo; era soffice e copriva tutti i paraggi. Le nubi erano scese fino a lambire le creste degli alberi, da cui i fiocchi si distaccavano all'istante, simili a candide scintille.
Giunsi alla locanda quando era quasi già buio. Non vidi nessun movimento al guado. Mi avvicinai un attimo per vedere il corso del Mureș. Un miscuglio di acqua ghiacciata e neve vi galleggiava abbondante, vorticando su sé stessa. Più giù il fiume aveva formato uno strato di ghiaccio piuttosto spesso su cui la neve si era solidificata. Tuttavia non si era creata alcuna placca di ghiaccio; ampi rigagnoli d’acqua fluivano tra i margini ghiacciati nel vasto letto del Mureș. L’acqua era cresciuta di livello e debordava qua e là oltre le sponde, fra gli ontani. Il barcone, immobile, avrebbe potuto svolgere ancora il suo servizio; attendeva i passeggeri con la prua tirata a riva. Mi guardai intorno, non c’era anima viva. E tutto odorava di neve fresca. Un puzzo di animale selvatico mi colpì al naso portato da un alito di vento proveniente dall’aperta campagna.
Entrai nella locanda. I barcaioli manifestarono la propria gioia nel vedermi cacciando un lieve grido di sorpresa.
«Fuori c’è puzza di lupi!» – furono le parole che proferii sulla soglia scrollando via la neve dal cappotto. Ed entrando dilatai le narici per sottolineare il piacere avvertito poco prima quando lungo il Mureș captai quell’odore di animale selvatico: «Arrivo un po’ tardi, è già buio pesto. Non so come farò a tornare indietro stanotte in questo deserto di neve! Si aggirano i lupi e non ho proprio voglia di finire sbranato!»
«Eh, non dovrai tornare indietro. Passi la notte qui. La cameretta di nostro figlia è libera. Leila non è venuta ad Alba per San Nicola, come speravamo. La nevicata le ha messo paura!» Pope Vasile mi invitava, quindi, senza tanti giri di parole, a rimanere la notte nella loro locanda.
«Improvviseremo noi qualcosa per la cena», aggiunse Octavia, trattenendo a stento la gioia di vedermi arrivare in modo così inatteso.
La stufa ardeva. Nella stanza aleggiava un caldo tepore di campagna. C’era odore di frasche bruciate. I barcaioli non badavano a spese per il riscaldamento della loro locanda giacché durante i giorni di mercato molti carri colmi di legno di quercia, portato dai boschi di Daia, Limba e Ciugud, attraversavano il fiume con il barcone per raggiungere Alba; e il pope Vasile si faceva pagare in natura.
Quando entrai, Octavia era distesa su un divano-letto, e accanto teneva un libro. Era leggermente accesa in volto per via del suo fervore poetico. Pope Vasile stava aggiustando una catena di cui probabilmente aveva bisogno al barcone. Rispetto a questa atmosfera patriarcale, mi dispiaceva portare solo notizie poco incoraggianti.
Octavia, con la sua immaginazione, sperava ancora che un mattino, in un modo o nell’altro, dalle dogane del cielo scendessero gli americani. Si faceva strada in modo esaltato anche la speranza che ciò avrebbe potuto aver luogo in seguito a una nuova guerra mondiale che sarebbe durata solo alcune ore, poiché gli americani avrebbero avuto a disposizione per i loro fini un gas, innocuo, con il quale ci avrebbero addormentati tutti, ma solo per alcuni giorni, quelli cioè di cui avrebbero avuto bisogno per occupare i territori senza incontrare alcuna resistenza. Rispetto a simili fole, facevo notare a Octavia e al pope Vasile che l’Occidente non era preparato né politicamente, né militarmente e né diplomaticamente. L’Europa dell’est trovava vantaggio nell’arditezza e nella menzogna. Gli accordi internazionali verso cui parevano essere inclini gli occidentali, sempre sulla difensiva, indicavano purtroppo un’evoluzione che sarebbe durata per lunghissimo tempo. A ogni modo mi ritenevo più addentro alle questioni diplomatiche e intuivo meglio i retroscena, il più delle volte di tipo affaristico e di alta complessità, dell’attività politica internazionale più di quanto potesse riuscirci una poetessa, sorretta dalla sua immaginazione, nella cui trance lirica trovava voce ogni desiderio. A quattro o al massimo sei occhi, il mio realismo era tacciato nella locanda di disfattismo. Mi potevo aspettare solo questo dai barcaioli per i quali la fede nei miracoli era una condizione esistenziale. […].
I barcaioli mi ribattevano con i loro argomenti: stavano accadendo fatti insoliti! Il volto della Madonna era apparsa sulla finestra di quella tal chiesa in quel tal villaggio. E gli abitanti dei villaggi accorrevano coprendo centinaia di chilometri, in pellegrinaggio, per vederlo. Il volto era stato «visto» «con i loro occhi» persino da alcuni conoscenti che passavano per la loro locanda. Dopo che avevamo esaurito tutti i nostri argomenti sia da una parte, sia dall’altra, constatavamo tutti e tre con soddisfazione che a favore delle speranze si potevano portare molti più argomenti che a favore di quelli disfattisti. E passavamo quindi a questioni più concrete.
«Quando sei entrato, dicevi che sentivi puzza di lupo!», fece il pope, come se volesse invitarmi a confermare quanto avevo detto. «Ho sentito anch’io puzza di animale selvatico. Dovrò preparare la pistola. Per evitare che i branchi entrino nel nostro cortile. L’inverno scorso hanno gironzolato un bel po’ intorno alla locanda».
«Così mi è sembrato… pareva puzzo di lupo», ribadii io. Dopo aver terminato di sistemare uno degli anelli della catena di cui aveva bisogno al barcone, il pope estrasse da un cassetto segreto dell’armadio una pistola che caricò all’istante davanti a noi senza la minima esitazione, anzi, con tale destrezza tecnica da far credere che maneggiasse armi da una vita.              
«Guarda qua come si destreggia il pope con le armi!», buttai là io sorpreso, «sembra quasi un bandito!»
La campanella difettosa posta sopra la porta della stanza in cui ci trovavamo tintinnò con insistenza azionata giù al barcone. Qualcuno appena arrivato chiamava perché voleva essere traghettato dall’altra parte. Il pope si infilò la pistola nella tasca sfondata del cappotto. Accese la lampada con la quale era solito uscire per prestare servizio durante la notte. Fuori la notte era scesa rapidamente come si poteva evincere guardando fuori dalla finestra. Sarebbe stato imprudente attraversare il fiume al buio. Il pope uscì. Io rimasi con Octavia che restò distesa, con indosso la vestaglia, sul divano-letto. Mi invitò a sedermi un po’ accanto a lei, perché desiderava dirmi qualcosa.
«Sai, Vasile si trova di nuovo senza più un soldo in casa. Deve fare dei pagamenti, a fine anno. Tasse e altre cose. Mi ha detto di parlartene. Gli ho replicato che non potevo più chiederti un altro prestito. Si è infuriato come una belva. Probabilmente te lo chiederà lui stesso. Ti avverto. E ti prego di non dargliene più. I soldi che gli finiscono in mano li sperpera da quell’ubriacone e scellerato e che è!»
Mi alzai alquanto seccato: «Sai cosa? Faresti bene a non immischiarti più nelle faccende di denaro che sorgono tra me e Vasile!» Così le dissi. «So io che cosa devo fare. Non t’immischiare!»

La stanza era illuminata da un lume a petrolio la cui campana di vetro era tutta affumicata. Quando giunsi, l’avevo trovato acceso. Il divano-letto era immerso nella semioscurità, sfiorato appena dalla luce riverberata dalla parete. Ma sul divano e sul corpo disteso di Octavia danzavano più che altro i riflessi prodotti dalle fiamme nella stufa di ghisa, arroventata in alcuni punti, che ardeva fin quasi a togliere il respiro.
Mi sedetti accanto a Octavia. Allungai la mano quasi in modo automatico verso il suo corpo posandola infine sulla sua coscia. Il suo corpo fremeva. Anche nella sua voce si avvertiva l’emozione creata dalla situazione.
«Che dice il pope Vasile di noi?», le domandai.
«Difficile da capire. Evita quasi apposta di “vedere”, sembra quasi che provi compiacimento in questa incertezza. Il demonio sfrutta questa situazione a suo favore. Se però gli accadesse un giorno, inaspettatamente, di vedere, Vasile reagirebbe con durezza, in maniera del tutto istintiva», mi disse Octavia con voce calma, «si scatenerebbe come una forza della natura offesa nei suoi diritti. È terribile quando alza le mani. Talmente terribile che presa dal panico perdo completamente il controllo di me stessa. Se non mi tenesse ferma in balia delle sue botte, fuggirei via per gettarmi nel Mureș, anche se sapessi che ci scorre il fuoco!»
M’incupii all’udire quella confessione. Non sapevo che le percosse fossero così frequenti e spietate nella locanda. Per un quarto d’ora circa mi rimuginai dentro. Il mio animo non assecondava più il ginepraio del mio corpo. Tacevo. Octavia non parlava più. Accondiscendeva alle mie carezze che desiderava quasi fossero sorte dal cuore del mio cuore. Poi udimmo i passi del pope in cortile. Tossiva. Era il segnale che si stava avvicinando. Risuonavano dalla veranda. Seguì poi una lunga pausa, quella che ci veniva offerta affinché non vedesse. Pope Vasile, entrando, mi trovò immobile, come se nel frattempo non mi fossi mosso da lì, seduto nella poltrona accanto al tavolo, a una distanza di due, tre metri dal divano-letto su cui Octavia spengeva dentro di sé il piacere delle carezze assaporate fin poco prima.
«Chi era?», gli domandò Octavia.
«Il solito ritardatario, il maestro Ilie, quello che recitava a memoria le tue poesie scritte quando i rossi ci portavano la libertà! Le tue poesie di allora oggi sembrano esprimere l’autoironia di un popolo!» Così faceva il pope: quando desiderava il corpo di Octavia, ne insultava in primo luogo lo spirito.
E come c’era da aspettarsi, il pope si avvicinò alla moglie per stringerla a sé. Le sue coccole erano come quelle di un orso rimbambito. Pareva un fauno vestito da monaco, un orco senza vocazione. Con vezzi un po’ brutali, rovesciò la moglie verso la parete, come se volesse cercare anche per sé un angolino accanto a lei. Ma si limitò a sederle di fianco e, senza altri indugi, sotto i miei occhi, le tirò su la gonna fin sopra le ginocchia. Mi domandò con un’espressione di depravata e arcana allegria:
«Che ne dici, Axente, ha delle belle gambe mia moglie…»
Quando la rovesciò, le gambe lasciarono scorgere l’incavo bianco – molle, eccitante – dietro le ginocchia. E allora, mentre il pope le scopriva con più foga, Octavia cercava di ricoprirle. Ma lui non la lasciava, e ripeteva la domanda, questa volta con allegria, scosso dalla loro vista, come stregato, quasi fosse la prima volta che vedesse le gambe nude di Octavia.
«Eh», risposi a caso, «peccato che sia così restia. Per nulla al mondo farebbe sfoggio della sua avvenenza. Sembra quasi vergognarsene. Quasi che la bellezza fosse un peccato!»
Il pope sembrava soddisfatto dei miei apprezzamenti che avevano il merito di scacciare ulteriormente i suoi dubbi. In tono allegro, scherzoso, prese a tentarmi, come se si industriasse a raccontare una storia: «Che dai per darci un’occhiata? E quanto daresti se ti facessi guardare di più?» Vasile sollevò ancor di più con la sua zampa di fauno la gonna di Octavia, ben al di sopra delle candide ginocchia su cui si scorgeva il reticolo azzurrognolo delle vene. Conoscevo il morbido contorno delle sue gambe, le conoscevano non solo i miei occhi ma anche i palmi delle mie mani. L’Octavia che accarezzavo si trasformava in ricordo epidermico. Guardavo con una tensione crescente, ma distante, lo spettacolo che sembrava prendere forma.
«Quanto darei? Mio caro, il gioco e la sorpresa non si possono quantificare in danaro, ma allenterei i lacci del borsellino a seconda delle possibilità. Tu solleva ancora un pochino e ti darò cento lei!», dissi al pope ridendo. Era ovvio che il pope, trovandosi in ristrettezze, sarebbe stato ben felice di ricavare un piccolo guadagno o un utile, per insignificante che fosse, da quel semplice spettacolino offerto senza rischi a occhi che gioivano per tutto quello che era bello.
«E se sollevi il vestito perché io possa vedere le gambe per intero…, te ne do duecento di lei», m’infervorai io per infervorare anche lui.
«A-ha!», esclamò il pope, voltandosi verso Octavia: «Dài, svergognata, facciamolo!»
Octavia mi fissò tesa. Uno strano pensiero mi attraversò la mente. Era stato un momento di indecisione, poi di risolutezza. Il suo sguardo non era più lo stesso. Si atteggiava quasi a vittima del gioco speculativo messo in atto dal marito. E il pope Vasile le denudò le gambe per intero, fino alla radice delle cosce. Allora Octavia si intromise nello spettacolo con voce possente:
«Ma quanto daresti per vedermi tutta nuda?»
«Come? Tutta nuda, dalla punta dei capelli a quella dei piedi?», domandai. «Quanto darei? Guarda, metto sul tavolo mille lei
«Vasile, io lo faccio!» decise Octavia, modulando la voce in un tono che voleva sondare il terreno, come a voler chiedere: «Che ne dici?»
«Fallo, mia cara, fallo!» la esortò il pope ridendo, un po’ agitato al pensiero della scena che stava prefigurando dentro di sé. Il suo incitamento era risoluto fino a un certo punto. Parlava spronato dalla smania di avidità. Era come se stesse dicendo: «Mille lei non sono affatto da buttar via». Ma non pronunciava queste parole, le serbava per sé, esternando però pensieri incoraggianti, adottando una facile prospettiva relativistica: «In fin dei conti, non ti spoglieresti forse davanti a un medico? E sul finire della guerra, sulla spiaggia del lago salato di Ocna Sibiului, non ti sei forse fatta vedere quasi nuda?»
«Vasile, lo faccio!» ripeteva Octavia per infondersi coraggio nel compiere il gesto. Era evidente che l’eccitava l’idea di denudarsi davanti a me e a suo marito.
La scena che intravedevo mi sferzava il sangue con rapide scudisciate di fuoco. Per la prima volta avrei visto Octavia in tutta la sua plasticità. Le sue forme le serbavo frammentariamente ancora da tempo nel ricordo. Ma l’immaginazione non può comprendere tutto senza gli occhi. Anche l’occhio attende di cogliere l’immagine nella sua completezza. L’occasione racchiudeva in sé virtualità ancora non sognate: Octavia si sarebbe mostrata a me in presenza del marito! Mi lasciai sprofondare per bene nella poltrona parzialmente sfondata come se mi apprestassi a contemplare un dipinto. Per facilitare Octavia a compiere il suo gesto, assunsi un contegno serafico improntato all’estetica pura.          
«Ma stabiliamo dapprima le condizioni, Octavia», aggiunsi io, «dovrai spogliarti davanti a noi togliendoti tutto quello che hai indosso. Poi, senza atti inopportuni per supplire alla foglia di fico e lasciando da parte ogni pudore, vieni verso di me. Arrivata davanti a me, ti giri. Voglio vederti anche di spalle. E dopo raggiungerai lentamente, senza fretta, il punto da dove ora comincerai a svestirti!»  
«Vasile, Vasile, Vasile, lo faccio!» disse lei per la terza volta.
«Fallo, cara, fallo», la esortò lui con un cenno della mano che poteva significare: «Ma che m’importa! Che scorrano i soldi!» L’impazienza di vedere i mille lei sul tavolo gli faceva tremare la voce. Ma nella sua risata contenuta vibrava anche una qualche perplessità.
Ciò che stava per accadere era totalmente fuori dell’usuale. La scena era il frutto di una improvvisazione, giunta inaspettatamente senza che nessuno di noi avesse mai pensato che una cosa del genere sarebbe mai potuta accadere. Octavia si alzò dal divano quasi saltando. Un tremore nervoso le attraversò tutto il corpo al pensiero di ciò che si stava apprestando a fare. Gettò la vestaglia. Poi, una per volta, la camicetta, la gonna, rimanendo solo in una corta sottoveste; si sfilò, senza piegarsi, le scarpe da casa aiutandosi con il piede. Si tolse le mutandine, che piegò e pose sul divano. Le mutandine sembravano la pelle della muta di un serpente. Slacciò i collant dal reggicalze, che si tolse da sotto la sottoveste e che lasciò cadere a terra; alzò una gamba per sfilare il collant, e così fece anche con l’altro. Poi si levò la sottoveste passandola sopra la testa, rimanendo completamente nuda. Questo cerimoniale fu accompagnato dai grugniti del pope, che pareva sorpreso da ogni singolo gesto di sua moglie. Non aveva mai assistito con tanta lucidità ed ebbrezza a tale serie impudica di gesti. Nudità che avevo palpato e visto prima in segreto e di volta in volta, in modo frammentario, nel tempo, si presentavano ora davanti a me riunite in un’unica forma completa, come un dono dello spazio. L’armonia delle membra costituiva una sorpresa. Ed era una sorpresa soprattutto la forma a melograna dei seni che risultavano inusualmente sodi. Octavia avanzò dal divano verso di me, guardandomi tesa in viso, appena corrucciata e con le labbra socchiuse: «Che il diavolo o un cattivo pensiero non ti facciano allungare le mani!» mi disse, ricordandomi quali erano le condizioni d’onore accettate per quello spettacolo, sebbene, a mia memoria, fra noi non si fosse parlato di questo. Non riuscii a trovare le parole per risponderle, perché non volevo che mi sfuggisse neanche un istante dello sfoggio della sua bellezza.
Anche il pope, in qualche modo, prendeva parte allo spettacolo. Colto da un’esaltazione che scaturiva in lui da preistoriche vite tribali, iniziò a saltare attorno al nudo femminile in movimento. Assalito da uno slancio animale, il pope piroettava, ora a manca, ora a destra di Octavia che avanzava. L’intensità dei saltelli era superiore solo a quella degli sghignazzi. Con la sua barba fulva, il pope assomigliava a un caprone in grado di ridere e di ululare come gli uomini primitivi. Octavia si fermò un istante davanti a me. Sedevo immobile nella poltrona di fianco al tavolo, placando la calda tempesta del sangue esibendo un serafico sorriso. Poi la donna si girò dandomi le spalle. Mi mostrò sinuosità della cui bellezza non sapevo se fosse cosciente. In quel momento cedetti alla tentazione. Le appioppai uno schiaffetto sulle natiche carnose. Il pope mi vide e, udendo il suono eccitante sortito dal corpo della donna colpito teneramente dalla mia mano, cavò un salto enorme sul posto, le sue convulse risate si trasformarono in un prolungato ruggito: in quel momento aveva davvero l’aspetto di un fauno gigantesco in balia di un’esuberanza animale. Il corpo nudo avanzò ciondolando, senza ostentazione, in modo naturale fino al divano. Octavia accettò il tenero colpetto di mano senza manifestare alcuna irritazione per il fatto di essermi lasciato andare a un momento di frivolezza. Si rivestì. Seguivo le fasi elaborate della vestizione, dato che mi offrivano una nuova visione. Octavia, alla fine, fu vinta dal pudore. Si rimise i vestiti dandomi la schiena.
Tirai fuori di tasca i mille lei e li posai sul tavolo. Il pope si precipitò per afferrarli. Mentre si infilava i collant, Octavia protestò: «Calmati, mio caro, quello è ciò che ho guadagnato io! Giù le mani!» La protesta di Octavia era più che altro formale; voleva sottolineare in qualche maniera il proprio merito nell’aver ottenuto quei soldi. Quella somma così inattesa significava qualcosa per il pope. Octavia calcò con forza le parole proprio perché Vasile la sentisse e ne apprezzasse la solerzia. Mentre si infilava la banconota ripiegata in una tasca segreta, il pope cercò di accertarsi in maniera chiara, per totale sicurezza, circa la qualità dell’introito per il quale aveva grondato sudore senza risparmiarsi.
«Spero che questi soldi tu non li ritenga... un prestito?!»
«No, pope! Questo è quello che ha guadagnato Octavia. L’obolo per lo spettacolo!»
Octavia continuava a vestirsi a gesti lenti. Sembrava che volesse prolungare la delizia per i miei occhi. Seduta sul bordo del divano, indugiò ancora un poco per recuperare la sottoveste sicché io potei perdermi ancora, sprofondando in quella visione, assalito da sentimenti equivoci. Il pope notò i suoi movimenti rallentati come anche il persistere dei miei sguardi. «Su, forza, finisci una buona volta!», le ordinò come a voler apostrofarla; «Svergognata, a tanto sei arrivata? Fai soldi mostrandoti nuda?» Pareva che si fosse già dimenticato che era stato lui a intascarsi la banconota.    
Si fece l’ora di cena. […] Durante la cena ci perdemmo in chiacchiere. Mi soffermavo su tutto quello che mi passava per la testa. Il pope beveva da solo, irrequieto, bicchiere dopo bicchiere, un vino forte portato da Șard. Lo assaggiai anch’io. Ne assaggiò un po’ anche Octavia. Ma la sete del pope metteva paura. Dissi: «Buono il vinello amabile accompagnato da una donna amarognola!» «Come anche il vino amarognolo accompagnato da una donna amabile!» rispose il pope fissando con lo sguardo Octavia. Riverberavano ancora in me gli echi della scena di poco prima. Ma finimmo per parlare anche di cupi argomenti. E con essi entrarono nella conversazione discorsi inquietanti e tenebrosi. Come quello circa alcune voci che circolavano con insistenza di bocca in bocca: che ci sarebbero stati altri arresti di massa, che le persone sarebbero state portate a lavorare «volontariamente» al cantiere del Canale Danubio-Mar Nero. Terribili erano le notizie che giungevano da là assieme alla buriana.  
«Lo sapete che cos’è il Canale Danubio-Mar Nero?» domandai loro. «La tomba della borghesia e della nostra intellettualità! Eh, chi lo sa! Magari ci siamo anche noi sulla lista degli arresti che stanno per eseguire!»
«Lasciamo stare!» intervenne Octavia palesemente scossa dal pensiero attraverso cui passava probabilmente il ricordo di tutte le imprudenze appena compiute. Quante volte si era lasciata andare alle chiacchiere riponendo una fiducia smodata in qualsiasi essere dalle sembianze umane? Quanti fra coloro che erano passati da lì e che lei aveva ospitato, ingenua e senza sospettare di nulla, erano agenti della Securitate?
Continuammo a parlare fin quasi la mezzanotte. […] Ma si sentirono dei passi in cortile. Poi in veranda. La paura ci mozzò le parole in gola: chi mai poteva arrivare al guado a quell’ora così fonda della notte? E quegli istanti che trascorsero ci sembrarono infiniti. Di chi erano i passi che si erano sentiti in veranda? Erano forse quelli con le liste che raccoglievano «volontari» per spedirli al Canale Danubio-Mar Nero? I cuori ci pulsavano all’impazzata. Qualcuno bussò alla porta.
Ma ecco che a entrare era un semplice pastore, un pastore come tanti altri. Aveva il montone zuppo di neve. «Buona sera! Chiedo scusa se mi son permesso di bussare a quest’ora! Dev’essere tardissimo, quasi mezzanotte, ma non avevo scelta. Sono qui con il branco di pecore. Ne ho circa duemila e vorrei portarle di là del Mureș!» Il pastore aveva nel tono della voce qualcosa di umile e di protervo allo stesso tempo e un aspetto un po’ strano. Smunto. Gli brillavano gli occhi. Almeno da dove sedevo io, gli si vedevano brillare gli occhi. Erano fosforescenti, come quelli di una fiera e di altri animali. Il pope Vasile pareva spiacevolmente sorpreso da questa visita notturna.
«E hai un bel dire! Duemila pecore? Trasbordartele col sudore della mia fronte? Perché mi ricordi che il lavoro è una maledizione! La fatica di una notte intera! Ma perché non hai provato a raggiungere Alba attraversando il ponte grande di Partoș?»
«Come se non ci avessi provato! Verso sera il fiume se l’è portato via. Che baraonda e che ressa c’erano. È per questo che ho fatto così tardi!» rispose il pastore.
«Davvero? Come? Il Mureș si è insuperbito tanto da trascinarsi via il ponte? Che notizia stupefacente. Allora ne arriveranno degli altri per passare con il barcone. E quelli che sono arrivati in macchina che faranno? Sono rimasti tutti bloccati nella neve ad Alba? Tu sei il primo ad arrivare. Un pastore. Con duemila pecore?! Che strano. Non mi è mai capitato di traghettare duemila pecore!» Così diceva il pope. E pareva quasi fare mentalmente due rapidi calcoli, calcoli in cui entravano l’area del barcone e la stazza di una pecora. «Abbiamo da sgobbare fino all’alba. Ma com’è che hai duemila pecore e non si sente neanche un belato? Dove hai nascosto quei mucchi di lana?»
«Fuori c’è puzza di lupo. E quando c’è puzzo di lupo non bela neanche una pecora. Sono tutte qua sul campo, vicino al guado.» […]
Il pope si accese la lanterna. Pur dopo aver tracannato vari bicchieri di vino, si teneva ancora in piedi. Ma che cosa sarebbe successo se avessero incominciato a far sentire il loro effetto una volta che si sarebbe trovato sul barcone? Vasile si immerse nella notte seguito dal pastore. Dalla soglia, il pastore puntò i suoi enormi occhi su di me e su Octavia, come a voler domandarci: «Vi piace così?» Dopo che i due furono usciti, Octavia mi sussurrò: «Hai visto come ci ha guardato?»
[…] Non appena si precipitò fuori nell’oscurità, il pastore si mise a spingere il branco con fischi e sibili penetranti. Non si udiva un solo belato. E neppure un campanaccio. Non si udiva alcun tipo di rumore, solo fischi e sibili come non ne avevo mai sentiti prima di simili.
«Tu credi che questo sia un branco?» domandai a Octavia. «Duemila pecore e tutto questo silenzio? Gli si sono spenti i belati in gola? O sono solo ombre condotte da Caronte?»              
Octavia mi si avvicinò, fermandosi davanti a me. Le passai un braccio attorno ai fianchi. Lei mi passò una mano fra i capelli, guardandomi. Octavia era vera o solo un’ombra?
«Fa’ la brava!» le dissi, «Vasile, per un motivo qualsiasi, potrebbe ritornare all’improvviso. Che ne dici del suo zampettare da fauno?»
«A me interesserebbe molto di più sapere che ne pensi tu dello spettacolino di poco fa…» Octavia continuava a tenermi la mano fra i capelli: «Sto pensando a una cosa…!» La donna amarognola mi posò le labbra sulla bocca. Per dimostrarmi qualcosa. Non era un’ombra, era vera.
«Controllati», le dissi, «non è il momento».
«Lo so anch’io benissimo che non si può», rispose Octavia sognante. «Anche se il pastore pare sia capitato a proposito… strana apparizione! Ha fatto in modo che noi rimanessimo in questa semioscurità. Perché hai abbassato così tanto lo stoppino del lume? Vasile si agita sospettando di noi». Mi difesi vagamente con il braccio dalla vicinanza di Octavia.
«Poco fa pensavo a… qualcosa. Ma…» Con queste parole Octavia pareva volesse allontanarsi; ma nello stesso istante mi si sedette sulle ginocchia, stringendosi a me con tutta la forza.
Fuori erano ancora udibili i sibili del pastore.
«Come se la caverà Vasile con tutto questo branco?» mi domandai da solo. O me l’ero domandato… ad alta voce? Sì, perché Octavia rispose: «Lo terrà occupato per tutta la notte!» La donna fremeva tra le mie braccia. Poi mi sussurrò all’orecchio come una tiepida brezza. «È ora che tu ti ritiri, nella tua stanza».
«Vai a letto anche tu?» le domandai, «o vuoi aspettarlo?»
«Aspettarlo? Io? Che ti passa per la testa? No, caro mio, cercherò di addormentarmi. E per Vasile dormirò come un ghiro». Octavia si alzò dalle mie ginocchia. Si diresse verso il divano, tirò il paravento e si accinse a prepararsi per coricarsi.
«Il tuo letto è già pronto. Puoi passare», disse, caricando la voce con un tono provocante, ma quasi impercettibile.
Mi scostai un istante da dietro il paravento. Octavia si sistemò davanti a me, in piedi, tenendomi la testa fra le sue braccia. La afferrai anch’io per i fianchi. Si lasciò penzolare al collo con tutto il peso, tirandomi giù e sedendosi sul bordo del divano. Ma mi sciolsi dalla sua stretta con forza: «Un’altra volta! Buona notte!»
[…]
Lo sentii gridare: «Ottavia!» Ma lei non era nel suo letto. «Ottavia!» Il pope si diresse verso la mia stanzetta. Si immaginava certamente che Octavia si trovasse lì con me. Si fermò davanti alla porta chiusa della mia stanzetta.  Pareva stesse ascoltando. Non mi mossi. Il pope aprì la porta, ma allo stesso tempo sembrava si fosse già dimenticato di Octavia. Urlava come in delirio: «Axente! Ascolta, Axente! Quell’uomo non era un pastore! Era il diavolo! Quando sono uscito con lui, fuori ho visto un pigia-pigia di lupi! Quattromila occhi di fuoco si sono girati verso di me! Ah! Duemila pecore, diceva il pastore, ma erano duemila lupi! Il branco del Diavolo era riunito intorno al guado e alla casa. E il Diavolo mi ha fatto segno di tacere. Con i brividi lungo la schiena, sono andato dietro al Diavolo con la lanterna, come ai suoi comandi. Axente! Ascolta, Axente! Il pastore è sceso per primo al barcone. Ho appeso la lanterna al palo sulla sponda. I lupi si sono precipiti per trovare posto sul barcone, a balzi, uno dopo l’altro. Il diavolo pastore teneva la mano tesa mentre saltavano e… che cosa ti vedo? I lupi, atterrando sul barcone, si facevano piccoli come topi. I loro occhi scintillavano intensamente. Il barcone si è riempito di lupi, tanto che non c’era più spazio per gli altri. Allora ho poggiato anch’io il piede sul barcone e sono saltato su, per spingerlo con il badile. Lo metto in movimento con fatica per via dello spesso strato di ghiaccio. Siamo partiti! Axente! Ascolta, Axente! Sto tremando in tutto il corpo! Quando, in mezzo al silenzio, siamo arrivarti dall’altra parte, i lupi, come topi, sono saltati sotto il braccio teso del pastore! Ma non era un pastore, Axente! E al toccare terra saltando sulla riva, quegli esseri tornavano di nuovo alle loro dimensioni: lupi, dei veri lupi come tutti gli altri! Credo di averne traghettati alcune centinaia nel primo carico. Facendo un calcolo, per trasportare tutto il branco sarebbero serviti sette, otto passaggi. E così è stato! E ogni volta il Diavolo-pastore ritornava indietro con me, per essermi d’aiuto sul barcone, per accorciare i tempi, facendo rimpicciolire i lupi. Che avventura! E che paura! Axente! Axente, mi stai ascoltando? Era il Diavolo! Il Diavolo! Capisci?»
Rimasi immobile al buio nel mio letto. L’eccitazione del pope cominciava a contagiare anche me, io che avevo il pensiero rivolto più a Octavia che ad altro. Nell’oscurità però non riuscivo a vedere neppure la sagoma del pope:
«Sto ascoltando, pope, sto ascoltando. Ma ti prego, dammi un istante per svegliarmi! Non avrai la febbre, pope? Che vai raccontando? Tutto sembra un sogno, un incubo, un delirio».
«Non ho avuto le traveggole, Axente! Incubo… dici? Ho traghettato con il barcone il diavolo e duemila lupi! E questi sarebbero… deliri!? Sogno, incubo, delirio!» Il pope raccontava gridando come se mi stesse riferendo i fatti da lontano, dall’altra sponda del Mureș, il che non poteva spiegarsi se non per effetto del suo sovreccitamento.
«Hai sentito, Octavia? Questo signore, Axente l’infedele, non ci crede! Lui crede che siano delirio e allucinazione!» Con queste parole il pope si precipitò di nuovo nella stanza grande. Frugò in un cassetto. Trovò dei fiammiferi, accese il lume: «Hai sentito, Octavia?» Ma Octavia non rispose. Il pope andò dietro il paravento. Nel vedere il letto, si fermò: «Ma dove sei, Octavia?»
Mi alzai in fretta dal letto. Chiusi, al buio, dall’interno la finestra che Octavia aveva lasciato con gli scuri leggermente socchiusi dopo che era uscita. Accesi la candela che stava sul tavolo. Il pope ricomparve sulla soglia della stanzetta: «Dov’è Octavia?» Respirava rassicurato nel vedere che Octavia non si trovava nella mia stanzetta.
«E io che ne so?» risposi smarrito, «quando è uscita per andare al guado, io sono andato a letto. Mi sono svegliato poco fa, quando hai sparato il colpo di pistola. Ma che ti è preso per sparare in veranda? Octavia non è lì intorno? Sarà uscita a prendere aria. Si sarà sentita male per il caldo eccessivo! Lascia che mi vesta. È troppo quello ti sei inventato! Ma quali lupi, Vasile! Ma quale Diavolo, Vasile! Svegliati! Basta con queste cose infantili e con queste fantasie! D’altro canto sappi che anche il mio sonno è stato un incubo. Chi diavolo vi ha detto di riscaldare la casa così… che quasi prende fuoco, sul serio!»
Mi vestii un po’ confuso e senza riuscire a dominare il mio tremore. Attesi tesissimo di sentire Octavia entrare finalmente nella stanza grande, provenendo dall’esterno. Ma non comparve.
[…]
«Si sarà sentita male! Tornerà! Eh, così sentirà anche lei quello che è successo la notte di San Nicola nella locanda dei barcaioli! Fandonie da donna, dici? Erano i lupi e il Diavolo!»
[…]
Entrammo nella stanza grande. Il pope si diresse di nuovo dietro il paravento: «Che è successo a Octavia? Dov’è Octavia? Vieni a vedere! Qui ci sono i suoi vestiti, sparsi sulle sedie!»
Andai anch’io dietro il paravento. In effetti tutti i suoi vestiti, dalla gonna alle scarpe di feltro, dalla camicetta alla vestaglia erano gettati lì, alla rinfusa, su una sedia e su uno sgabello.
«Come ha fatto a uscire? Si sarà nascosta da qualche parte?!» E il pope cominciò a cercare agitato dentro l’armadio, negli angoli, dietro i mucchi di sacchi lungo il corridoio cieco. Iniziai a tessere anch’io stupefatto la mia rete di supposizioni e dubbi. Ossia, Octavia, quando entrò da me, non aveva lasciato la vestaglia sulla poltrona, come avevo immaginato. Era entrata nuda nella stanzetta. Dopo il colpo di pistola uscì quindi così com’era dalla finestra.
Il pope entrò nella stanzetta illuminata da un moccolo di candela. Nella stanzetta dove avevo dormito. Preso dall’agitazione, guardò sotto il letto: «Non è neppure qui!»
«Pope Vasile, non credi che dovremmo andare a cercarla fuori?»
«Ma come ha fatto a uscire? Senza niente addosso?»
Scrollai le spalle. Il pope prese la lanterna, che fumicava ancora accanto all’uscio, in veranda. Uscimmo. Mi sentivo sussultare il cuore come in una danza frenetica. Il cortile era coperto ovunque dalla neve. Vedemmo delle impronte, in successione, impresse nella soffice neve che si dirigevano dalla rimessa all’orto. Il pope abbassò la lanterna e scrutò con attenzione: «Impronte di piedi nudi!»
Come un segugio che trova una pista, il pope seguì come impazzito le orme. Gli andai dietro come un automa. Incominciai a intuire tutta la tragedia. Arrivammo all’orto. Le impronte ci conducevano fino alla staccionata sul fondo. Scavalcammo la bassa staccionata fatta di canne, penetrammo fra i cespugli del sottobosco che si estendeva fino al corso del Mureș. L’ultima impronta era proprio sulla riva, come un sigillo impresso sulla terra. Da lì Octavia aveva potuto gettarsi in acqua e sprofondare sotto il ghiaccio. Il ghiaccio copriva il fiume in tutta la sua estensione, interrotto solo da lastre più sottili che aveva creato stretti alvei fra la neve che si era depositata sul freddo carapace d’acqua.



©Humanitas, 1990




A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 10, ottobre 2015, anno V)