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Quando i bambini diventano «nemici del popolo»
Lăcrămioara Stoenescu è nata nel 1942 a Giurgiu. Nel 1969 si è laureata presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bucarest e da allora si è sempre dedicata all’insegnamento come professoressa nel liceo «Cantemir-Vodă» di Bucarest.
Questo libro rappresenta il suo debutto editoriale, al quale ha fatto seguito un secondo volume, Dai banchi di scuola alle prigioni comuniste, pubblicato nel 2010 sempre dalle edizioni Curtea Veche.
Da Bambini – nemici del popolo Lăcrămioara Stoenescu ha tratto gli adattamenti radiofonici «Sono stata un nemico del popolo» e «Un uomo innocente». Dal libro Esercizi di memoria: Una triste parentesi della storia dell’accademico Gleb Drăgan ha elaborato gli adattamenti «Deportati in Siberia» e «Da una sponda all’altra del Prut». Collabora inoltre alla rubrica culturale «Aldine» del quotidiano «România Liberă».
Copii – Duşmani ai poporului
(«Bambini – nemici del popolo»)
Bucarest, Curtea Veche, 2007
Siamo in Romania, in pieno periodo stalinista, con le purghe e gli arresti indiscriminati; è quel periodo che va dal 1950 al 1960, noto come l’«opprimente decennio». La famiglia di Lăcrămioara ha il solo torto di appartenere a una classe sociale borghese – quindi «nemica» del proletariato in quel clima di ribaltamento politico come conseguenza dell’esito della Seconda Guerra mondiale e di furore ideologico. Come se ciò non bastasse, il padre Corneliu aveva lavorato nell’amministrazione pubblica come giudice e pretore durante gli ultimi anni del governo romeno alleato della Germania nazista, per cui si ritrova doppiamente colpevole: sfruttatore del popolo e collaboratore dell’ex nemico. Sono accuse ovviamente del tutto infondate e pretestuose, ma in quel clima politico non c’era scampo. Una notte la Securitate, la famigerata polizia segreta, irrompe nella loro casa per una perquisizione con il pretesto di trovare delle armi. Il padre viene prelevato e portato in una prigione nel nord della Romania, senza alcuna prova, senza un processo né la possibilità di difendersi, privato di ogni libertà, subendo un trattamento disumano come moltissime migliaia di altre persone indifese, vittime sacrificali del dilagante terrore stalinista di quegli anni. A tutto ciò assiste ammutolita la piccola Lăcrămioara: sono scene che le rimarranno impresse indelebilmente per tutta la vita. Alcuni mesi dopo l’arresto del padre, non tardano ad arrivare le conseguenze di questo sopruso anche per il resto della sua famiglia: Lăcrămioara assieme alla madre, Melania, e alla nonna materna, Teodora, vengono deportate in un villaggio nel nord della Moldavia, dopo un viaggio terrificante in un vagone per il bestiame durato una settimana: una situazione degradante e disumana che ricorda i tristi treni della morte in cui venivano stipate le famiglie ebree convogliate verso i campi di concentramento. E durante il confino, Lăcrămioara verrà in contatto con alcune ebree, come la maestra di scuola del villaggio, le uniche persone che dimostrano a lei e alla famiglia solidarietà, comprensione e sostegno morale.
Una volta quindi giunte al villaggio, luogo del domicilio coatto, strappate dalla loro casa, comincia per loro una vita fatta di ristrettezze, costrette a vivere, o meglio, a sopravvivere in mezzo agli stenti, guardate con sospetto e costantemente sorvegliate da un miliziano.
Lăcrămioara dopo un anno viene ammessa alla scuola del villaggio in cui sono confinate. Almeno lì, pur fra tante tribolazioni, può proseguire gli studi, continuando così una parvenza di vita normale almeno per una bambina; il sogno però verrà violentemente interrotto il giorno in cui capita in classe lo stesso preside che, umiliandola di fronte ai suoi compagni, la addita definendola una «nemica del popolo» e la espelle dalla scuola. Un altro triste giorno che rimarrà per sempre impresso nella mente di Lăcrămioara. Per Lăcrămioara quell’episodio rappresentò la fine prematura del mondo dorato dell’infanzia, calpestata e vilipesa da un regime spietato e atroce.
Seguono i capitoli in cui l’autrice narra in episodi ricchi di particolari le vicissitudine occorse alla sua famiglia in quei due tremendi anni di confino, con il padre rinchiuso in una prigione – irraggiungibile pur trovandosi non molto lontano da dove erano la moglie e la figlioletta –, alleviati in parte a seguito della morte di Stalin e del relativo periodo di disgelo che hanno come effetto la fine del confino e il ritorno a casa, nel 1954; qualche mese più tardi anche il padre le raggiungerà: finalmente di nuovo insieme, in «libertà» ma profondamente toccati e feriti nell’anima e nel fisico da quel periodo d’inferno.
L’autrice narra senza patetismi e con lucidità la voragine in cui da un giorno all’altro venne fatta precipitare assieme ai suoi cari. Una testimonianza sconvolgente e commovente allo stesso tempo, una durissima prova di vita vissuta sulla pelle di una bambina strappata all’infanzia, violata nel suo diritto a vivere come tutti i bambini dovrebbero vivere: nella pace dei giochi e nell’affetto dei genitori. Una storia toccante e drammaticamente vera sul cinismo di un regime bestiale e sulla spirale d’odio e di fanatismo in cui l’uomo viene risucchiato trasfigurandosi in mostro.
Offriamo qui di seguito ai lettori un ampio estratto dalla prefazione («A mo’ di prefazione») che è al contempo una sorta di sinossi del libro nella quale vengono colti i momenti chiave della storia in cui è stata protagonista involontaria Lăcrămioara Stoenescu.
Mauro Barindi
Dalla Prefazione («A mo' di prefazione»)
La professione che ho scelto mi è sembrata nobile e insostituibile. Dopo trentasei anni, da quando cioè faccio la professoressa, non la cambierei per niente al mondo e credo di essere un caso unico. Mi sono sempre piaciuti i bambini e mi sono sempre sentita bene in mezzo a loro perché m’infondevano vigore e slancio giovanile. Non ho mai sospettato che potessero essere capaci di essere perfidi e dei delatori.
Per questo, nel luglio 2006, quando la stampa e la tv hanno portato alla ribalta casi di studenti ingaggiati come spie, mi sono chiesta come ex professoressa se ci siano stati, anche fra i miei allievi, ragazzi così i quali, per patriottismo o perché si è abusato della loro innocenza, hanno stretto un patto col diavolo.
Io credo di no, e mi piacerebbe avere ragione. Tuttavia non posso essere certa che alcuni non l’abbiano fatto. Forse ci sono stati figli di securisti, educati in tal senso, o altri che, per eccesso di zelo, erano convinti di servire il proprio Paese. Nascondere tanti segreti ai genitori e ai propri compagni di scuola, sia pur per la sicurezza dello stato, mi sembra già troppo per un adulto, figuriamoci per un bambino…
Tutto ciò è accaduto, forse, anche durante l’opprimente decennio, quando altri bambini, chiamati «nemici del popolo», soffrivano per le ingiustizie inflitte dal regime ai loro genitori.
Pensando che fosse mio dovere far conoscere anche le sofferenze di questi bambini, vittime del regime stalinista, ho deciso di presentarvi la mia storia, quella di una bambina considerata una «nemica del popolo» durante l’«opprimente decennio 1950-1960».
Ho avuto la malasorte di vivere i miei anni d’infanzia durante il periodo stalinista, un’epoca senza precedenti per la Romania, allora chiamata Repubblica Popolare Romena. Ho letto parecchi libri che hanno chiarito i miei dubbi circa quella triste parentesi, ma non ho la competenza di descriverla perché non sono uno storico. Non ne compilerò una lista bibliografica, ma ricordo fra i libri che lo documentano uno che mi ha particolarmente colpito, Il viaggio di Damasco. Confessioni di un ex torturatore, di Doina Jela, poiché si occupa proprio di quel periodo per me lacunoso, nel quale mio padre è vissuto tra le mura del carcere e di cui non ci ha potuto raccontare nulla.
Ho avuto un’infanzia felice e spensierata fino a un certo punto. Figlia unica, sono nata il 22 febbraio del 1942 in una famiglia di piccolo-borghesi (per usare la terminologia stalinista) nella città di Giurgiu, allora nel distretto di Vlașca. Mio papà faceva l’avvocato mentre mia mamma era impiegata. La nostra famiglia era unita e sono cresciuta stretta fra il calore e la comprensione di genitori affettuosi.
Non ho ricordi della Seconda Guerra Mondiale perché ero troppo piccola, ma so, da quanto mi hanno raccontato, che gridavo a squarciagola «Mamma alame!», il che significava che avevo terrore anch’io, come gli altri, dell’allarme che preannunciava i bombardamenti.
All’epoca abitavamo a Comana, nel distretto di Vlașca, dove mio papà, dopo aver vinto il concorso, era riuscito a ottenere il posto di pretore. Anche se eravamo in campagna, esisteva comunque il pericolo di essere vittime dei bombardamenti, anche perché, nelle vicinanze, c’era una base militare. (…)
La mia infanzia era, come dicevo prima, priva di preoccupazioni, ed ero protetta sia dai genitori, sia dalla nonna materna.
Essendo una bambina piena di energie e ben sviluppata fisicamente e intellettualmente, ho ottenuto l’approvazione da parte del medico di cominciare la scuola a sei anni, sebbene l’età scolastica fosse fissata ai sette. Sono entrata in prima elementare nell’anno scolastico 1947-1948 quando in Romania vigeva ancora la monarchia e non era ancora entrata in vigore la Riforma dell’istruzione.
Ricordo che il 30 dicembre del 1947, la Romania è diventata una Repubblica Popolare e la monarchia è stata abolita.
Dopo il primo trimestre, la maestra dovette togliere dalla parete l’icona della Madonna alla quale c‘inchinavamo, che era appesa davanti a noi, e il ritratto del re che si trovava a destra della lavagna, per essere sostituite, così come le era stato detto di fare, dallo stemma della Repubblica Popolare Romena. Sono scene che rimangono impresse nella memoria e che ti accompagnano per tutta la vita, anche se allora ero solo una bambina. (…)
È seguito un periodo di grandi mutamenti sociali, nei quali il sistema precedente è stato annientato. I comunisti hanno cancellato le élite, sostituendole con persone incompetenti, ma di origine sociale conforme al nuovo regime. (…)
Con la legge dell’istruzione fu avviata la sovietizzazione dell’educazione, per cui l’anno scolastico venne suddiviso in quadrimestri, i voti andavano dall’1 al 5, si studiava il russo dalla 4a elementare, mentre al liceo si insegnavano la geografia e la storia dell’URSS, sottraendo le ore di lezioni di storia e di geografia della Romania. I manuali di lingua romena contenevano capitoli in cui si studiavano scrittori russi e sovietici. (…)
Vennero aboliti anche i posti da pretore. Mio papà in un primo momento venne trasferito a Drăgănești-Vlasa, come impiegato e più tardi assunto nell’Impresa Industriale, «Il proletario», di Giurgiu.
Fra il 1950 e il 1953, periodo in cui si effettuavano arresti di massa e i partiti politici venivano sciolti, cominciò anche il calvario della mia famiglia. (…)
La notte del 14 aprile del 1954, alcuni ufficiali della Securitate fecero irruzione nella nostra abitazione dove avevamo trovato sistemazione allora, dato che la nostra casa era stata presa in consegna da un officiale russo. Mi sembra di sentire ancora adesso negli orecchi i colpi alla porta e il frastuono prodotto dagli oggetti scagliati a terra. La giustificazione del possesso delle armi era in realtà un pretesto valido per qualsiasi perquisizione. Ovviamente non fu trovata alcuna arma. Tuttavia mio papà fu portato via dalla Securitate e condotto in prigione.
Assistetti al suo arresto e alla perquisizione della casa, guardando dalla porta socchiusa della stanza da letto. Sebbene fingessi di dormire, registrai tutta la scena, e si fissò nella mia memoria come una pellicola cinematografica. Il giorno dopo mia mamma mi disse che papà era stato arrestato dalla Securitate per motivi che ci erano ignoti.
Perdemmo ogni sua traccia per almeno un mese. Alla fine ricevemmo una lettera nella quale ci veniva comunicato che era recluso a Târgu-Ocna – Onești e che aveva il permesso di ricevere mensilmente una cartolina postale e un pacchetto.
Durante quel mese erano stati effettuati parecchi arresti in città e chiunque si poteva trovare a notte fonda con una Volga nera ferma davanti alla porta di casa e con alcuni securisti con indosso soprabiti in pelle nera.
Non sapemmo né allora né dopo la liberazione di papà, avvenuta il 25 aprile 1954, il motivo dell’arresto. Lui ci disse che era stato imprigionato, senza condanna, per due anni. Come era consuetudine, fu obbligato a firmare una dichiarazione con la quale si impegnava a non rivelare nulla di ciò che gli era accaduto. La mamma e io abbiamo tentato di scoprire che cosa fosse accaduto, ma non ci raccontò nulla. Neppure adesso so come abbia trascorso il tempo in prigione.
In seguito all’arresto di papà, la nostra famiglia composta da mia mamma, Melania Stoesnescu, all’epoca impiegata presso la Sezione Finanze di Giurgiu, e da me, Stoenescu Lăcrămioara, alunna della IV elementare della Scuola femminile n.2 di Giurgiu, ci venne intimato il 10 giugno 1952 di abbandonare la città entro ventiquattro ore; ci era permesso di portare con noi un bagaglio di cinquanta chilogrammi.
Mia nonna materna, Teodora Stroiescu, sebbene non figurasse sulla lista dei deportati, ci seguì per solidarietà, perché pensava che allo stesso tempo ci sarebbe stata di aiuto. Viaggiammo per una settimana in un vagone per bestiame, che si spostava solo di notte, quando le linee ferroviarie erano meno trafficate. Giungemmo alla città di Fălticeni, nella regione di Suceava, nel nord della Moldavia, e da lì a Rădășeni, un comune che si trovava a circa quattro chilometri da essa. Durante l’intero viaggio non sapevamo dove eravamo dirette né potevamo uscire dai vagoni, essendo sorvegliate dai miliziani.
Non ci era permesso di comunicare con i deportati negli altri vagoni. In un solo vagone stavamo accalcate con altre famiglie, fra cui anche quella del fratello di mio padre, George Stoenescu, pensionato, di quasi settant’anni, ex direttore delle Poste di Giurgiu, assieme a sua moglie di cinquantasette anni, ex maestra.
Una volta arrivate a destinazione, le privazioni e le umiliazioni non cessarono. Nel villaggio dove fummo confinate c’erano circa trenta deportati. Noi fummo sistemate presso una signora anziana, una donna senza pietà, che ci tenne al gelo in una stanza senza stufa fino quasi a Natale. Fu necessario l’intervento del miliziano che ci sorvegliava: le ordinò di portarcene una. Allora constatai che non tutti i miliziani erano spietati e che ce n’erano alcuni che non agivano per «eccesso di zelo». (…)
Mia mamma doveva lavorare per sostentare tre persone e per poter spedire il pacchetto a papà. Un anno prima si era ammalata di febbre tifoidea e mi ricordo che era talmente indebolita e sfibrata che dovette imparare di nuovo a camminare. Pur con i suoi quarantotto chilogrammi, quanti ne pesava lei, doveva sollevare e trasportare, insieme a un operaio forestale, panconi di legno per uso industriale pesanti fino a cinquanta chilogrammi. Percepiva un salario spesso ridotto all’osso, cioè meno della metà di un salario medio.
Durante i mesi invernali, quando la temperatura scendeva a -30° gradi e la fabbrica chiudeva, stava a casa e non avevamo alcun reddito. Saremmo morte di fame se non ci fossero venuti in aiuto i parenti e le amiche di mia madre, ma anche loro erano poveri, perché dopo la guerra c’era stata la siccità e da poco era entrata in vigore la Riforma monetaria (1952), per cui la situazione era nera per tutti.
Pur gracile com’era, mia mamma però non si ammalò mai (…).
Prima di Natale, quando ormai mi ero integrata nel gruppo di alunni della 5a della scuola comunale di Rădășeni, vissi un’esperienza incancellabile per una bambina come me di appena dieci anni. Entrò in classe il preside della scuola. Era un evento inusuale: tutti eravamo molto curiosi di sapere che cosa fosse accaduto perché non veniva mai a farci visita in classe. Dopo aver scambiato qualche parola con la maestra, chiese chi tra noi fosse Stoenescu Lăcrămioara. Io, seduta fra due bambini, dato che il banco era di tre posti, mi alzai timidamente in piedi e ascoltai incredula il verdetto:
«Tu sei una “nemica del popolo” e non ti è più permesso di frequentare la scuola. Sei espulsa!» (…)
Non dimenticherò mai quel momento. Non mi fece male tanto il fatto di essere espulsa, quanto quello di essere stata umiliata davanti all’intera classe. Ai bambini veniva sconsigliato di giocare con me o con altri figli di deportati anche prima che fossi cacciata di scuola, ma ora? Che cosa si potevano immaginare quei bambini di me e della mia famiglia? (…)
Mi sono spesso chiesta come mai non abbia fissato nella mente nessuno dei visi dei bambini di Rădășeni, del perché non ricordi nessun nome. È semplice. In quel periodo non parlai con nessuno né ebbi nessuna amica.
(…)
Il 23 marzo 1954 (…) venimmo informate che potevamo tornarcene a casa. Non ci fu però restituita la nostra abitazione perché era occupata da un operaio del ponte appena terminato («il Ponte dell’amicizia») che collegava la Romania con la Bulgaria, e per un po’ abitai a casa del fratello della nonna, mentre la madre e la nonna erano a casa di sua sorella, in via Oinac, 30.
Non dimenticherò mai quel giorno, il 6 maggio 1954, in cui eravamo tutti nel cortile della casa della sorella di mia nonna. Dal cancello cugina arrivò mia cugina di corsa, trafelata, quasi spaventata, per dirci che un vecchio, vestito miseramente, chiedeva di mia madre. Poi ricordo l’urlo di gioia di mia madre che dal cancello avanzava sorreggendo un vecchietto senza forze, che si trascinava la gamba sinistra. I capelli bianchi e la barba brizzolata e i baffi gli conferivano un’aria da santo disceso dal cielo.
Così sembrò a me mio papà nel momento in cui fece ritorno dalla prigionia. Non lo vedevo da due anni. A soli quarantasette anni sembrava già un anziano decrepito. Era invecchiato di almeno venti anni a causa degli anni trascorsi in prigione, che gli avevano causato una paralisi alla gamba sinistra e vari acciacchi al cuore.
Il grido di gioia di mia mamma e le nostre lacrime le ho registrate come una scena indimenticabile, di quelle che meritano di essere ricordate per tutta la vita. La gioia però non durò a lungo poiché la serie di privazioni perdurò: papà trovò lavoro solo dopo un anno, mentre mamma dopo sei mesi. Per sei mesi, quindi, noi quattro potemmo sopravvivere grazie alla carità dei parenti e dei vicini, poiché tutto quello che potevamo vendere terminò rapidamente.
Mia nonna, una donna di quasi settanta anni, venne assunta come operaia stagionale nella Fabbrica di conserve «Fructonil» di Giurgiu, giacché era l’unica che poteva essere integrata al lavoro n on essendo stata inserita nella lista dei deportati o degli arrestati. Fu lei il nostro unico sostegno oltre a quello degli altri parenti che ci davano una mano. (…)
Ho ritenuto che gli eventi da me vissuti rappresentassero una lezione di vita e allo stesso tempo un monito per i posteri. Credo che non dobbiamo scordarci degli orrori del comunismo né quello che abbiamo passato; dobbiamo però anche ricordarci delle parole di Mircea Vulcănescu [1]: «Non cercate vendetta per noi!» Il bambino che è in me da un lato grida per l’infanzia che gli è stata rubata, ma dall’altra piange per quel che potrebbe accadere ancora ad altri bambini.
Vegliamo quindi affinché ciò che è accaduto ai bambini di allora non si ripeta più negli anni a venire.
Traduzione dal romeno di Mauro Barindi
(n. 7, luglio 2012, anno II)
[1] Intellettuale e uomo politico (1904-1952) morto di stenti in prigione per le durissime condizioni di vita, una delle purtroppo numerose vittime delle epurazioni in seguito all’avvento al potere in Romania del regime comunista.
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