Le novelle di Ion Minulescu: «La casa dai vetri arancioni», per la prima volta in traduzione italiana

Il 1908 è un anno cruciale per l’allora quasi trentenne Ion Minulescu (1881-1944), poeta e scrittore, esponente del «rinnovato» simbolismo romeno (una quindicina d’anni prima, nel 1892, era stato Al. Macedonski a dare il la al movimento simbolista in Romania con la pubblicazione in «Literatorul» del manifesto intitolato significativamente Poezia viitorului): è l’anno, infatti, che registra il suo doppio esordio editoriale dando alle stampe prima le raccolte liriche Romanțe pentru mai tîrziu (contenenti le idee guida della riaffermata poesia simbolista giunta alla sua maturità, espresse in Romanța noului-venit, testo coevo all’altro suo articolo-manifesto, Aprindeți torțele!, invettiva contro l’imperante tradizionalismo delle lettere nazionali, pubblicato in «Revista celorlalți» diretta da lui stesso) e Liturghii profane, composizioni apparse tutte in precedenza tra il 1906 e il 1908 in varie pubblicazioni, cui fa seguito il volume di novelle che comprende, oltre a questa, Casa cu geamurile portocalii, proposta qui in traduzione italiana per la prima volta, e che apre il succitato volume, anche Spovedania unui om putred, În grădina prietenului meu e Manuscrise găsite

Un alone di mistero percorre questa novella che si stempera in tinte che vanno a sfociare quasi nell’assurdo: un personaggio strano e… straniero, un inglese dal sangue blu imparentato, si scopre, con la famiglia regale britannica, s’installa con la moglie in un anonimo quartiere della periferia bucarestina per vivere, dopo averla acquistata e rimessa a nuovo, compreso il suo ampio giardino, in una casa di elegante fattura che giaceva inabitata e in rovina, cui egli vuole dare un tocco distintivo che stupisce i passanti: le finestre hanno vetri di color arancione. L’arrivo della coppia getta nello scompiglio il vicinato, composto da persone alla buona e modeste, e poco a poco l’illustre confinante diventa ai loro occhi un essere misterioso e oggetto della loro curiosità e attenzione a tratti morbose. Il culmine della trama è toccato quando l’inglese, nel congedarsi da loro per godersi un periodo di vacanza – l’inverno è alle porte e lo straniero gradisce climi più miti –, organizza una festa nel parco-giardino della casa alla quale invita tutti i residenti e nel corso della quale la moglie appare a una finestra per gettare dall’alto manciate di monete d’argento, mandando in visibilio gli invitati che, azzuffandosi e arrivando perfino ad accoltellarsi a morte, tentano nella foga di farne incetta. A una prima lettura, la novella colpisce e può forse destare qualche riserva nel lettore, eppure una più attenta lettura, magari al di là degli eventi narrati, gli farà scoprire un testo traboccante degli ingredienti più tipici del simbolismo: una certa bizzarria, l’atmosfera di mistero e di fantastico, il crepuscolo autunnale, la descrizione di dettagli puntando su ricercatezze lessicali, allusive e suggestive, pennellate di soffusa malinconia… Si legge fra le righe financo una certa ironia, un tono quasi satirico o burlesco (forse Ion Luca Caragiale aveva colto questo aspetto quando ammirava il talento del giovane poeta?). È un testo insomma che si fa apprezzare sotto più di un aspetto a conferma del suo dirompente valore letterario, un esempio di quella letteratura che preannuncia la rivoluzionaria stagione dell’avanguardia romena.
         

Mauro Barindi



Ion Minulescu, La casa dai vetri arancioni

Dato che gli eredi del proprietario non erano riusciti a giungere a un accordo, vendettero la casa a uno straniero, che i vicini, non sapendo pronunciarne il nome, chiamavano l’inglese.
Costruita in uno stile che i nostri architetti ci hanno abituati a considerare come stile romeno – cornicioni sporgenti, una veranda tutt’intorno, finestre piccole e una porta bassa sistemata su tre gradini di pietra dai margini consunti – la casa nascondeva la sua vetustà dietro alcuni castagni sparsi senza alcun criterio in un ampio cortile, senza vialetti, ricoperto da uno spesso strato d’erba.
Il nuovo proprietario però aveva fatto venire un architetto e un giardiniere – entrambi stranieri come lui – e dopo tre mesi nessuno fra i vicini riconosceva più quella catapecchia in fondo al cortile.
Una sola cosa non riuscivano a capire: da dove aveva preso l’inglese il gusto per i vetri arancioni che aveva fatto mettere alle finestre?
Vista dalla strada, in estate, la casa sembrava più che altro a un quadro che un pittore impressionista avesse pennellato solo di verde, bianco e arancione. 
I vicini – in gran parte gente semplice di rione con poca istruzione e nessun gusto e senso artistico – non essendo in grado di immaginare il bello all’infuori di quello ritenuto tale dalle loro parti, inventarono sul conto dell’inglese una leggenda che, passando di bocca in bocca, finì per essere raccontata in modo diametralmente opposto all’uno e all’altro capo della strada. Tanto bastò che la leggenda – che, riassunta in soldoni, dipingeva l’inglese niente meno come un pazzo pericoloso –, dopo essere stata imparata a memoria da chi abitava nei dintorni, aveva già oltrepassato i confini del rione, giungendo in breve tempo fino all’altra estremità della città.
Gli scolari, in special modo, durante le ore di ricreazione invece di giocare alla cavallina o alla campana, si stringevano in gruppetti e discutevano della questione con la gravità tipica di certi uomini politici prossimi a lasciare i posti di potere.
Un pomeriggio, tre sconosciuti di quella zona, tre giovani dai capelli lunghi, con al collo delle fruscianti cravatte e in testa dei copricapo dalla tese larghe, erano giunti fin davanti alla casa, dove avevano discusso animatamente per più di mezz’ora. Il bettoliere all’angolo, che era stato a origliare, scoprì che quegli sconosciuti, studenti di Belle Arti, erano entusiasti del gusto dell’inglese e secondo loro l’edificio, così come era stato rimesso a nuovo, era il più bello della città.
Il giorno seguente, l’intero rione era montato in collera contro quegli sconosciuti che avevano avuto l’ardire di vestire fogge e di esprimere opinioni difformi dalle loro. E l’indignazione dei pacifici buzzurri della capitale crebbe a tal punto che due dei ragazzotti di fronte ai quali tremava di soggezione l’intero rione fecero solenne giuramento di stare all’erta e di prenderli a randellate qualora fosse venuto loro il ghiribizzo di passare ancora da quelle parti.
Ma assai più della sfacciataggine dei tre sconosciuti, li indispettiva il fatto che il nuovo proprietario, dopo aver fatto restaurare la casa, era sparito nel nulla e nessuno sapeva più nulla sul suo conto. Il giorno di Sant’Elia si compivano cinque mesi da quando non si era più fatto vivo lì. Alcuni personaggi di spicco del rione avevano tentato di parlare con il domestico – un signore anziano che si vedeva solo due volte al giorno, quando veniva a desinare alla bettola all’angolo. Questi però, straniero come il suo padrone, o non conosceva altre parole romene che non fossero quelle delle pietanze, o non sapeva come rispondere alle loro domande. A ciò si aggiunga che il suo guardo arcigno aveva tolto loro ogni voglia di continuare a interrogarlo durante i pasti.
Ben presto tutti si convinsero che nella casa dai vetri arancioni stava accadendo qualcosa di strano. Molti si erano spinti così in là nei loro sospetti da ritenere che non c’era dubbio che l’inglese si trovasse all’interno della casa. Ma perché stesse nascosto tutto il giorno senza uscirne neppure per passeggiare in giardino nessuno sapeva spiegarselo.
Una sera, il gendarme appostato nei pressi della casa dai vetri arancioni raccontò che la notte prima aveva visto schiudersi una finestra e, dopo essersi avvicinato alla cancellata del giardino, aveva scorto, al centro di una stanza, quattro ceri arancioni accesi posti attorno a un alto catafalco coperto da un drappo, che pareva ora verde, ora violetto, a seconda cioè di come lo guardavi: o con entrambi gli occhi, o con uno solo.
Il racconto del gendarme corroborò le convinzioni di coloro che avevano scommesso che l’inglese doveva trovarsi in casa. Coloro invece che pensavano fosse partito, non volendo darsi per vinti decisero di fare tutto il possibile per svelare quel mistero.
La casa dai vetri arancioni li ossessionava a tal punto da aver tolto loro l’appetito, il sonno e la voglia di lavorare.
Un evento inatteso però mise d’accordo al contempo sia gli uni che gli altri. Una notte tutti furono destati nel sonno da un assordante sgommare di ruote. Sei camion carichi di ogni sorta di bagagli si fermarono davanti al cancello della casa. I domestici giunti insieme a essi li avevano scaricati di gran lena e prima ancora che i vicini potessero scuotersi dal sopore, i camion se n’erano già andati. Ma nel cortile della casa tutto era cambiato. Delle lanterne elettriche erano state accese in tutti gli angoli, e le finestre aperte, mentre una folla di domestici formicolava nel giardino e nelle stanze come se si trovasse su un palcoscenico di teatro un quarto d’ora prima che si alzasse il sipario.
Poi, più tardi, un calesse con le tendine abbassate giunse tirato da cavalli al trotto, si accostò alla rampa delle scale e scesero due persone avvolte in lunghi mantelli. Coloro che si erano appostati lì a curiosare, non potevano dire se fosse sceso un uomo o una donna; ciononostante, il giorno dopo, l’ultima novità che circolava nel rione era che di notte l’inglese era giunto in compagnia di una dama.
E ciò corrispondeva alla verità: l’inglese, svanito da alcuni mesi dopo aver avuto cura di riparare la casa e, con gran stupore dei vicini, di installarci delle finestre dai vetri arancioni, vi aveva fatto ritorno accompagnato da una dama che era giovane e bella, sebbene nessuno l’avesse vista in volto, e che gli faceva ora da consorte, ora da amante, così come piaceva pensare che fosse a coloro che perdevano giornate intere parlando di costei.
Una sera però il figlio di un notabile del rione, studente di diritto e copista al Ministero degli Esteri, rese noto loro una notizia a dir poco sensazionale. Lo strano proprietario della casa dai vetri arancioni non era né un pazzo né un tizio qualsiasi. Egli era il nipote della regina d’Inghilterra. Si era innamorato di una artista, che aveva preso per moglie contro la volontà della famiglia e per questo motivo era stato allontanato dalla Corte.
Le dichiarazioni del funzionario degli Esteri avevano gettato nello scompiglio l’intero rione. Se fosse stato un altro a raccontare loro quella cosa, non gli avrebbero conferito la minima veridicità. Il latore delle nuove notizie era però da qualche tempo un’autorità incontestata nel rione dove tutti erano soliti ascoltarlo e nessuno osava contestarne le opinioni. Il fatto comunque non poteva che essere vero, tanto più che, al di fuori di coloro che avevano la fortuna di vivere a contatto con il mondo diplomatico, nessun altro l’avrebbe potuto sapere meglio.
Da quel giorno il rione entrò come in continua agitazione. Pareva che fosse come un enorme calderone di pece, a cui nessuno si poteva avvicinare senza sentirne l’odore e il calore che emanava.
I vicini della casa dalla finestre arancioni, specie da quando avevano saputo che accanto a loro abitava il nipote di una regina, si consideravano diversi da com’erano fino a poco tempo prima. Gli anziani benedicevano il nome del Signore che aveva avuto la misericordia di offrire loro questa gioia che mai si sarebbero sognati, mentre i giovani avevano acquisito in sé una fiducia così grande che divennero più seri degli anziani: parevano più taciturni e più gravi di un generale alla vigilia di una battaglia decisiva, si aspettavano di essere sempre salutati come se la loro superiorità rispetto agli altri fosse stata decretata da un’entità sovrannaturale. Per farla breve, in pochi giorni l’intero rione era cambiato molto più che se fossero trascorsi degli anni, e coloro che fino a poco tempo prima si credevano degli abitanti relegati ai margini della capitale, questa volta i più si reputavano più degni di quelli del centro.
Per loro la casa dai vetri arancioni rivestiva molta più importanza del Palazzo Reale. Non ricordavano che il re fosse mai passato per la loro strada. Il nipote della regina d’Inghilterra invece era venuto ad abitare proprio in mezzo a loro.
Una mattina, il funzionario degli Esteri – il quale da quando aveva portato l’ultima notizia era diventato, subito dopo l’inglese, la persona più importante nel rione – si fece avanti con una nuova proposta che fu accolta tra gli applausi. Suggeriva che la domenica di quella settimana fossero mandati alla casa dai vetri arancioni una bambina e un bambino, ciascuno con un mazzo di fiori, per porgere agli illustri vicini gli omaggi del rione. Ma quando venne il momento di decidere a quali bambini si dovesse affidare questa alta missione, i genitori, ritenendo tutti che i loro pargoli fossero degni di un tale onore, d’accordo con il funzionario degli Esteri, decisero che invece di un bambino e di una bambina vi si mandassero tre bambine e tre bambini.
Quindi il giorno fissato, i bambini vestiti con abiti nuovi – nonostante fosse usanza vestirli così soltanto in occasione della Pasqua – accompagnati dal signor Antonică, il patriarca del rione, si presentarono al cancello della casa dai vetri arancioni.
Un domestico bardato come un generale li fece accomodare dentro. Il signor Antonică, stupefatto dall’abbigliamento del domestico, rimase fuori nonostante che i gesti di questi gli dessero a intendere che poteva entrare anche lui. Gli abitanti del rione attendevano in strada posti a una certa distanza.
Nel frattempo ognuno di loro si poneva tante domande quante non se ne erano poste da quando erano venuti al mondo.
«Il principe saprà parlare in romeno ai bambini?»
«Ma quell’attrice, non sarà una di quelle cogli occhi verdi e cattivi che gettano il malocchio?»
«Dio ce ne scampi, che non mi si ammalino i bambini…!»
Molti avevano perfino incominciato a pentirsi di aver lasciato andare i propri figli. Ma dopo un quarto d’ora circa, il cancello si riaprì e i genitori si tranquillizzarono. I sei ambasciatori ricomparvero accompagnati dal signor Antonică.
Ognuno di loro stringeva in mano una scatolina di cartone, che un signore aveva detto loro di aprire solo a casa. Ma i genitori più curiosi dei figli si precipitarono su di loro e in un battibaleno si levò un grido generale di ammirazione dai petti di coloro che circondavano i bambini: le scatoline dei bambini custodivano un anello, mentre quelle delle bambine un paio di orecchini…
Quando fu domandato loro che cosa avessero visto dentro, nessuno di loro fu in grado di articolare altre parole se non quelle che tutto era bello, bellissimo, più bello che in tutte le loro case, più bello addirittura che a casa del signor Antonică, noto in tutto il rione per tenervi dei quadri con scene dalla guerra romeno-russo-turca.  
Da quel giorno coloro che fino ad allora avevano visto di cattivo occhio l’inglese come loro vicino, incominciarono a pentirsene, e coloro che alcuni mesi prima già avevano elucubrato sul suo conto certe leggende che erano sconfinate ben oltre i confini del rione, non sapevano più che cosa fare perché tutto fosse dimenticato nel modo più rapido possibile. Tutti se ne vergognavano e rimproveravano sé stessi per essere stati capaci di mettere in dubbio qualcosa quando non ce n’era alcun bisogno.
Da quel giorno l’inglese per loro divenne un essere sovrannaturale, uno strano essere di straordinaria magnanimità – la personificazione di un eroe fiabesco che era giunto inatteso, conquistatore di cuori e trionfatore su certi logori pregiudizi. Da quel giorno la casa dai vetri arancioni iniziò a sembrare a tutti tanto bella quanto come avesse avuto delle finestre bianche, e il fatto che in essa abitasse il nipote di una regina, parve loro del tutto naturale, come se l’inglese non avesse potuto vivere da nessun’altra parte se non nel loro rione.
Il giorno dopo il rione riprese perciò come per magia il suo solito aspetto. Davanti al cancello della casa dai vetri arancioni potevano transitare solo quelli che ne avevano bisogno. Erano spariti invece quelli che alcuni giorni prima se ne stavano lì nei paraggi a curiosare. I clienti del signor Nae entravano nella sua osteria solo per le usuali consumazioni, e la celebre stanzetta appartata, nella quale tante volte si era discusso sulle sorti della casa dai vetri arancioni, era diventata nuovamente ciò che era stata alcuni mesi prima…
In tutto questo tempo, l’inglese non si fece più vedere. A nessuno passò per la testa di domandarsi per quale ragione. Il fatto che potessero ogni tanto parlare con un domestico che sapeva anche parlare romeno, li appagava del tutto. Coloro che avevano avuto la fortuna di offrirgli qualcosa da bere, si sentivano onorati tanto quanto l’avessero potuto fare in compagnia dello stesso nipote della regina. L’amicizia del domestico leniva in ciascuno di loro la terribile mancanza di poter stare a contatto col suo padrone. 
E intanto il tempo passava…
Era giunto l’autunno, con le sue dolenti inquietudini di foglie secche e con i suoi malaticci occasi di sole striati di porpora e violetto. Il parco della casa dai vetri arancioni, simile a un dipinto lasciato incompiuto, cambiava ogni giorno di colore. L’autunno aveva imporporato le creste degli alberi e fatto diradare i cespugli di lillà, mentre le fredde pioggerelline avevano scapigliato i castani, disseminando i vialetti di grandi foglie rossastre, incrostate nella rena argentea simili a chiazze di sangue raggrumato…
I vicini della casa dai vetri arancioni avevano ripreso ad agitarsi. Avevano sentito dire che l’inglese si stesse apprestando a lasciarli. Il nipote della regina aveva infatti in mente di trascorrere l’inverno in paesi dal clima più mite.
Se fosse stato in loro potere fermarlo, l’avrebbero fatto. Coloro che non molto tempo addietro si erano domandati che cosa egli andasse cercando in mezzo a loro, ora si domandavano come avrebbero potuto vivere senza di lui.
E intanto il tempo passava…
L’autunno volgeva al termine e il giorno della partenza si stava avvicinando.
Prima però di lasciarli, l’inglese decise di accomiatarsi dai suoi vicini a fianco dei quali era vissuto in tranquillità per quasi tutta un’estate. Nell’ultima domenica di ottobre, si sarebbe avverato il sogno di coloro che vivevano esclusivamente nella speranza di vedere il suo volto e di stringergli la mano. Il nipote della regina aveva annunciato una festa nel parco della casa – una festa con musica, danze e vino.
I domestici avevano raccontato loro che per il giorno della festa il principe aveva ordinato all’estero vini pregiatissimi – da quando si abbatté la filossera, i vini nazionali infatti non valevano più un soldo – e coloro che tante volte erano passati indifferenti accanto alle bottiglie vuote con etichette straniere allineate sugli scaffali dell’osteria del signor Nae, questa volta invece sostavano per ore davanti a esse, studiandole con attenzione, così come fanno le persone esperte quando guardano attentamente gli oggetti d’arte in un museo.
E intanto il tempo passava… e la domenica tanto attesa arrivò.
I vicini della casa dai vetri arancioni, vestiti eleganti come nei giorni di festa, attendevano gravi e silenziosi le ore 3 del pomeriggio, momento in cui era stato annunciato loro che si sarebbero aperti i cancelli.
All’inizio il funzionario degli Esteri si era preso l’onere di comporre un discorso da leggere dopo il signor Antonică. Ma dato che si scoprì che il principe non conosceva un’acca di romeno, e che nel rione non si trovava nessuno che sapesse l’inglese, si rinunciò al discorso.
Gli invitati in cambio dovevano gridare all’unisono Urrà! e sventolare i fazzoletti nel momento in cui i padroni della casa dai vetri arancioni avrebbero fatto la loro comparsa.
Quando però si ritrovarono nel giardino nel quale i più avevano trascorso l’infanzia, giocando a guardie e ladri o a nascondino, giardino che fino a un anno prima era stato sempre quello di sempre e che ora faticavano a riconoscere, tutti si sentirono trapassare il cuore da un gelido sussulto.  
Solo in quel momento compresero anch’essi che cosa significasse sentire un senso di estraneazione. Al loro rione mancava qualcosa, e mancava proprio quello che a loro era più caro. A loro mancava il giardino al quale li legavano tanti ricordi – l’icona della giovinezza con le sventatezze di allora e le notti d’amore di più tardi…
Proprio come era adesso, con i vialetti battuti ed ampi, con gli alberi sagomati a forma di palla dalle cesoie del giardiniere e con statue di marmo bianco disseminate ai bivi dei viottoli, il giardino non era più quello che loro conoscevano. Il loro giardino era diventato qualcosa di estraneo. Quel loro giardino, per loro, non c’era più, e il giardino nel quale allora si trovavano, a loro sembrava di camminarci sopra per la prima volta.   
Furono colti tutti da una tristezza repentina. Era una tristezza che si prova quando si vede qualcuno partire per sempre, un qualcuno che più ti è stato caro. Era quel tipo di tristezza, la più dolorosa di tutte, che non ti fa scendere le lacrime – ché le lacrime col tempo si asciugano – ma che ti scava nell’animo un vuoto enorme che gli anni non possono più colmare. E per loro, per questi animi semplici e ingenui, l’estraniamento del giardino significava l’estraniamento di un brandello della loro vita interiore... 
Fu per questo che, nel momento in cui apparvero i padroni della casa dai vetri arancioni, non si udì alcun Urrà! Chi di loro in quel momento pensava ancora a ciò che si era deciso di fare uno o due giorni prima?
I loro sguardi erano fissi sui tavoli disposti lungo i vialetti, carichi di bottiglie di vini stranieri, quelli di cui aveva parlato loro il domestico…
L’inglese si era mescolato in mezzo a loro, porgendo la mano ai più anziani e tentando con un sorriso di formulare il suo ringraziamento che non poteva esprimere loro con le parole.
Ai più però fu arduo rispondergli con lo stesso sorriso. Sulle loro labbra si leggeva infatti l’amarezza di un eterno rimpianto. E costoro erano quelli che qualche minuto prima avevano sentito aprirsi nell’animo un vuoto che gli anni non posso colmare.
Oh, no… Per quanto quest’uomo, nelle cui vene scorreva il sangue blu di tante illustri generazioni, fosse stato buono e magnanimo nei loro confronti, essi non potevano perdonargli il crimine di averli privati del brandello di vita a loro più caro – l’icona della giovinezza, l’unica consolazione di coloro che da tempo avevano perduto la fede nella compassione dei santi delle altre icone…
A un segnale del principe, però, i domestici iniziarono a stappare le bottiglie di vino. I calici iniziarono a riempirsi, intanto che sulle labbra di alcuni prese a scemare l’amarezza.
Un minuto più tardi, ognuno reggeva in mano un calice.
Il principe alzò in alto il suo, poi girando tre volte in mezzo a coloro che lo circondavano, fece capire che il primo brindisi era alla loro salute.
Il funzionario degli Esteri, che aspettava il momento opportuno, si staccò allora dagli altri e, avanzando di un passo, gridò a piena voce: «Hip hip urrà!...»
E i calici si svuotarono in un sol fiato come se un comandante avesse urlato ai suoi soldati: Fuoco!
La festa aveva preso inizio.
Una musica militare diffondeva walzer e polke uno dopo l’altra…
I giovani danzavano allegri, uno più contento dell’altro di poter far sfoggio dinanzi al principe della propria amata che ognuno reputava più bella di quella accanto. I più anziani si erano stretti in gruppetti attorno ai tavoli, e lì vicino ai calici eternamente pieni parlavano di cose sulle quali solo il vino offre l’occasione di discettare.
E la festa durò fino a sera inoltrata.
Quando non fu più possibile danzare alla luce del giorno, si accesero i globi elettrici disseminati fra i rami spogli, e il giardino riprese vivacità.
I vicini della casa dai vetri arancioni si scordarono del domani. L’ultima domenica di ottobre pareva non aver più fine. Il principe aveva offerto loro l’opportunità di scordare perfino sé stessi.
Quando iniziarono a sentirsi le gambe fare giacomo e il capo appesantirsi per il vino, i più anziani e i più coscienziosi pensarono di andarsene. L’inglese però era svanito senza preavviso e la buona educazione imponeva che al congedarsi ognuno dovesse salutare il padrone di casa.
Erano rimasti quindi tutti sul posto, in attesa che il principe ritornasse, alcuni ancora dubbiosi su quanto era accaduto, altri non ancora sazi e contenti di poter tracannare un altro paio di calici prima di accomiatarsi.
A un certo punto, apparve qualcosa di inatteso che fece levare dalle loro bocche un lungo Oooh…, così come i bambini e le persone del popolo il più delle volte sono soliti fare nel manifestare la propria ammirazione quando si fanno brillare i fuochi d’artificio.
Su un balcone, una donna bella, alta e bionda, vestita in un peignoir arancione, faceva loro segno di avvicinarsi agitando un braccio esile e più delicato di un’ala di rondine.
Era la moglie del principe, la quale, felice quanto una regina nell’ascoltare il suo popolo osannante, sorrideva sorreggendo con una mano un cesto per il grano poggiato sulla balaustra del balcone.
In un batter d’occhio, i vialetti del giardino si svuotarono. Tutti si erano radunati sotto il balcone.
C’era nel volto di questa donna qualcosa di attraente e fatale, qualcosa da cui era impossibile distogliere gli occhi. Il suo ampio gesto aveva fatto radunare tutti in egual misura come se il suo braccio si fosse allungato fino in mezzo a loro e li avesse presi per mano, uno per uno, conducendoli fin sotto il balcone. E coloro che fino ad allora, senza averla vista, avevano sentito dire una infinità di cose sul suo conto, in quel preciso momento capirono perché il principe avesse lasciato la sua famiglia di spontanea volontà per andarsene con lei per il mondo.
Intanto lei aveva infilato una mano nel cesto, poi, tirandola fuori, la agitò per un po’ sopra le loro teste, come a voler domandare se sapessero che cosa vi tenesse nascosto.
Ma chi mai avrebbe potuto immaginare fin dove poteva arrivare la magnanimità dei padroni della casa dai vetri arancioni?
Nella cesta non c’era del grano…
La moglie del principe aprì la mano e una manciata di monete d’argento luccicarono per un momento in aria per poi colare dalle dita delle sue mani sospese sopra il balcone, finendo giù sulla rena del giardino.
Per qualche istante nessuno poté credere ai propri occhi. I più robusti sgomitarono scalzando i più mingherlini. Coloro che riuscirono ad afferrare alcune monete le portarono subito alla bocca e con i denti tentarono di piegarle come se dubitassero ancora della magnanimità del principe.
Un urlo di gioia ferino fece risuonare l’intero giardino… Le monete erano vere. E in quell’istante centinaia di braccia, alcune più lunghe e ardimentose di altre, si protesero verso il balcone, allontanandosi e attorcigliandosi fra di esse come un bosco di abeti piegati dalla tempesta.
La moglie del principe questa volta affondò entrambi le mani nel cesto di monete, e l’argentea grandine luccicante cadeva senza sosta a pesanti e grosse gocce, producendo quel rumore cadenzato come di onde marine che s’infrangono le une sulle altre sempre più gonfie e caparbie.
Sotto il balcone la folla di coloro che alcuni minuti prima avevano festeggiato tranquilli, di colpo si tramutò in un branco di lupi affamati disposti a sbranarsi fra loro.  
Gli uomini si azzuffavano con le donne e i bambini… Con le braccia stese sulla rena, nel tentativo di raccogliere in petto ciò che avevano avuto la fortuna di acchiappare, alcuni si rotolavano sugli altri, graffiandosi in faccia con le unghie o mordendo mani.
Quando le ultime monete d’argento furono terminate, i domestici ne portarono delle altre.
E la candida e luccicante grandine continuò a cadere con il medesimo suono sinistro delle onde e dell’immensità…
Ma all’improvviso, sotto la luce dei globi elettrici, qualcosa di bianco simile a una saetta brillò per un istante e allo stesso tempo un grido di dolore, più simile a un ruggito d’animale colpito a morte, trapassò tutti in tal maniera da spingere ognuno a levare il capo verso il punto da cui era partito.
Che cosa era accaduto?
In quel momento lo poteva sapere solo il principe. Solo lui aveva visto dal balcone come, a un certo punto, un giovane aveva estratto un coltello e con la rapidità che solo la furia della vendetta ti può dare, affondò la lama nella gola di colui con il quale si era azzuffato fino a poco prima.
In quel momento, però, il principe e sua moglie scomparvero. I domestici chiusero in gran fretta le porte e, un quarto d’ora più tardi, la polizia armata accorse con baldanza atletica, invadendo il parco della casa dai vetri arancioni.
Quando si resero conto di ciò che era accaduto, i pacifici abitanti del rione di periferia della capitale si divisero in due fazioni, decisi a battersi fino alla morte, e coloro che fino a poco prima si erano graffiati e presi a morsi, questa volta si menavano fendenti…
Il giorno dopo all’obitorio c’erano tre morti, ogni famiglia nel rione aveva un ferito, e la casa dai vetri arancioni non c’era più.
Il principe, che era partito quella notte stessa, aveva dato ordine di appiccarvi il fuoco. Forse in quel modo aveva voluto far risparmiare ai suoi ex vicini di casa il futuro doloroso ricordo di quella piccola notte di San Bartolomeo.
E il fuoco aveva svolto il suo compito e della celebre casa non erano rimasti che un ammasso di mattoni ancora fumanti e i vialetti del giardino, sulla cui rena le chiazze di sangue raggrumato si confondevano con le grandi foglie rossastre dei castagni…

*

Qualche estate fa, deciso a terminare un romanzo che d’altronde non avevo neppure incominciato, traslocai in una stanzetta che solo dopo molte ricerche scovai in una strada periferica della capitale. Qui immaginavo che avrei trovato tutta la tranquillità di cui hanno bisogno i romanzieri.
La proprietaria, una signora anziana, mi aveva addobbato la stanza come è consuetudine con ogni sorta di ninnoli. Avevo però sentito parlare anch’io dell’attaccamento che hanno gli abitanti di periferia per le boccette di profumo vuote o delle scatolette usate prima come contenitori di cipria o rahat, sicché non mi meravigliai affatto di trovare nella mia stanza siffatta decorazione.
Tuttavia, sopra il letto, legato con un nastro e appeso alla parete come si trattasse di un’icona, penzolava un pezzo di vetro arancione che col tempo aveva cominciato a infastidirmi. Avrei capito ogni altra cosa, ma che scopo avesse nella mia stanza quel pezzo di vetro non riuscivo a capirlo. Quindi un giorno chiamai la proprietaria e la pregai di toglierlo da lì.
L’anziana donna però mi guardò spaventata come se l’avessi spinta a commettere un crimine. «Non si può, signore, non si può…»
«E perché non si può?»
«Perché è stato messo lì da lui.»
«Lui chi?»
«Il mio defunto marito.»
«E a che scopo?»
«Ecco, vede, la faccenda è questa… La notte in cui è bruciata la casa dai vetri arancioni… lei non può conoscerne la storia, e neppure ne poteva aver modo; all’epoca forse lei non era ancora nato…»
E l’anziana signora mi raccontò la favola di cui sopra, che a me in particolar modo piacque più di molte altre, forse proprio perché non era inventata e nel rione non si trovavano molte persone che l’avessero anche vissuta.      
     


(cura e traduzione di Mauro Barindi)

(giugno 2017, anno VII)