|
|
Narrativa interbellica: Hortensia Papadat-Bengescu e il suo «Concert din muzică de Bach»
Un concentrato di debolezze e di miserie umane, di cinismo, di smania di arrivismo, di ricerca di una posizione sociale, di amore e eros piegati il più delle volte a fini puramente carnali o utilitaristici, un panorama di introspezione psicologica desolante e spietato incastonato nella cornice urbana di Bucarest: questo è ciò che offre Hortensia Papadat-Bengescu (1876-1955) in Concert din muzică de Bach (Ed. Ancora, Bucarest 1927), il suo romanzo più noto – che insieme a Fecioarele despletite (1926), Drumul ascuns (1933) e Rădăcini (1938) – compone la tetralogia incentrata sulla famiglia Hallipa) e una delle prove più smaglianti della narrativa romena interbellica.
Pupilla del noto storico e critico letterario nonché suo mentore Eugen Lovinescu, che vedeva nell’«anonima» signora di Ivești, in Camil Petrescu e Liviu Rebreanu la punta avanzata del rinnovamento del romanzo romeno, Hortensia Papadat-Bengescu, influenzata da archetipi proustiani, ci introduce servendosi di un linguaggio e di stilemi originalissimi ma qua e là forse fin troppo densi e farraginosi da leggere e assaporare – il che spiega in parte il suo iniziale tiepido successo di pubblico – nel mondo popolato da una miriade di personaggi (introdotti e ripresi negli altri tre romanzi del ciclo) che ruotano attorno fondamentalmente a tre coppie: la prima è quella formata dalla spocchiosa Elena Drăgănescu con l’aristocratico Hallipa, l’organizzatrice di serate musicali che culmineranno nel concerto-evento finale con musiche di Bach eseguite dal maestro Paul Marcian (la cui comparsa nel romanzo dà vita a un loro intreccio amoroso) e che coinciderà tragicamente con la morte per setticemia della giovane e scorbutica Sia, figlia illegittima, e detestata, di Lina Rim, moglie del dottor Rim – la seconda coppia – nata dal rapporto tenuto nascosto con il cugino Lică detto il Trovatore (in seguito i Rim divorzieranno quando verranno a galla sia la verità sia la tresca che intrattiene con Sia lo stesso dottor Rim); infine, la terza coppia è quella composta dall’opportunista e snob Ada Razu (che avrà come amante Lică) e il principe Maxențiu (che lei sposa unicamente per ereditarne il titolo e gli averi), malato di tubercolosi e figlio illegittimo di un aristocratico decaduto, frutto della relazione con Zaza, una cantante francese di varietà; anche Maxențiu soccomberà alla malattia sempre in concomitanza con il concerto di Bach, un concerto quindi attorno cui lo spettro della morte coagula le tensioni e le ipocrisie dei rapporti tra i protagonisti, sorta di momento catartico in cui vengono tirate le fila delle rispettive vicende intime e personali, più o meno scabrose e imbarazzanti, scrutate e indagate nei loro labirintici percorsi psicologici dalla sottile penna di Hortensia Papadat-Bengescu.
Come già fatto notare nel caso del romanzo Enigma Otiliei di George Călinescu (v. «Orizzonti Culturali» n. 10, ottobre 2014, anno IV), un libro «classico» come questo di Papadat-Bengescu non è stato ancora tradotto in italiano, mentre in altre lingue ha avuto l’attenzione che merita ed è disponibile in ungherese (Kamarazene, Európa, 1964 Kolozsvár, trad. di Éva Lendvay), in tedesco (Das Bachkonzert, Verlag Volk und Welt, Berlino 1967, trad. di Valentin Lupescu), in slovacco (Bachov koncert, Slov. Spisovateľ, Bratislava 1977, trad. di Ján Kerdo), in polacco (Koncert muzyki Bacha, Czytelnik, 1981 Varsavia, trad. di Janina Wrzokowska), in francese (Le concert de Bach, J. Chambon, 1994 Parigi, trad. di Florica Ciodaru-Couriol) e in spagnolo (Concierto de música de Bach, Gadir Editorial, Madrid 2010, trad. di Joaquín Garrigós).
Frammento da «Concert din muzică de Bach»
1
Si udì il campanello della porta d’ingresso. Con la sua solita aria imbronciata, Sia si girò stancamente sulla sedia verso Lina Rim, la quale, con indosso gli occhiali, rammendava il plaid che si era strappato chissà come.
«Tanti!... Stanno suonando alla porta!» disse Sia in tono svogliato.
Lina, che stava infilando l’ago, non rispose subito. Sia guardava il professore, il dottor Rim, immobile sulla poltrona della scrivania, che non diceva nulla; si limitò a sorridere all’infermiera coll’intento di sembrare grazioso e che, naturalmente, così facendo appariva più sgraziato.
Rim aspettava impaziente che gli fosse steso di nuovo il plaid sulle gambe. Non faceva ancora freddo a metà settembre – forse avevano acceso la nuova e maestosa stufa di maiolica un po’ troppo in anticipo – per il momento non avvertiva alcun malanno, ma si premuniva. Era un povero malato che aveva bisogno di tante cure, e a sua disposizione aveva un’infermiera apposta per lui; curava la salute e l’egoismo forte dell’idea che, essendo già stato malato, forse si sarebbe potuto ammalare ancora, per cui, fra questi due piani di sofferenza, si crogiolava nel suo piacevole conforto. Questa beatitudine non veniva intaccata dal suono del campanello. L’arrivo di una visita era un diversivo in più che non lo disturbava.
Sia, invece, pensava che sarebbe giunto anche per lei il giorno in cui non avrebbe più dovuto correre ora dall’uno ora dall’altro, che sarebbe giunto anche per lei il giorno in cui non avrebbe più dovuto chiedere il permesso alla signora Lina per fare qualsiasi cosa. E con questi bei pensieri in testa, ripeté in tono più deciso:
«Tanti, stanno suonando alla porta!»
In effetti, il campanello suonò una seconda volta, timido, incerto.
«Va’ ad aprire, ragazza! Perché fai aspettare tanto?!» disse Lina imperturbabile.
Alla porta c’era Mini che era partita da casa alquanto incerta sul nuovo indirizzo degli amici Rim e aveva vagato un po’ prima di scoprire la targhetta luccicante con su inciso il nome di Lina: Dr. Lina Rim, Ostetrica. Mini aveva sfiorato con precauzione il cancelletto di ferro forgiato fresco di vernice e aveva salito i gradini di quelle scale sconosciute con l’emozione che possono trasmettere delle scale affrontate per la prima volta. Si fermò di fronte alla grande porta, dai vetri gialli, dalla superficie granulosa come un foglio di cellulosa zigrinata, che a lei non piacevano, poi aveva suonato con quella soggezione che si prova davanti a una porta dai vetri gialli dietro ai quali si trovano delle persone appena traslocate. Attendeva con un leggero timore che vibrava in lei assieme al rumore del campanello. Ma per il dottor Rim le uniche vibrazioni erano quelle prodotte dalle corde di un violino. La dottoressa Lina, la sua corpulenta consorte, era stonata, e Sia, l’infermiera, era un blocco di granito in cui albergavano che pochi pensieri, isolati, caparbi. È fuor di dubbio che non passano indifferenti i rapporti di un visitatore con una casa mai frequentata prima; né lo sono i rapporti fra un domicilio e i suoi nuovi inquilini, specie quando si tratta di una casa propria, dove sia la dimora sia i padroni di casa ingenerano ogni reciproco vizio di possesso.
L’agitazione di Mini non si placò quando si trovò davanti a una sconosciuta dall’aria scorbutica con indosso un ampio grembiule bianco da scuola o da ospedale e che le domandava priva di benevolenza:
«Che vuole?»
Fortuna volle che la buona Lina, preceduta da un grosso rocchetto rotolato per terra, arrivasse più asmatica che mai ma sempre ospitale:
«Tu, Mini! Ma che piacere!... Lei è nuova in casa, non sapeva… Mi aiuta a badare a Rim… Non hai idea di quanto sia stato malato!... Come mi fa piacere rivederti!... È mia nipote», aggiunse solo alla fine e forse perché la nipote aveva un’espressione imbronciata.
«Ma che razza di nipote?!» pensò Mini, non del tutto convinta.
Avanzò poi nel primo vestibolo perfettamente adibito a guardaroba. L’ingresso improvvisato, arredato con mobilio nuovo, brillava di pulito. Porte alte, verniciate di rosa e con fastidiose bande dorate erano tenute chiuse, eccezion fatta per quella dello studio dove entrarono.
Nello studio c’erano gli stessi mobili che Mini conosceva già, ma che le parevano estranei per come erano disposti nella nuova stanza. A Mini il signor Rim, a prima vista, parve sempre lo stesso, per sua fortuna si sentiva quindi meno spaesata, ma non per l’eventuale ritrattista del signor Rim.
Dopo le iniziali espressioni di sorpresa del cortese signore, Mini non sapeva dove sedersi, un momento musicale che si potrebbe segnare con un segno di sospensione. Lina si avvicinò la poltrona su cui un momento prima era seduta Sia. Senza conoscere questo particolare, Mini guardò intimorita l’infermiera. Con l’aria più innocente che poteva ostentare il suo serafico viso, Sia ora stava in piedi, appoggiata alla parete, dietro alla poltrona di Rim. Per rompere il ghiaccio, il dottore disse affabile:
«L’Ange gardien!»
Dato che quell’estranea non finiva di piacerle, Mini adottò solo parzialmente quell’appellativo: «Ma perché non se va questa!» si disse.
Sia, facendo un movimento più brusco del solito che scosse la poltrona di Rim, chiese al professore:
«Posso assentarmi per un momento?» disse guardando fulminea fuori dalla finestra.
Mini si girò meccanicamente verso la finestra e scorse sul marciapiede di fronte un uomo che si sollevava sulle punte dei piedi e che portava in testa una paglietta.
«Ah!» fece dentro di sé. Poi con un piccolo sforzo di memoria riconobbe il cugino Lică, Lică il Trovatore. Non andò oltre con il ragionamento. Colse solo un leggero fischiettare e si accorse che Lică ammiccava, sgranchendosi le dita come fossero delle castagnette. Era il Lică di sempre e i suoi segnali erano indubbiamente rivolti all’infermiera. Mini guardò a lungo Lina, poi si girò verso Rim che sorrideva compiaciuto – un pallido sorriso spuntato sulle labbra secche. Lina raccolse da terra il rocchetto dispettoso, rossa e livida in volto, ed esclamò in modo inequivocabile:
«È Lică!»
Era Lică, senza alcun dubbio! In quel momento attraversò di gran carriera la strada, gettando lo sguardo intorno. Si udì un vago mormorio di voci vicino al muro, e poi più nulla.
In modo protocollare, il dottor Rim fece le presentazioni, in sua assenza:
«La signorina Sia Petrescu», disse accarezzando le parole, «nostra nipote!... Figlia unica del simpatico cugino Lică!»
Mini rimase attonita. Aveva conosciuto tale Lică, al contempo umile e sfacciato, in qualità di familiare di rango inferiore. Un Lică che notavi svanire discretamente dietro qualche porta e che nel salotto collocava ordinatamente le scarpe in fila e si rigirava tra le mani il cappello floscio quando si trovava in presenza della severa figura del dottor Rim. Era, tuttavia, con tutta evidenza, lo stesso Lică che Rim apostrofava ora con l’epiteto di simpatico.
Senza dubbio, antipatico Lică non lo era affatto, ma i cambiamenti avvenuti in casa degli amici Rim erano colossali. Mini non commentò affatto quelle novità, proprio perché ne era troppo sorpresa.
«… Lică il Trovatore, padre di quella ragazzotta!... Lică aveva una figlia!... Quel giovinotto che con un fischio chiedeva un rendez-vous, rendeva quindi una visita paterna».
Erano concetti inammissibili, pur se impossibili da contestare.
Rim iniziò a enumerare con minuzia i malanni lasciatisi alle spalle, poi domandò a Mini come avesse trascorso le vacanze.
Mini si congratulò con lui per la nuova casa, e s’interessò dei loro comuni amici, come se avesse voluto coinvolgerli per ritrovare l’intimità.
«La signorina Nory, la nostra fervente femminista, da un po’ di tempo a questa parte fa alquanto la preziosa!» disse il dottore.
«Ha anche lei i suoi grattacapi!» la scusò Lina. «Sai, Mini, quanto bene vuole Nory alla sorella maggiore, Dia, che non sta tanto bene e quando si tratta di lei, Nory si dimentica di tutto. Perfino di approvvigionare la dispensa. Le ho affidato dei bambini belli pasciuti, passati per le mie mani, e non mi è giunta voce che stando da loro son tutti deperiti …! Le devo fare una bella ramanzina… Poveri i miei cuccioli di mamma!
Il dottor Rim sbottò a ridere benevolo. A Mini, cui sembrava di non averlo mai sentito ridere in altre occasioni, quella risata suonò strana.
«Lina è come una chioccia!» disse Rim, indulgente per la prima volta verso le debolezze della buona Lina. «Una chioccia. Raccoglie sotto le sue ali tutti i pulcini altrui… Come per esempio la signorina Sia».
Aver richiamato alla mente di Nini la burbera ragazza venne a spezzare di nuovo il filo di buona intesa. Ma perché Rim continuava a chiamarla sonoramente: «signorina!»?
«In quanto ai Drăgănescu», disse Lina cambiando argomento, «sono perennemente occupati con i lavori in campagna, in città, e con le loro fabbriche! Elena si è data alle novità. Da solo Drăgănescu non si sarebbe mai lanciato in simili immani e coraggiose imprese… E gli va benone… Li vedo di rado: sono sempre in giro o ricevono molta gente… ma io non sono portata per una vita così.»
Mini si ricordò di Elena, la ragazza posata dai capelli neri raccolti all’insù, e poi padrona di casa, con quella sua bellezza particolare come il suo carattere.
Ora Rim pareva all’improvviso meno allegro. Forse si era stancato. Era convalescente, sebbene a Mini sembrasse perfettamente in salute.
«Vuoi che ti sposti sulla sdraio?»
Il professore fece di no con un gesto.
«Allora, quando tornerà Sia!... Vado a mostrare la casa a Mini… Non ti annoierai da solo?» domandò Lina ancora.
«Non ti penare tanto per me!… Sii sincera, diglielo anche tu, cara Mini!...»
A Rim la malattia era senz’altro capitata proprio a fagiolo. Era molto più conciliante. Ma non era più malato.
Lina s’incamminò, ingobbita com’era, felice di farle vedere la villa. Era ingrassata ulteriormente e attorno al collo corto aveva ora due spesse pieghe adipose.
Mini poté ammirare un salotto affrescato e decorato in modo un po’convenzionale, con il mobilio sparpagliato attorno ma pregevole, acquistato, come era evidente, presso una casa agiata, ma senza l’aggiunta di nessun oggetto un po’ più personale. Le camere da letto, ora separate, si trovavano dall’una e dall’altra parte della stanza da bagno. L’ambulatorio, molto spazioso, era provvisto di ogni confort. Qui sostarono più a lungo. I vetri dei tavoli e degli armadi come pure i vari attrezzi brillavano; c’erano diversi lettini provvisti di complicati meccanismi. Lina armeggiò attorno a uno di questi lettini che si sollevò e si allungò trasformandosi in un vero e proprio tavolo operatorio. Mini ebbe un fremito di paura di fronte a quel luogo di intime sofferenze. Lina, invece, si pavoneggiò orgogliosa:
«Questo mi ripaga di ogni preoccupazione! Tutti le pazienti adesso vengono qui. Non sono più io a dover correre su e giù.»
Parlava di quelle sofferenze con compiacimento. Mini ammirò il lusso e l’ordine.
«Faccio anche analisi e lastre radiologiche. Ho anche una piccola farmacia. Ci ho investito seicentomila lei, ma non me ne pento. Sembra che la clientela si sia moltiplicata da quando ho aperto l’ambulatorio. E non sono poche le donne che passano da noi! Temevo che il cambio d’indirizzo le avrebbe fatte allontanare. Eh!... Quando se ne ha bisogno! Specie quando urgono certi bisogni!…»
«Ma saranno più contente comunque quelle che non ci passano», disse ridendo Mini, col timore e il coraggio di chi è perfettamente sano.
In un piccolo angolo nascosto della casa c’era un’altra stanza dove Mini riconobbe il mobilio della loro vecchia camera da letto.
«È destinata agli ospiti!...» spiegò Lina. «Ma ora è occupata da Sia.»
Quindi, abitava proprio a casa loro!... Poi seguì la cucina, minuscola, ma con quel luccichio da laboratorio nuovo di zecca. Lina aveva comprato la batterie di pentole di alluminio con la stessa cura con cui aveva comprato i forcipi.
«Mamma non ci è ancora abituata. Vuole sempre il forno di ceramica e la cantina a volta. La ghiacciaia e la dispensa a muro sono i suoi nemici. Bisticcia un po’ con questa ragazza pazzerella. Io faccio finta di niente… Ho bisogno di lei… Mi servirebbe anzi un’altra domestica. La nostra casa necessita di una continua e buona manutenzione … Io non da sola ce la faccio con il lavoro… Mi alzo alle 5 per poter entrare all’ospedale alle 8 e dopo pranzo non ho tempo di sedermi fino alla fine delle visite… Ora, la sera, soltanto un pochetto…»
Mini fece per aprire bocca e domandare se non la aiutasse la nipote, ma Lina la precedette:
«Meno male che c’è Sia a prendersi cura del dottore!»
«Ma le rimane del tempo libero, credo. Il dottore mi pare abbastanza in sesto!» opinò Mini.
«Ora sì, va meglio. Ma che accessi di gotta ha avuto! Non si poteva più vivere! Da una settimana sembra che gli sia passato. Fortunata Sia! È meno indaffarata.»
«È da molto che sta da voi?»
«Solo da una quindicina di giorni.»
Si fermarono in salotto. Mini si sedette sul bordo di un divano senza sentirsi del tutto a proprio agio. Lina avvicinò a sé una sedia immaginaria, molto più fragile per lei e pareva in vena di confidenze, ma l’intimità latitava ancora.
«Come hai visto, questa casa mi ha sfinita e impoverita. Era un’idea di Rim che voleva esserne proprietario a ogni costo. Io, personalmente, ero terrorizzata dal trasloco. Naturalmente non ci siamo scervellati con progetti e muratori. Ce l’ha venduta un architetto che l’aveva fatta costruire per sé ma che alla fine gli era parsa troppo piccola. Siamo in rosso di ottocentomila lei e non ti dico quando finiremo di pagare. Tutti i risparmi di una vita più un’eredità ricevuta da Rim, e debiti a iosa! Drăgănescu ci ha concesso un prestito a un interesse vantaggioso.»
«E la casa… di chi è?»
«È intestata a entrambi, indivisibile… e così anche le cambiali!» disse Lina ridendo. «Non corriamo certo il pericolo di separarci ora nella vecchiaia. Rim è diventato più malleabile… Non ne hai idea… Non avrei mai creduto che avrebbe accettato in casa Sia così in fretta…»
E Lina, dopo aver finito la frase, si interruppe di colpo come se fosse andata a sbattere contro un ostacolo.
«Non ti ho mai sentito parlare di questa ragazza!»
«Già!... Non la vedevo così spesso… Abitava dalle parti di Mogoșoaia… È la figlia di Lică, come ti ho detto… Era da un pezzo che lui mi chiedeva di trovarle un posto… Non era cosa facile perché è alquanto maldestra… Chissà che cosa gli insegnano là, in quella loro scuola!... oppure lei è proprio di questo stampo!... È sorta sempre da Lică l’idea che la assumessi perché badasse a Rim. Quel pover’uomo ha pensato anche a me… ero sempre così stanca… Ma Rim!... Rim ha fatto il bravo e l’ha accettata. Ora ha qualcuno che gli sta accanto quando manco io da casa… Quando si tratta di prestargli cure più serie, sono sempre io ovviamente a fare le cose più impegnative… Ma ora va meglio, molto meglio!»
«Talmente bene che io credevo che avrebbe ripreso l’insegnamento. Stanno ricominciando i corsi all’università!»
«Non glielo ricordare. Ha appena chiesto un congedo di tre mesi per malattia e ha incaricato un suo sostituto. Vuole lavorare… Sta lavorando a un libro…»
«Ma pur stando in congedo, potrebbe comunque alzarsi, uscire. Gli gioverebbe. S’indebolisce a stare permanentemente seduto come un malato!»
«Lascia stare!... Lascia stare!... Va bene così! Se lui è contento… Fa’ come vuole lui. Non gli dire niente!»
Il carattere scontroso del dottor Rim poteva scusare quale che fosse l’egoismo della buona Lina la quale, al di là delle prescrizioni mediche, voleva tranquillità. Quel Rim però, per il modo in cui si compiaceva di calarsi nel ruolo del malato, nascondeva qualcosa di strano. Mini pensava di riconoscere in lui i sintomi da malato immaginario, che inganna sé stesso e anche gli altri. Sembrava volesse protrarre la malattia chiedendo un supplemento di pseudocure e un’infermiera inutile.
Mini pensava che tale mania da paziente non dovesse essere alimentata da chi gli stava intorno. Le sembrava che si fosse di fronte a un caso di coscienza. Chissà quali forme spiacevoli avrebbe raggiunto Rim, facendo il malato a bell’apposta! Tuttavia non avrebbe ardito insistere per non turbare la tranquillità di Lina.
Si trattava solo di un’impressione, a dire la verità, mentre la contentezza della buona Lina era un fatto. Come avrebbe potuto mettere in allarme Lina basandosi su una cosa così inconsistente, incerta, legata a una malattia immaginaria che poteva essere solo il frutto della sua fantasia!
Si udì come un cigolio proveniente dal cancello.
«Sta tornando Sia», disse Lina.
«Allora tolgo il disturbo», le replicò Mini e passò di nuovo nello studio dove Rim, sempre da solo, non dormiva, teneva solo gli occhi chiusi come chi volesse consumare inutilmente del tempo. Non parve aver notato il suo ritorno.
«Sta ritornando Sia! Ma quanto si perde in chiacchiere questa ragazza!» disse Lina in tono di rimprovero.
«Non le dire niente! La ragazza è stata con suo padre! Ha solo 18 anni!» Un’indulgenza inconsueta per quei sentimenti filiali lenì la voce, solitamente asprigna, del dottore.
Ci fu un momento di pausa nel quale probabilmente Sia sarebbe dovuta entrare perché a Lina era sembrato che stesse per rincasare; sarebbe dovuta entrare perché Lina avrebbe desiderato che Sia udisse e il suo rimprovero e la benevolenza di Rim; oppure perché le parole scambiate lì parevano averle fatto posto affinché entrasse; perché il malato aveva alimentato la propria pazienza e indulgenza per la gioia di quel ritorno; perché la sua assenza era durata abbastanza, se non troppo. Ma non venne, e quel momento rimase sospeso…
«E se vedi Nory», ripeté Lina senza alcun legame apparente, «dille che sono arrabbiata con lei. Dovrò redarguirla. Non mi cura i bambini!»
«I bimbi! I nostri bimbi!» esclamò Rim affettando le parole.
Era decisamente di una magnanimità estrema. Come meglio non si poteva!
In lontananza, in fondo da qualche parte, un’altra porta sbatté rumorosamente. Era l’occasione perché Mini se ne andasse. Porse la mano un po’ di fretta al professore e uscì seguita da Lina. Sempre per la fretta, sbagliò di porta. Non si orientava ancora bene nella nuova abitazione dei Rim e quanta differenza rispetto al passato, quando Lina non la lasciava andare via. La faceva tornare indietro più volte e lei rimaneva con piacere. Mini coglieva quel mutamento senza rammarico. Non avevano più bisogno dell’una e dell’altra. C’era comunque sempre un’intesa.
In veranda, la buona Lina si fece più ciarliera:
«Sai, la cugina Lenora si è sposata con Walter e vanno a gonfie vele. Sono molto carini. Sono venuti a far visita a Rim» e Lina mostrò un vaso di fiori che stavano ormai appassendo. «Eh, casa nuova! I Walter si curano di Coca-Aimée. Sembra che Lenora non abbia avuto al mondo altra figlia che Coca. Non l’hai vista?... È la ragazza più bella di Bucarest!»
E portò un cartone immenso con la fotografia di Coca-Aimée. Era un vero e proprio “fotoritratto”: occhi grandi, probabilmente celesti, occhi da bambola; bocca minuta, troppo piccola; capelli biondi, ricci, tagliati fino a sfiorare sciolti le spalle, come si usa coi bambini.
«Ha 16… anzi 17… ma no, 18…» decise Lina alla fine. «Ma sembra che ne dimostri solo 14, come vedi. Walter si comporta in maniera impeccabile con entrambe… Non te lo scordare, Mini, quando vedi Nory, dille che abitiamo al numero 14; un bel bambino paffutello se n’è andato in cielo, e una bambina deliziosa, che ho fatto ricoverare con sua madre perché non cambiasse il latte, si sta spegnendo di enterite. Anche il figlio di Elena Drăgănescu è quasi tutto itterico… Povero Doru, io lo considero sempre mio cugino, si è impelagato nel podere del suo secondo suocero… Ha ricominciato da capo!... E meno male che non ha altri figli! Quanto lo fanno sospirare i gemelli!...»
Le novità di famiglia, affastellate, confuse irrompevano ora alla rinfusa dalla voce frammista al soffio asmatico di Lina. Nei confronti della famiglia, la buona Lina era rimasta la stessa. Vi aveva aggiunto solo la signorina Sia della quale però non parlava molto.
«Guarda! Scalini di marmo all’esterno. Questi architetti! Che spreco!... Vieni a trovarci ancora, Mini! Hai visto anche tu quanto ha fatto piacere a Rim.»
Il gradimento o no di Lina per le visite era condizionato ora dallo stato d'animo del dottore. Prima esigeva la presenza di alcune amiche per dolersi dei problemi coniugali. Adesso, subordinava tutto alla sua nuova agiatezza. Tanto meglio se era questo a soddisfarla! Mini, per effetto del disorientamento che le cagionò quella casa ignota abitata da persone conosciute ma cambiate da ciò che di nuovo le circondava, se ne andò senza la minima intenzione di tornarci tanto presto. Fin dal principio si era sentita come su un piano quasi inclinato e il mobilio la stordì come se stesse camminando su un nastro mobile. Un lieve mal de mer le persisteva in mezzo al petto. In strada, vacillò per qualche istante come se fosse appena scesa dal ponte di una nave, riprendendo contatto alla fine con la terra ferma. D’altro canto, neppure la via in cui si trovava l’aiutò a raccapezzarsi subito. Il viale da dove era giunta era uguale sia nell’uno che nell’altro senso. Riconobbe solo gli edifici accanto ai quali era passata come da una fotografia risultata mossa. Scorse un tram in lontananza che la trasse d’impaccio. Si diresse colà e si sentì come tratta in salvo. Si fermò un poco sul posto per lasciare svaporare lo scompiglio. Era come se qualcosa di simile a un vino torbido mesciuto in una coppa fosse stato agitato in lei e poi lasciato decantare.
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 12, dicembre 2014, anno IV)
|
|