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«Do Not Cross», eros e ricerca di sé nel nuovo romanzo di Dora Pavel
Le pulsioni erotiche e la ricerca di se stesso di un giovane omosessuale sono al centro del nuovo avvincente romanzo, quasi un thriller, di Dora Pavel, intitolato Do Not Cross (Ed. Polirom, 2013, 181 pp.), un romanzo psicologico e forte dove tensione e introspezione si compenetrano sullo sfondo del drammatico rapimento del protagonista per mano di uno psicolabile.
Nel nuovo romanzo di Dora Pavel (1946) pare aleggiare in qualche modo lo spirito del musiliano Törless tanto che si potrebbe affermare che il protagonista, il ventitreenne Cezar Braia, un ragazzo omosessuale di Bucarest che lavora come receptionist in un hotel, sia una sorta di riproposizione/rilettura di certe atmosfere di quell’opera, insomma un Törless europeo degli anni 2000, un ragazzo che, come l’allievo Törless, affronta i propri turbamenti esistenziali passando attraverso un particolarissimo rito iniziatico alla vita adulta – il rapimento da parte di uno psicopatico fuggito da un manicomio nel negozio di un antiquario proprio nel momento in cui, attratto in modo irresistibile da questi, si lascia andare a un rapporto erotico –, un passaggio drammatico e concitato da lui assunto e affrontato, da questo momento in poi, con lucidità, dopo l’iniziale smarrimento e paura, che prelude e offre il pretesto, in una narrazione giocata su più piani temporali, alle intime confessioni di Cezar e al suo retroterra esistenziale, esposte, ora in forma diretta, ora in forma epistolare – il destinatario è il suo amato non corrisposto, il più anziano Sever Caprini (casuale o no che sia, notiamo l’assonanza con uno dei personaggi del Törless, Basini…) – nella quale l’erotismo, la storia del difficile rapporto con i genitori divorziati e quello con Flavius, il fratello minore, il peculiare rapporto di complicità che s’instaura con il suo rapinatore offrono al lettore una storia unica e conturbante. Perché Cezar, conscio com’è di vivere una doppia condizione – quella del «reietto» sociale in quanto omosessuale e del nevrotico-depressivo – sente prepotente l’urgenza di fuggire da se stesso per cercare, forse, un io rinnovato, una fuga – un ʻviaggioʼ – d'altronde da sempre cercata, fin da quando aveva tre anni. Cezar stabilisce fin da subito con il suo rapinatore un rapporto di empatia, una sorta di «sindrome di Stoccolma», ma, si potrebbe dire, quasi in chiave sadomaso, di padrone-servo, nel quale infatti gli istinti e i fantasmi omoerotici, filtrati attraverso il suo vissuto, giocano nella mente del protagonista-prigioniero un ruolo significativo. Il «Vietato passare» del titolo è il simbolico limite al di qua e al di là del quale il protagonista traccia il confine mentale tra chi lo accetta e chi no, tra il mondo esterno e quello intimo, tra il conformismo delle convenzioni e il sistema di valori di ciascuna persona che non conosce pregiudizi e ostracismi.
Il romanzo poggia su una scrittura originale, in cui è bandito il punto di domanda, e dalle alchimie lessicali inattese che sfiorano il poetico. Do Not Cross è senza dubbio uno dei romanzi più interessanti e intensi usciti in Romania nel 2013, accolto subito positivamente dalla critica fin dalla sua uscita.
Frammento da «Do Not Cross»
Ieri mattina. Avevo fissato un incontro, le cose non andarono affatto per il verso giusto. C’ero andato controvoglia e, sebbene fosse un ragazzo carino (era da poco che lo conoscevo), di colpo fui colpito da quella stanchezza di qualcosa che finisce ancor prima di cominciare, non me la sentivo più di ripercorrere dall’inizio le tappe di un legame, niente aveva più senso, e decisi di essere maleducato, di alzare i tacchi, dopo che ero stato io a insistere tanto per incontrarci, d’un tratto mi alzai dicendo al ragazzo, mentre mi stava parlando, dài, sta’ zitto, basta, vattene, quello neppure aveva sospettato che fossi uno fuori di testa, si limitò a guardarmi a lungo, con un sorriso complice, come se avesse voluto dirmi, nessun problema, ti capisco alla perfezione, è capitato anche a me, me ne vado e basta, va tutto bene. Si alzò anche lui, uscimmo entrambi in strada, io mi fermai, lui mi fece un inchino plateale, mimando una riverenza con il dito indice e medio della mano sinistra che si era portato alle labbra – continuava a sorridere –, poi si allontanò di qualche passo, dandomi le spalle mentre seguitava a guardarmi, ma non perché si aspettasse che io ci ripensassi, era chiaro che non l’avrei fatto, non nego che avrebbe meritato un posto nelle prime file della mia vita, era un tipo scintillante, pronto alla battuta, anche questa cosa mi indusse a troncare la cosa fin dal principio, lo riconosco, mi sembrava superiore a me sotto molto aspetti e la faccenda mi dava sui nervi, non desideravo essere dominato, né adeguarmi al suo ʻlivelloʼ, sicché di punto in bianco volli essere brutale, a tanto almeno potevo arrivare a essere, brutale, imprevedibilmente brutale. Questo è quello che ho imparato. Nel nostro mondo, quello dei gay, è importante sapere questa cosa. Essere brutali. Spocchiosi e brutali. Gli girai le spalle, non mi guardai dietro, né lui mi gridò dietro qualcosa, rientrai nel locale per pagare e mi avviai a piedi verso l’hotel. Fra due ore cominciava il mio turno all’Onyx, alla reception. A mezzogiorno.
Ero sovreccitato. Per darmi una calmata, avevo deviato dal solito tragitto, facendo un giro più largo fra il parco e il bosco, al di là delle ultime case, nei pressi del Giardino Zoologico. La zona non mi era familiare. Vagavo attorno all’area dello Zoo, dove un gruppo di operai si stava dando da fare per tirare alcuni cavi. Stavano ancorando al terreno un enorme hangar per animali di grande stazza, accolti da poco. Lì (mi disse un passante) i quadrupedi sarebbero stati sollevati dai camion e calati direttamente nelle gabbie. Osservavo senza concentrarmi necessariamente su quel che vedevo, indeciso ancora riguardo a quello che avrei potuto fare, senza avere una premura speciale neppure per il lavoro. Avevo la sensazione di aver sprecato il giorno senza ottenere niente, un niente di nuovo sul piano degli «accumuli cognitivi». Con il cervello infestato da tali preziosi sintagmi, non riuscivo a non fermarmi, né a fare attenzione, né a provare alcun interesse speciale per dei tizi che si agitavano su quel terreno fangoso. I loro gesti facevano sperare che spazzassero via da me ogni traccia di tensione negativa, che mi sollevassero da dentro me stesso, che mi rendessero leggero e che mi vezzeggiassero come una piuma. Pensavo che avrei potuto bighellonare nei dintorni senza disturbare nessuno. Girai intorno all’area, una volta, due volte, tentando anche di fissare nella mente quel che faceva l’uno o l’altro. Concentrarmi sui dettagli mi ha sempre fatto bene. La macchina umana funzionava alla meraviglia. Si lavorava in un silenzio assoluto, le braccia s’incrociavano, ricevevano ordini, pareva che stessero eseguendo le istruzioni per la millesima volta, in modo impeccabile. Qua e là, la ghirlanda di corpi e teste, materializzatasi sopra un agglomerato di materiali, di colpo si disgiungeva, sperdendosi e ricomponendosi subito, in un angolo diverso, in un rapporto diverso. Nella febbre di quel momento avvertivo che, se una delle cinghie di trasmissione viventi avesse rallentato o esitato, sarebbe stata eliminata lì sul posto. Lo spettacolo mi emozionava.
Dallo Zoo mi avviai a esplorare i dintorni. Mi ero spinto oltre alcune case periferiche, su un terreno immondo. Vegetazione bruciata, cartoni e stracci, e mandibole equine. Le carcasse di due automobili a pancia in su. Mi dispiaceva di essere finito lì. Non avevo più scelta. Cercavo qualcosa da bere. Incappai così in un negozio, non capii che si trattasse di un negozio d’antiquariato, il locale era quasi al buio, pareva fosse andata via la luce. Non era mia intenzione chiacchierare con il proprietario, di che cosa si poteva parlare con un tipo che non si conosce, anche se molto giovane, ma lui si avvicinò e si rivolse a me in tono cordiale, estremamente affabile, quasi fossimo amici di vecchia data, e io non ci avevo fatto caso. Al principio non gli prestai neanche attenzione, ero distratto dalla sete e dalla gran quantità di carabattole presenti all’interno. Mi guardavo attorno alla disperata ricerca di una bottiglia d’acqua, era per questo che ci ero entrato, e per schermirmi, affinché non lo notasse, gli domandai se in quel posto deserto riuscisse ad avere dei clienti, lui esitò un attimo, poi si rilassò, rise, sì, ho la mia clientela fedele, che pur di venire qui fa di tutto, per un estimatore d’arte non esistono ostacoli, mi aveva parlato con una punta di acredine, come se le banalità che mi stava snocciolando gli offrissero un di più di concentrazione, fu allora che notai alla luce di un raggio i solchi fra le sopracciglia, troppo marcate in un giovane come lui, e quel dettaglio fu sufficiente per far colpo su di me. Avevo dimenticato di avere sete, questo è quel che mi succede quando m’invaghisco di qualcuno e mi faccio travolgere dal primo impulso, cosa che lasciai che mi accadesse anche in quel momento, presi il coraggio a quattro mani, perché non provarci, mi avvicinai in modo tale che lui non mi sentisse, anche se m’illudevo che fosse così, che non potesse sentirmi, un secondo dopo me lo disse pure, sei un ingenuo.
Lo raggiunsi alle spalle, stavo per allungare una mano per sfiorargli quei solchi sensuali, come se per sbaglio gli volessi scostare una ciocca di capelli sulla fronte, aveva i capelli color rame lunghi fino alle spalle, raccolti sulla nuca in una coda di cavallo, e in quel momento si girò, l’ampio palmo della sua mano si curvò a millimetrica distanza dalla mia bocca e dal mio mento come a voler contenerli senza però toccarmi, e quindi mi accadde quello che non avrei mai creduto che mi sarebbe accaduto un giorno, per la prima volta dopo mesi sentii di nuovo quel brivido metallico scorrermi giù lungo il collo fino a raggiungere le braccia, appesantendole fino alla punta delle dita, d’un tratto mi penzolavano come quelle di un guanto appena travolte in pieno da un torrenziale acquazzone estivo, ammutolii dall’emozione e dal piacere, di sicuro dal piacere, non riuscivo a credere che il tipo mi avesse capito al volo, era fra i pochissimi uomini che lo facevano al primo tentativo, riuscivo appena a respirare, la mano gli puzzava di nicotina, se avessi spostato anche solo di un millimetro la bocca, gliela avrei sfiorata e niente mi avrebbe trattenuto dal mordergliela, mi piace mordere, mi piace, ma come si fa a mordere una mano, così, di punto in bianco, fosse anche di un uomo. Sembrava che anche lui si conformasse a tanto, scioccato lui stesso dal proprio coraggio come padrone di casa, anche se era chiaro che non si stava comportando in modo abusivo, come un ʻartistaʼ al quale tutto è permesso, agiva con la virilità di un perverso responsabile, sapeva quando venire, e quanto, e con chi, sembrava farlo con cognizione di causa e con parecchia disinvoltura. Rimasi paralizzato, fra me e me dicevo che non potevo rifiutate una simile offerta dopo l’incontro andato a monte quella mattina, cominciarono a dolermi gli zigomi, pur così, esplorati, non sfiorati, ma che cosa era accaduto e perché si ritraeva e perché gli tremavano le dita, e in quell’istante vidi un tizio corpulento davanti alla vetrina, non sapevo da dove e quando fosse sbucato, ma c’era in lui un’agitazione che mi mise in guardia, andava su e giù per la strada, poi si piazzò di nuovo davanti alla vetrina, attimo in cui l’antiquario contrasse le dita, senza spostarle, tenendomi fermo, suppongo che avesse percepito che stessi per rompere l’incantesimo se l’individuo (che di sicuro aveva visto anche lui) si fosse diretto verso la maniglia della porta e ci avessi scoperti. Io non distoglievo gli occhi dalla sagoma sul marciapiede, non capivo se il passante si fosse fermato per scrutarci o se fosse concentrato su una minaccia esterna, ma il marciapiede era completamente deserto, così come d’un tratto mi pareva che lo fosse anche la città intera, e disabitata, penso che anche per lui l’interno del negozio, e gli oggetti di là della vetrina fossero come immersi nella nebbia, la mia bocca quasi tappata dalla mano di un antiquario esperto nel palpare, la sua voglia e la mia, i battiti del cuore e l’ansimare delle mie labbra, e nel momento in cui l’uomo ricominciò, all’antiquario parve tutto chiaro e, come se si fosse rilassato anche lui, tolse la mano, incrociando le braccia sul petto. Alla fine alzò lo sguardo verso di me. E in quel momento nei suoi occhi vidi che non c’era più traccia di desiderio, ma un vuoto in qualche modo stridente, un vuoto simile a un abisso di ghiaccio che si era spalancato attorno a lui, che non era destinato a me, sebbene stesse per inghiottirmi, per fossilizzarmi.
C’era qualcosa che non andava. Si staccò da me. Corse a far scattare l’allarme. Non ci riuscì. Ci rinunciò, si rannicchiò, infilandosi fra due vetrine. In quel preciso istante, sentii un colpo al fianco. Ero come di pietra. L’individuo notato all’esterno era entrato. Stava passando rasante a me. Mi dette uno spintone. Con una mano volli afferrarlo per il bavero del giubbetto, uno imbottito e sudicio, troppo pesante per questa stagione, ma lui si scansò e la mia mano volò a vuoto. Immagina un colosso d’uomo senza scrupoli, scatenato, nel guscio di una stanza minuscola, al buio. Fece un primo giro, a passi lenti e ampi, lungo il corridoio fra la tavola lunga al centro e gli armadietti a vetri ricolmi di oggetti, accanto alle pareti. Volevo gridare, ma mi fermai in tempo. Si diresse dritto alla panoplia delle armi. Notai le narici inarcate del suo naso. La esaminava, la guardava, ne accarezzava le armi, scelse una pistola di marca. Nella penombra, i suoi fianchi ondeggiavano come una frusta rilucente fatta schioccare sull’acqua. Era così flessibile e agile tanto da essere riuscito a non spostare neanche un oggetto dal suo posto. Ero letteralmente sbalordito. Fece un secondo giro, a passo sempre più spedito. Frugò anche nei cassetti, in cerca di qualche coltello. Ne era attratto. Li contemplava da ogni lato, e ne sottrasse solo uno. A ogni giro, però, si sentiva sempre più a disagio, e questa cosa lo importunava. Il suo andirivieni si fece presto talmente agitato che sentivo l’aria sibilarmi negli orecchi. Non c’era da scherzare. Mi venne paura. Per un istante mi scordai di dove mi trovassi. Mentre frugava per tirare fuori altre armi, a un certo punto l’intruso cominciò ad afferrare qualche oggetto, che cadeva per terra producendo un tonfo lugubre. Ritornando, lo urtava con i piedi, e credo che il sordo rumore prodotto dagli oggetti trascinati, alieno ai suoi sensi, gli infondesse un panico e un nervosismo ancor maggiori. Un candeliere di ottone cadendo lo centrò, strappandogli dalle profondità del ventre un suono ripugnante.
(…)
Nel negozio niente stava più in piedi. Ero terrorizzato. L’antiquario continuava a restare immobile, con la schiena incollata alla parete, atterrito e sgomento tanto quanto me. Giunto di nuovo davanti a lui, il colosso alto due metri si sollevò, piegando la testa per non toccare il soffitto. Non vedevo più il proprietario. Era completamente coperto. Non avevo modo di difenderlo. Neppure io osavo muovermi. L’intruso sbuffava e ansimava, mentre lo misurava con movimenti indagatori, simile a un insetto vorace che ha scovato la propria vittima, ma che ancora non ha deciso in che punto conficcare il suo pungiglione, per vomitargli dentro il veleno e divorarlo. La preda era troppo piccola e insignificante per le sue forze. Tuttavia, sembrava avesse tutte le intenzioni di fargli del male. A ogni costo. Qualsiasi tipo di male. Non il male peggiore. Quando gli pose una mano sulla spalla, senza appoggiarsi a lui, l’antiquario si lasciò piegare docile sulle ginocchia. Gli uscì un gemito impercettibile, vagamente indignato, come se avesse avvertito un’incisione sotto anestesia, sotto ipnosi o nel sonno. Come se ne avesse dato preliminarmente il consenso. Disorientato, l’aggressore allentò la presa, lasciandosi andare anche lui per terra. Erano uno di fronte all’altro come due statue funebri coperte di neve. Quando alla fine l’intruso lo prese con cura per la testa, girandola verso di sé, l’antiquario non si muoveva più. Non si opponeva, era svenuto.
Nell’aria aleggiava una tensione terribile, non capivo se per via dei miasmi sprigionati dai vetusti, viscidi oggetti, ora smembrati e rotti, o per via della nostra sudorazione fredda, di noi tre lì dentro. In modo curioso, mi sentivo lontano da tutto ciò, il terrore mi aveva intontito, sembrava quasi che non mi trovassi lì, ma che fossi un osservatore posto al riparo, di là del paravento. Guardavo attorno a me come da dietro il vetro di sicurezza delle stanze per gli interrogatori della polizia o come se stessi guardando un film in totale relax, con l’animo rilassato, seduto comodamente in poltrona. Lo svenimento del negoziante mi spronò a rischiare. Urlai con tutta l’autorità che potevo, quando il fuggitivo stava giusto per spostarsi, dirigendosi verso di me. Mi sembrò che anche lui fosse spaventato, mentre accarezzava la lama del coltello non ancora usato. Sentì di nuovo alcuni contenitori rovesciarsi rumorosamente a terra. Miasmi penetranti di diluenti usati per la lucidatura saturarono istantaneamente la stanza, rendendo l’aria irrespirabile.
Di colpo, riacquistai il raziocinio e i riflessi, sollevai i piedi dalla polvere, mi trascinai fino alla porta. La spinsi, la spalancai. Era il giunto il momento di svignarmela. Avevo sopportato già abbastanza. Non feci in tempo a muovermi. Dirigendosi verso l’uscita, l’intruso mi “leccò” con il suo corpo umidiccio, intriso di vapori, impregnandomi i vestiti di un tanfo di sostanze osside, di sego e di cera di candela. Fuggito in strada, tornò zoppicando, preso di mira dal suo sguardo contrariato. Tese i muscoli, mi afferrò, mi girò di schiena, mi strozzò il torace con il braccio sinistro. A causa della stretta, mi veniva da vomitare. Allentò un poco il braccio, ma con l’altro mi piantò il coltello sotto il mento. Tremavo come una foglia. Per la paura, la gambe non mi reggevano più, mentre lui mi strattonava perché rimanessi in piedi. Volevo voltarmi per dare uno sguardo ancora al negozio. La lama del coltello penetrò sotto i primi millimetri della pelle. Una spuma rosa inumidì il colletto della camicia.
Giunti sul marciapiede, mentre mi teneva solo per un braccio, il mio rapitore accelerò il passo, forzandomi a muovermi secondo il suo ritmo. Non riuscivamo a trovare una cadenza comune. Tuttavia, mi riebbi in fretta. Eravamo un tutt’uno con l’asfalto, correndo decisi, a balzi, sul margine della strada, come dei cavalli da corsa. La strada era in salita, una pioggia leggera aveva bagnato la carreggiata, rendendo difficoltosa la nostra corsa, cadendo e sbucciandoci le ginocchia e i palmi delle mani. Su, sul punto più alto da cui cominciammo a scendere verso il bosco, persi le scarpe più volte. Dovemmo tornare indietro ogni volta per recuperarle. Quando avvertii, in lontananza, la flebile sirena di un’ambulanza, non ne avevo più bisogno. Mi consideravo già anch’io al riparo.
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 11, novembre 2013, anno III)
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