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Dinu Pillat e il destino eccezionale del romanzo «Așteptând ceasul de apoi»
Il romanzo postumo di Dinu Pillat intitolato Așteptând ceasul de apoi (prefazione di Gabriel Liiceanu, edizione a cura di Monica Pillat, Humanitas, 2010, 316 pp.) è un ritratto della gioventù smarrita e ammaliata dal demone delle ideologie estremiste (di destra) intrise di misticismo e anarchia che segnarono la storia della Romania interbellica. Il destino di questa opera è legato strettamente a quello del suo autore giacché esso ne ha condizionato la vita in modo drammatico. Infatti, per la macchina repressiva comunista romena degli anni ’50, questo romanzo, terminato nel 1948 e ritoccato fino al 1955 (quando Dinu Pillat lo fece leggere in manoscritto, fra gli altri, a George Călinescu e a Tudor Vianu) avrebbe rappresentato uno dei gravi capi d’accusa nel famigerato processo-farsa noto come «lotto Noica-Pillat» [1], architettato dalla dittatura comunista per eliminare l’élite intellettuale a essa sgradita. Con i primi arresti, nel 1958, lo scrittore si premunì di nascondere una copia del manoscritto nella soffitta di casa sua e ne consegnò una seconda alla collega Cornelia Ștefănescu dell’Istituto di Storia Letteraria: entrambe le copie sarebbero state in seguito scoperte e sequestrate dalla Securitate. Accusato ingiustamente di fare in esso l’apologia del pensiero legionario e di costituire perciò un «pericolo per la sicurezza dello stato romeno», lo scrittore fu arrestato nel marzo del 1959 e condannato un anno dopo dal Tribunale militare a venticinque anni di lavori forzati e a dieci di radiazione dalla vita civile. Dinu Pillat, posto in libertà in seguito all’amnistia del 1964, tentò di ritornare in possesso del manoscritto del suo romanzo, ma gli fu comunicato che non ce n’era più traccia, probabilmente perché andato distrutto. Il romanzo sembrava insomma definitivamente perduto e Dinu Pillat, che sarebbe scomparso nel 1975, si rassegnò all’idea di non vedere mai pubblicato quello che egli stesso considerava il suo migliore romanzo (quelli editi in precedenza erano stati Tinerețe ciudată, 1943, e Moartea cotidiană, 1946).
Ma nel 2010 avviene il miracolo: dopo minuziose ricerche grazie agli sforzi congiunti delle ricercatrici Silvia Colfescu, Cristina Anisescu e Raluca Spiridon negli archivi presso il CNSAS («Consiliul Național pentru Studierea Arhivelor Securității»), il manoscritto, considerato perduto fino a quel momento, viene ritrovato e consegnato alla figlia Monica Pillat Săulescu che ne cura l’edizione per la pubblicazione avvenuta nel 2010: dopo 62 anni, il desiderio del padre è così finalmente esaudito e fatta piena giustizia allo scrittore, alla sua opera e alla sua memoria.
In un primo momento il romanzo doveva intitolarsi Tinerii noului veac, poi cambiato con Vestitorii (Messaggeri), che è nel romanzo il nome dei membri del raggruppamento politico di ispirazione mistico-reazionaria capeggiata dal loro leader Toma Vesper; successivamente lo scrittore ha optato per il titolo che conosciamo oggi, più in sintonia col «messaggio» del romanzo. Infatti, questo «momento», questa «ora che viene dopo» è la sintesi dello scontro generazionale – ché questa è anche la lettura che si può fare – che ha luogo nel romanzo. Quindi un «prima» ormai prossimo al tramonto – la fine del periodo «d’innocenza» in qualche modo della Romania interbellica – e un «dopo» che verrà, inquietante, sconosciuto, e foriero non si sa di che cosa – che si scontrano in quel momento storico della Romania e che in modo profetico Dinu Pillat ci prefigura nel tirannico ordine politico vissuto sulla propria pelle anche se si presenta con un altro volto, il volto spietato, illiberale e repressivo – tanto quanto quello a esso politicamente antagonista e sconfitto dalla storia in quello scorcio d’anni – del comunismo staliniano degli anni ’50.
In uno scontro-incontro fra le giovani generazioni della vecchia borghesia benestante e altolocata (qui rappresentate dalle famiglie Holban e Răutu) e quelle provenienti dal basso e meno abbienti (come ad esempio Vasia Voinov, lo studente anarchico di un villaggio della Bessarabia) si coagula il grumo messianico e nichilista che vede nell’assassinio del «nemico» (incarnati da due primi ministri, di cui uno è Sebastian Răutu, assassinati in un attentato) l’unica forma per fare piazza pulita di quella Romania per loro stantia e decrepita che qui viene simbolicamente riferita – agli occhi di questi giovani «huligani» – all’atmosfera buffonesca e intrallazzona che si respira nelle commedie di Ion Luca Caragiale. Sfilano quindi sotto i nostri occhi le varie figure che animano il romanzo, tracciate dalla penna dell’autore nelle quali egli individua per ciascuna un particolare tipo sociale e psicologico.
Gran parte dei personaggi nel romanzo, pur sotto nomi fittizi, ci riconducono chiaramente ai protagonisti reali di quel periodo storico: così dietro Toma Vesper, il capo del movimento dei Messaggeri, si celano Corneliu Zelea Codreanu e la Guardia di Ferro, dietro Sebastian Răutu si cela Armand Călinescu, il primo ministro ucciso dai legionari nel 1939, dietro Rotaru, lo studente di medicina, si cela Noaghia, un esponente legionario, anch’egli medico, conosciuto dall’autore, e così via.
Ma non c’è traccia alcuna nel romanzo, neppure apparente o velata, che ci faccia indurre, leggendolo, a credere che Dinu Pillat guardasse con simpatia al movimento legionario, e che in questo romanzo gli intendesse darne «pubblicità» o esaltarne le gesta. Al contrario! Il fatto è che nella Romania comunista era semplicemente un argomento tabù, neppure proponibile in finzione romanzesca, aspetto che d’altronde l’ottusità manichea e indottrinata del potere non poteva cogliere nella sua essenza artistica, ossia come libera e personale ricostruzione di un fatto storico.
Oggi il romanzo si legge come uno spaccato inquietante dell’epoca tanto nei suoi risvolti romanzeschi (trasfigurazione di eventi storici), quanto in quelli legati alla persecuzione di uno scrittore come Dinu Pillat – che, dopo questa terribile esperienza, non avrebbe più scritto un solo rigo di prosa – la cui unica colpa è stata quella di filtrarli attraverso la propria sensibilità e visione senza per forza trasformarsi nel loro megafono ideologico.
[1] Di particolare interesse è il documentario della TVR nel quale vengono ricostruiti in parallelo i processi Noica e Pillat, e dove si parla ampiamente anche del romanzo di Dinu Pillat.
Frammento da «Așteptând ceasul de apoi»
Capitolo I
Nello stanco scalpitio prodotto dai due ronzini, il carretto procedeva per il suo cammino immerso nella notte, attraversando sconfinati campi deserti. Il contadino aveva preso su solo perché obbligato i tre studenti dopo quanto era accaduto al mercato. Fin da quando si erano messi in cammino, non aprì bocca neppure per un istante, immobile come uno spaventapasseri dietro ai cavalli come se non ci fosse nessuno a condurli.
Rotaru, studente all’ultimo anno di medicina, si chinò di nuovo sul ferito disteso in fondo al carretto, sotto una bracciata di fieno. Dopo avergli tastato il polso, si rimise dritto.
«Ha la febbre alta! Ma va bene, almeno così si è calmato un poco. Quel suo delirare, con le citazioni dall’Apocalisse, è stato drammatico...»
«Non avrei mai immaginato che nel proprio subconscio qualcuno potesse ricordare delle frasi con tanta precisione», osservò il terzo studente, anch’egli studente di teologia come il giovane ferito.
Rotaru taceva, con lo sguardo rapito da una stella cadente che sfrecciava nella profondità di quella notte di luglio. Il silenzio si era condensato sopra lo scalpitio degli zoccoli, facendo scivolare i pensieri in uno stato di torpore, come anche i corpi stretti l’un contro l’altro nello spazio troppo angusto del carretto.
«Ah… Lo vedete?... L’angelo… Esce dal tempio e grida a squarciagola a colui che è seduto fra le nuvole: prendi la falce e falcia perché le messi della terra sono giunte a maturazione… Guardate!... Guardate come vengono gettati i grappoli d’uva nel grande frantoio della furia di Dio!... Il sangue… Il sangue è colato dal frantoio fino a lambire il morso dei cavalli!...», disse il ferito ripigliando ad agitarsi.
Rotaru afferrò il braccio del carrettiere perché fermasse i ronzini.
«Ho paura che abbia un’emorragia. Quanto può mancare ancora fino all’ambulatorio?»
L’altro studente di Teologia scrollò le spalle: era la prima volta che capitava da quelle parti, per cui non aveva alcun modo di conoscere la strada per raggiungere l’ambulatorio del villaggio dove Rotaru svolgeva il periodo di pratica.
In realtà, la domanda era stata rivolta al contadino che rispose solo più tardi, dopo aver osservato il cielo:
«Se Dio vorrà ci arriveremo attorno a mezzanotte…»
Rotaru appoggiò di nuovo la mano sul torace del ferito: il cuore batteva sempre più flebilmente. Non c’era più tempo da perdere. Ritornato al suo posto, piegò le ginocchia accostandole alla bocca, a fianco del ferito infiacchito dalla febbre, meditava maledicendo il giorno in cui aveva deciso di studiare medicina. Forse in questo modo non avrebbe sentito la responsabilità per la vita del compagno, non avrebbe più avuto la lucidità professionale della gravità del suo caso, sentimento accresciuto dalla consapevolezza di non poter fare nulla per lui. Al primo strattone del carretto che era ripartito, si volse involontariamente verso l’altro studente. Quasi non credette ai propri occhi quando lo scorse inginocchiato, con il capo chino e le mani congiunte. Senza dubbio stava pregando. Perché, in quel momento, non poteva fare anche lui la stessa cosa? Non c’è dubbio che Lutero aveva ragione credendo nella predestinazione: ci sono persone dotate fin dal principio della grazia di Dio, mentre ce ne sono altre che ne sono prive, alle quali è negato il diritto alla redenzione fin dalla nascita. Le cose stavano così, quale valore si poteva ancora attribuire alla giustizia metafisica del cristianesimo? Per un istante avrebbe voluto domandarlo al suo compagno, ma pensò che non doveva essere interrotto nelle sue preghiere. Nello sballottio del carretto, i suoi dubbi andarono lentamente scemando, lasciando spazio in fine alle vigorose impressioni del giorno appena trascorso.
Per far mandare all’aria il loro incontro iniziato alla fiera del bestiame che si teneva in un angolo del piccolo mercato ebreo, quale mente folle di paura aveva sparso la voce all’improvviso che erano giunti ad appiccare il fuoco alle bottegucce gremite di gente? Rotaru non aveva mai assistito a un fenomeno di psicosi collettiva come quello. Si ricordò che destarono stupore nel momento in cui giunsero incolonnati marciando, disciplinati come un’unità militare. Il chiacchiericcio nell’emporio, prodotto dalle grida delle contrattazioni e degli scambi, diminuì poco alla volta. La folla eterogenea di contadini, in mezzo alla quale si potevano distinguere con facilità i commercianti ebrei con indosso il berretto e gli stivali, si accalcò attorno al gruppo come se dovessero assistere a chissà quale spettacolino da baraccone. Andrițoiu, che giaceva ora ferito in fondo al carretto, aveva preso la parola, parlando alla gente dell’Apocalisse. Fu in quel momento che, da qualche parte, in fondo alla stradina, si levò il grido straziante di una donna, seguito subito da un tumultuoso e isterico vociferare. Rotaru non comprese le parole in dialetto. Il loro significato però era quello di un grido d’allarme, che preannunciava l’incendio della fiera. Che si fosse trattato di un’azione premeditata? In ogni caso, in quello stesso istante, alcuni gendarmi sbucarono fuori da ogni parte, facendosi largo tra la folla con i calci dei fucili. La battaglia era scoppiata senza altri preamboli, coinvolgendo rapidamente tutta l’area del mercato. Si sollevò un chiasso assordante simile a quello prodotto dalla grandine, frammisto a urla e imprecazioni gridate alla rinfusa, che costrinse il mercato a calare precipitosamente le saracinesche delle bottegucce. Chi aveva sparato per primo? Difficile a dirsi. A un certo punto, mentre si dibatteva per sfuggire alla presa di un gruppo di persone, Rotaru vide lì vicino Andrițoiu rannicchiato a terra, mentre l’altro studente, suo compagno, tentava di aiutarlo. Era stato ferito allo stomaco da un colpo di arma da fuoco. Con gran difficoltà, entrambi trasportarono poi il ferito al riparo in mezzo ai carretti, evitando i punti dove si era accesa la rissa, fino al limitare dell’area della fiera. Lì, sotto la minaccia della rivoltella di Rotaru puntatagli contro, un contadino si lasciò persuadere a fare la strada in loro compagnia.
***
«Mi scusi, il dottor Weissman non lavora più qui?»
Rotaru sussultò sulla sedia. Si era appisolato, con il mento infossato nel petto, seduto nella stanza delle visite dell’ambulatorio. Dopo essere tornato a mezzanotte, si era affrettato a prestare le prime cure effettive al povero Andrițoiu, terribilmente indebolito da tutto ciò che aveva comportato il tragitto in carretto per uno nelle sue condizioni. Aveva poi telefonato a un collega dell’ospedale cittadino per chiedere un’ambulanza. Andrițoiu doveva essere operato al più presto. Il mezzo, giunto più tardi, nella mattinata, era ripartito solo qualche istante prima. L’altro studente di teologia aveva accompagnato il ferito, deciso ad assisterlo fino alla fine. Con i capelli appiccicosi, la barba lunga di due giorni, Rotaru poteva destare solo una pessima impressione in quel momento. Alzatosi in piedi, fece un inchinò un po’ in imbarazzo:
«Mi permetta di presentarmi: Rotaru! Sono il medico che sostituisce Weissman. Sa, è per la pratica estiva, che il Ministero ci obbliga a svolgere nei villaggi… La signora Răutu, se non vado errato…»
Rotaru era stato avvisato da Ghiță, l’infermiere, che Adina Răutu era giunta con il marito al podere, sicché poteva aspettarsi da un momento all’altro una sua visita; sapeva che l’ambulatorio era una delle sue opere di carità.
La moglie del ministro Sebastian Răutu, una donna di circa cinquant’anni, faceva sfoggio della sua età sotto le ampie tese del cappello di paglia. Il leggero vestito estivo, foggiato secondo un modello più consono a una giovane ragazza che a lei, non le donava affatto, mettendo in risalto l’adiposa pesantezza del suo fisico. Altrettanto imbarazzata quanto Rotaru, Adina Răutu scorreva con lo sguardo la stanza, come se ne vedesse per la prima il mobilio: il divano in pelle, l’armadietto di vetro con le siringhe per le iniezioni, i ferri per piccoli interventi chirurgici e i flaconi di medicinali; il ritratto della Regina, che pareva cosparso di lentiggini per via degli escrementi depositativi sopra dalle mosche; il tavolo con il portacenere zeppo di mozziconi di sigaretta, un bicchiere d’acqua e il libro L’homme, cet inconnu del dottor Alexis Carrel. Disse alla fine con un sorriso un po’ forzato:
«Credo che lei stia svolgendo un buon lavoro nel nostro ambulatorio».
La smorfia sulla bocca di Rotaru lasciò scorgere una dentatura deforme:
«Quale lavoro? L’ambulatorio è fornito pessimamente. Da quanto ho potuto sentire, le scorte di medicinali sono state barattate senza vergogna da Weissman. Negli ultimi tempi si era ridotto a fare le iniezioni usando acqua distillata. Sono sprovvisto di neosalvarsan, di acido nicotinico, di chinino, ossia di tutto quello che sarebbe necessario qui. E poi come posso far fronte ai bisogni di una circoscrizione medica che incorpora non meno di cinque villaggi? Giudichi anche lei!»
Adina Răutu abbassò gli occhi. Le si era rivolto con un tono al quale non era abituata. Si sentiva toccata nella sua suscettibilità in quanto fondatrice dell’ambulatorio. Riuscì a dire a stento:
«Lasci stare, a tutto si trova rimedio!»
Rotaru fece un gesto con la mano, più eloquente di qualunque altra cosa.
Ricacciando la sua antipatia nei confronti del giovane dottorando senza maniere, Adina Răutu tentò di essere cortese:
«Signor dottore, non vuole prendere un aperitivo con noi, alla villa? Con l’occasione, potremo discutere delle cose con comodo».
Rotaru non si aspettava un simile invito tanto che lì per lì non seppe neppure che cosa rispondere. E come farlo apposta, pareva che tutti nel villaggio fossero andati a piantare il granturco, e non c’era un solo malato in sala d’attesa che gli offrisse il pretesto per declinare quell’invito. Alla fine, non avendo altra scelta, si vide costretto ad accettarlo. Si tolse il camice rimanendo nei suoi vestiti neri, leggermente lisi. Solo il colletto rimboccato della camicia, di dubbia pulizia, e le scarpe da tennis si adattavano, come tenuta, alla giornata estiva.
Fuori, cammin facendo nella spessa polvere della stradina, con il solleone pomeridiano che picchiava in testa, Adina Răutu riprese la conversazione:
«E in che cosa vuole specializzarsi, signor dottore?»
«In endocrinologia».
«Interessante».
Interessante… Rotaru si rivedeva la sera, nell’angusta stanzetta, intento a leggere il trattato di Simmonet-Brouha alla fioca luce del lume, mentre accanto si sentivano, a sprazzi, i padroni di casa che ronfavano nel sonno immersi nell’aria pesante. Solo allora riusciva a malapena a concentrarsi sulla materia della sua futura specialità che cominciava quasi a sembrargli un miraggio dopo un mese trascorso lontano dalla civiltà. Si sentiva fatto per gli esperimenti in laboratorio, predestinato, forse, a diventare un novello Colombo per il continente della fisiologia umana, ma ancora da scoprire nella sua interezza, alle latitudini delle ghiandole. Invece di avere tempo sufficiente per lavorare nella specialità che si era proposto, si vedeva costretto a sprecare energie in vano, curando la sifilide senza il neosalvarsan e la pellagra senza l’acido nicotinico. Interessante…
(…)
Giunsero nel frattempo al parco, percorrendo il vialetto all’ombra delle folte chiome dei castani. A destra si vedeva il manto erboso che luccicava, appena innaffiato.
Come stava Andrițoiu in quel momento? L’operazione era forse già finita? L’aveva superata bene? I pensieri di Rotaru turbinavano senza sosta attorno al collega ferito, in questo modo poteva almeno estraniarsi dall’atmosfera familiare dei Răutu.
«Sebasto, ti presento il nostro nuovo dottore dell’ambulatorio. L’ho invitato a prendere un aperitivo per conoscerci meglio. Lo lascio in tua compagnia finché finisco in cucina».
Dopo essersi accomodati sulle sedie di paglia, lì a portata di mano nella veranda della villa, Sebastian Răutu domandò a caso, solo per dire qualcosa:
«Allora, come le sembra la situazione qui?»
«Trovo che sia come solo una parola può riassumerla: uno squallore».
«Eh, che vuole, questo squallore è una costante della vita sociale!»
«Certo, ma…»
«Mi perdoni se la interrompo! Lei fa politica per caso?»
«Sì. Ovvero non propriamente…»
«Come? Non capisco».
«Vede, faccio parte del movimento dei Messaggeri».
Sebastian Răutu aggrottò la fronte mentre la mano che reggeva la sigaretta si fermò a mezz’aria. Neanche a farlo apposta, si vedeva perciò costretto di nuovo ad affrontare una questione che aveva tentato di dimenticare solo qualche istante prima.
«Come sarebbe a dire? Perché crede di non fare politica militando nelle file dei Messaggeri?»
«Vede, credo che nel nostro Paese la politica sia come Una lettera smarrita di Caragiale. Perfino oggi, anche se le apparenze danno forse un’altra impressione data la formale evoluzione della realtà. Il Movimento dei Messaggeri non si considera un partito politico alla stregua degli altri, non corrisponde alla mentalità di continuità nell’opportunismo e di compresso dei nostri regimi parlamentari, in cui la realtà è espressione delle parole del cittadino Mitică: “Se ne vanno i nostri, arrivano i nostri…” Noi tentiamo di prefigurare un uomo nuovo».
Sebastian Răutu aveva ascoltato stringendo le labbra, senza guardare il suo interlocutore, incerto se accendersi o no una sigaretta, finché Rotaru terminò quello che aveva da dire. Sul suo volto affilato, ora il naso sembrava ancor più prominente.
«Sono d’accordo con lei sotto un solo aspetto. Effettivamente, Una lettera smarrita rappresenta i nostri costumi politici di ieri e di oggi. E io mi spingerei perfino oltre, sostenendo che l’opera comica di Caragiale ci rappresenterà allo stesso modo anche in un domani. Ma, riguardo a questo, perché si scandalizza? Cațavencu, Tipătescu, Pristanda sono a noi endemici. Che ci vuol fare? Siamo in Romania, alla periferia dell’Oriente… Inoltre, non dobbiamo dimenticare che l’opportunismo e il compromesso, forme con cui si esprime il nostro genio di irrimediabili farabutti, ci hanno sempre salvato come stato. Che cosa le è successo così all’improvviso tanto da scandalizzarsi che ci sia stato dato in sorte di avere per cittadino Mitică e non Gesù? Non si rende conto di coprirsi di ridicolo?»
Sebastian Răutu, che si era accalorato mano a mano, s’interruppe nel momento in cui entrò la domestica portando il vassoio con gli aperitivi.
«La prego, si serva!»
A malavoglia, Rotaru con una mano prese il bicchiere che gli veniva porto e con l’altra infilzò un’oliva con uno stuzzicadenti.
Ma, proprio in quel momento, si udì il rumore delle ruote di una carrozza proveniente dall’ingresso del parco.
«Ah, devono essere arrivati gli ospiti!»
Con un senso di sollievo, Rotaru disse in fretta, riponendo il bicchiere al suo posto sul vassoio:
«La debbo lasciare».
«Bene. Non la trattengo oltre, è già tardi. Però ci vedremo ancora finché resterò qui. Sa come uscire dal parco?»
«Sì. La saluto».
Rotaru si allontanò senza rifare il cammino di prima per timore di imbattersi negli ospiti appena giunti. Sapendo che il muretto che cingeva il parco aveva un cancello più appartato, che dava al villaggio, si avventurò lungo alcuno vialetti coperti dagli aceri e indovinò l’uscita senza smarrirsi più di tanto. Tentava di pensare solo ad Andrițoiu, ma, invece di vedere lui, nel momento in cui era stato portato via dall’ambulanza, con lo sguardo smarrito, con le guance slavate e le labbra livide, era inseguito dalla voce di Sebastian Răutu. Come l’ago di un grammofono rimasto incastrato nei solchi sonori di una lacca difettosa, la sua mente si era fissata su una frase oltre le cui parole non riusciva ad andare: «Cațavencu, Tipătescu, Pristanda sono a noi endemici. Che ci vuol fare? Siamo in Romania, alla periferia dell’Oriente…»
Avendo trovato il cancello chiuso a chiave, Rotaru si vide costretto a scavalcarlo. La stradina era deserta, così come lo era quando era giunto. Sbucò fuori passandogli di traverso solo una gallina che cercava nella polvere qualcosa da beccare.
***
Nel salotto della villa si avvertiva appena l’afa esterna. Dopo essere state scacciate via le mosche, le finestre furono chiuse e le persiane tirate giù.
Entrando nel salotto, Adina Răutu indicò a ciascuno il proprio posto a sedere. I padroni di casa si sedettero a capotavola, con Grigore e Raluca Holban alla loro destra, e il colonnello Ioanid alla loro sinistra.
Mentre la domestica serviva il primo piatto, Sebastian Răutu ricacciò indietro annoiato uno sbadiglio. Ogni volta che venivano in campagna, per inerzia di una consuetudine, invitavano a pranzo i loro vicini di podere. Poi non si vedevano più fino all’estate dell’anno seguente, allorquando il pranzo si ripeteva tale e quale. Sebbene avesse una cinquantina d’anni, quindi dell’età di Sebastian Răutu, Grigore Holban sembrava più della generazione del padre di questi. Calvo, incolore, con il colletto alto, secondo la vecchia moda, andava vestito solo in completo nero e pantaloni con la riga. Aveva compiuto gli studi universitari a Parigi, dove si era specializzato in storia dell’antico Oriente. Dopo la prima guerra mondiale, il padre, membro dell’Accademia e capofila prestigioso dell’ex Partito conservatore, riuscì alla fine insistendo presso le giuste conoscenze a far indire un posto da professore associato nel Dipartimento di storia della Facoltà di Lettere di Bucarest. Ma la carriera come professore universitario di Grigore Holban non durò molto in ragione del fatto che non si trovava nessun cultore che frequentasse i corsi di una specialità priva di qualsiasi interesse contingente. Dopo la soppressione della cattedra, decisione presa con la scusa di risparmiare sul bilancio, si era ritirato per sempre nel suo podere, portando con sé l’intera biblioteca. Da allora viveva là appartato dal mondo, preoccupato esclusivamente dai suoi studi. Talvolta, Sebastian Răutu e gli altri professori si ricordavano di qualche sua brochure sottile, l’estratto da un articolo pubblicato da Grigore Holban in riviste estere di specialità. La moglie e i tre figli lo raggiungevano per trascorrere con lui le vacanze estive, ritornando più in là alla loro casa di Bucarest. Per Sebastian Răutu, Raluca Holban presentava un interesse molto più ridotto. Un modello di virtù domestica, con un residuo di sentimentalismo dell’epoca del principio di secolo.
Il colonnello Ioanid non possedeva nulla del tipico militare di carriera. In effetti, era in pensione già da circa dieci anni e viveva nel podere quasi tutto l’anno. Scapolo, con spassose teorie misogine. Fumava la pipa. Ero solito bere decine di tazze di tè al giorno, che si preparava da solo al samovar. Leggeva solo libri di viaggio. Grande appassionato di scacchi, spesso lo si trovava da solo immerso in una partita iniziata chissà da quando, mentre ricostruiva, seguendo trattati specialistici, mosse citate come leggendarie. (…)
Sebastian Răutu incominciò la conversazione rivolgendosi a Grigore Holban, intento a mangiare chino sul piatto:
«A che cosa sta lavorando, signor Grigore?»
«A qualcosa di estremamente interessante. Purtroppo non dispongo di tutta la bibliografia necessaria. Ho ordinato a Londra quel che mi manca, ma non ho ricevuto ancora niente. Il mio studio s’intitolerà L’influsso della scuola filosofica riformata di Mo-Tseu sulla giurisdizione imperiale all’epoca della dinastia Han.
Seduta di fianco a lui, Raluca Holban arrossì fino alla punta dei capelli osservando come sia Sebastian Răutu, sia il colonnello Ioanid riuscivano appena a trattenere una risata.
Adina Răutu, che fino a quel momento aveva vagato altrove con il pensiero, di colpo ebbe la prontezza d’animo di uscire da quella situazione imbarazzante. Si affrettò a cambiar discorso, domandando all’amica:
«Cara, com’è che quest’anno i tuoi figli non sono venuti con voi?»
Raluca Holban esitò prima di rispondere. Come poteva confessare la verità, rivelando a tutti i presenti che i ragazzi si erano rifiutati di stare in loro compagnia durante le vacanze, come ogni anno, adducendo come pretesto che erano mobilizzati a servizio del movimento dei Messaggeri per tutta la durata della campagna elettorale? Sebastian Răutu avrebbe cominciato senza dubbio con le sue ironie. E se quelle sul conto del povero Grigore aveva imparato a sopportarle, con una stretta al cuore, quelle sul conto di Ștefănucă e di Lucian non avrebbe proprio saputo tollerarle in silenzio.
«Liliana è con noi, solo che è rimasta a casa, pensava che non aveva senso venire da sola, senza i fratelli. Quanto ai ragazzi, sono ancora occupati a Bucarest. Più crescono, e più ti sfuggono».
Adina Răutu domandò ancora:
«Ștefănucă non doveva dare la maturità?»
«No. Gli resta ancora un anno».
Sebastian Răutu ritenne fosse opportuno aggiungere dell’altro:
«Ștefănucă non lo conosco benissimo. Ma su Lucian posso pronunciarmi con totale cognizione di causa. È il miglior studente fra quanti abbia avuto ultimamente. Una mente lucida. Serio. Organizzato. Forse ancora poco personale nelle opinioni, dato che risente l’influsso di certe letture. Ma ciò è insito nella sua età. Ai seminari prende sempre la parola. Sicuro di sé, quasi presuntuoso. Mi piace!»
Mentre venivano cambiati i piatti, il colonnello Ioanid virò il discorso su un tema che gli prudeva la lingua fin dal suo arrivo. (…)
«Avrete sentito, immagino, come intendono svolgere i Messaggeri la loro propaganda elettorale! Demagogia su elucubrazioni cristiane… È un vero scandalo! E quando i gendarmi, allarmati dal carattere anarchico delle loro riunioni, tentano di disperdere la folla, i propagandisti reagiscono sparando colpi di rivoltella. Proprio ieri ho sentito che a…»
Sebastian Răutu non lo lasciò finire:
«A quanto pare, siamo di fronte a un fenomeno di psicosi mistica. Una gioventù allo sbando è caduta preda dello pseudomessianismo di Toma Vesper. Mi è ben noto questo individuo, non a caso abbiamo frequentato insieme il Liceo Internato a Iași. Un idiota… Vi devo raccontare un episodio che sottolinea a sufficienza la comicità del suo misticismo, sicuramente di eredità sifilitica. All’epoca il fatto destò grande scalpore al liceo. Vesper faceva la quinta o la sesta. Era l’ora di religione. Il pope parlava seduto alla cattedra dei “Miracoli nella religione cristiana”. Fra i banchi, la mancanza di interesse era prossima al torpore. Il pope non aveva ancora finito, quando, d’un tratto, si alzò Vesper dicendo: “Padre, vedesse, è capitato anche a me di vivere un miracolo…” Il pope lo guardò storto, mentre l’aula era esplosa a ridere. Ma Vesper non si perse d’animo: “La notte della Resurrezione, mentre tornavo dalla chiesa, uscendo dal villaggio mi è apparso San Giorgio. Il cavallo scalpitava, spaventato dal drago che gli tendeva un agguato nascosto in un angolo. San Giorgio ha sollevato la lancia e ha trafitto in un attimo il corpo della belva…” Potete immaginarvi la faccia del pope! San Giorgio che appare a un moccioso della quinta, e che non era neppure fra i primi della classe… Risultato: Vesper si beccò un bel tre, mentre San Giorgio è diventato l’emblema dei Messaggeri».
Sebastian Răutu tacque. Preso dal racconto, la porzione di arrosto si era raffreddata. Mentre si affrettava ora a terminare quel che rimaneva nel piatto, osservò con dispiacere che non era riuscito a far sortire l’effetto desiderato. Le signore erano rimaste assorte nei pensieri, e pareva che non mettessero in dubbio la veridicità del miracolo. Grigore Holban continuava a tenere gli occhi fissi sul suo piatto, sicché non si riusciva a capire se fosse sorpreso o per lo meno divertito, mentre il colonnello si era limitato a esclamare stupidamente:
«Che roba!»
Mentre veniva servito il dessert, Sebastian Răutu sentì il bisogno di tornare sull’argomento.
«Il sedicente movimento dei Messaggeri rappresenta un pericolo assai maggiore di quanto parrebbe a prima vista. In pubblico, tenta di gabbare la gente in modo demagogico elucubrando sul cristianesimo, come diceva il colonnello. Al loro interno però la realtà è completamente diversa. Sono organizzati in gruppi d’attacco. Sono armati. Si preparano a ribaltare l’ordine politico del nostro sistema statale, senza che a loro importi granché delle conseguenze. La Sicurezza ci invia continuamenti rapporti raccolti dagli agenti infiltrati nelle loro file. Non c’è da scherzare. Devono essere prese delle misure».
Raluca Holban trasalì come colta da un moto d’inquietudine. Mentre prendeva una fetta di cocomero, le tremavano leggermente le mani:
«Quali misure?»
«Sciogliere il movimento in prossimità delle elezioni. Annullare le loro liste di candidati. Chiudere le sedi. Arrestare i capi istigatori. Quasi tutti i membri del governo sono giunti alla mia stessa conclusione. Mi rimane solo di far convincere anche il primo ministro. Nella sua idiozia, s’immagina anche adesso che il movimento dei Messaggeri non sia altro che un giochetto inoffensivo da bambini…»
Il colonnello s’intromise nella discussione:
«Bene, ma come possiamo prendere misure come queste senza prima ricevere un mandato votato dal Parlamento? Mi sembra un caso senza precedenti».
«La forma è la cosa più facile da trovare. Il loro scioglimento si può fare direttamente tramite una decisione del Consiglio dei Ministri. Nulla di più semplice».
Indugiando a consumare il cocomero, Sebastian Răutu continuò per un attimo con un altro tono:
«Ciò che mi pare davvero increscioso è la stessa struttura della vita sociale cui aspirano i giovani Messaggeri. Il mondo “dell’uomo nuovo”. Una assoluta uniformità. Non si ha più il diritto di vedere e giudicare se non attraverso un unico prisma, imposto d’ufficio. La pluralità dei punti di vista, la discussione dei problemi, la dialettica dell’intelligenza sono condannati a diventare dei generatori di caos. Dopo millenni di evoluzione del pensiero, è mai possibile che la forma ideale della società ci debba essere rivelata di colpo in un’arnia o in un formicaio?
Adina Răutu guardava il marito con aria sempre più perplessa. Era sorpresa dal suo accanirsi contro il problema del movimento dei Messaggeri proprio in quel momento, a tavola, parlandone a persone del tutto digiune di politica. Da sempre sapeva quanto fosse scettico, se non addirittura cinico. Giudicava tutto in base a un umorismo tutto suo. Non drammatizzava mai. Ma ora?
©Humanitas, 2010
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 4, aprile 2014, anno IV)
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