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Daniela Zeca-Buzura, «Storia romanzata di un safari». Un'anteprima
Nel nostro Focus incentrato sulle scrittrici romene, Daniela Zeca-Buzura (n. 1966), narratrice, saggista, critico letterario e realizzatrice di trasmissioni radiotelevisive. Nel 2006 è stata insignita dell’onorificenza «Personalità europea dell’anno per la Romania» – sezione audio-visiva – accordatale dalla Fondazione Eurolink e dalla Commissione Europea.
In qualità di scrittrice – la sua prima e grande passione è stata sempre la scrittura – ha al suo attivo diversi volumi di poesia, prosa e saggistica: Orfeea (poesia), Ed. Viitorul Românesc, 1994; Îngeri pe carosabil (Angeli sulla carreggiata), prosa, Ed. Coresi, 2000; Melonul domnului comisar (La bombetta del signor commissario), critica letteraria, Ed. Curtea Veche, 2005; Jurnalismul de televiziune (Il giornalismo televisivo), Polirom, 2005; Totul la vedere. Televiziunea după Big Brother (Tutto sotto la luce dei riflettori. La televisione dopo il Grande Fratello), Polirom, 2007, e Veridic. Virtual. Ludic. Efectul de real al televiziunii (Veridico. Virtuale. Ludico. L’effetto realistico in TV), Polirom, 2009.
Storia romanzata di un safari (Iaşi, Polirom 2009, 2011) è il primo romanzo di una trilogia – il secondo volume, Demonii vîntului (I demoni del vento) è uscito nel 2010, e il terzo, Omar cel orb (Omar il cieco), pubblicato nel 2012 – cui fa da sfondo l’affascinante e misterioso mondo arabo e orientale: il Maghreb nel primo, Dubai nel secondo con un salto temporale in Romania. Nel 2009, Storia romanzata di un safari ha vinto il premio per la prosa assegnato dalla prestigiosa rivista letteraria «Convorbiri Literare».
Il romanzo è la storia di un amore impossibile o di un amore destinato a un ineludibile fallimento tra una donna europea e un uomo nord-africano, maghrebino: l’incontro di due mondi, di due sensibilità, di due mentalità che si offrono in tal modo come metafora dell’«incontro-scontro» di due civiltà, quella europea, occidentale, e quella araba. Il romanzo è in viaggio inoltre – ed è questa un’altra angolazione che il romanzo offre al lettore – dentro la personale ricerca dell’amore della protagonista, che si tramuta anche e soprattutto in una ricerca di se stessa. A tutto ciò fanno da sfondo altri personaggi femminili, che s’intrecciano coralmente con le vicende personali della protagonista, e l’esotico, misterioso paesaggio maghrebino, con le sue distese desertiche, il suo magico e fascinosamente intenso mondo brulicante di colori e di aromi.
Darrielle, questo è il nome fittizio del personaggio femminile al centro della trama del romanzo – una giovane donna di trenta anni: fittizio perché non è quello anagrafico, e che non sarà mai svelato, ma uno inventato da Zaouf, l’anziana cuoca che, assieme a Raouf e Hafa, presta servizio nella casa del ricco maghrebino, Mehria, che Darrielle conosce un giorno, in un locale, da poco giunta in Maghreb (dove ci resterà per due anni) dall’Europa: è un incontro fatto di sguardi, di attrazione, di sfida quasi. Darrielle, su richiesta di lui, accetta il suo invito a rimanere lì, se ne innamora: è così che ha inizio la loro convivenza: «Rinuncio a tutto», dice lei a un certo punto. Si lascia dietro, in un paese e in una città europei non specificati, il posto di lavoro come responsabile di marketing di una compagnia pubblicitaria e una vita personale annoiata e senza più stimoli per avventurarsi in un altro mondo sconosciuto, visto o immaginato attraverso gli occhi viziati da un orientalismo folcloristico, deformato dalla mentalità occidentale.
S’installa quindi nella fastosa casa di Mehria, uomo d’affari, che oltre alla passione per il denaro, ne nutre un’altra per la caccia. Si amano e viaggiano insieme sprofondando nei villaggi e nei paesaggi da una mille e una notte del deserto, le fa conoscere i luoghi magici del Maghreb, dal Marocco all’Algeria, che su Darrielle esercitano un fascino che la strega definitivamente.
Darrielle incontra altre donne – personaggi femminili tracciati a rapide ma vivide pennellate – in questo suo auto esilio maghrebino, ne conosce le storie, ne condivide gli aspetti più intimi, si confronta e apprende il senso dello loro scelte, che in parte sono comuni. La prima è Rhyme, una giovane francese dalla Provenza, convertita all’islam per amore del suo Azmir (il quale prova antipatia e insofferenza per Darrielle, donna, secondo lui, troppo indipendente…), la quale avrà un figlio, non da Azmir, bensì proprio da Mehria: un gesto che pagherà con la vita, perché Mehria le trasmette una sorta di maledizione atavica che condanna a morte le madri della sua stirpe (morirà infatti di parto); Maherzia, la madre di Azmir, che ha altre due figlie, Mona (che diventerà medico) e Karima (che avrà un’avventura con un italiano, un siciliano, ma che si sposerà alla fine con il chirurgo che le ricostruisce l’imene); Sousse Anne, che, a dispetto del nome francesizzante, è un’artista spagnolo, dell’Andalusia, proprietaria di un caffè e galleria d’arte, El Artista, amante dello zio di Mehria, Abrah Sabir: il marito americano, Gordon, avrà un violento alterco con Abrah Sabir per una discussione a sfondo politico; in seguito a questo episodio Sousse Anne decide di rimanere in Maghreb e dopo qualche anno divorzierà; Eglantine, canadese, sposata con Masoud, la bibliotecaria virtuale (proprio così, classifica libri elettronici, perché sofferente di asma e allergica alla polvere di quelli reali): da tutte queste donne che Darrielle incrocia nel suo cammino imparerà qualcosa, ne conoscerà i segreti, le pieghe della vita, le sofferenze, le storie d’amore.
Il libro, oltre a questo variegato e intenso universo femminile, si fa apprezzare anche per la raffinata descrizione di luoghi esotici, ricolmi di colori, di profumi; il momento clou di tale dispiegamento descrittivo è l’escursione nel deserto di Darrielle assieme a Sabir che le fa da guida.
Sintomatici sono poi i messaggi di posta elettronica che si scrivono Darrielle e la sua amica e collega di lavoro (mai menzionata con il suo nome); sono come delle pause, delle parentesi che vengono a lacerare, ogni tanto, all’improvviso, la dolce, placida, cullante atmosfera in cui è avvolta Darrielle, mettendo a nudo le rispettive realtà: Darrielle in quella arcaica, conservatrice, arida, selvaggia del nord Africa; la sua anonima e lontana collega e amica, in quella emancipata e asettica di una nazione europea: sono momenti che contrappongono, per il linguaggio e lo stile, due realtà che, nel loro quotidiano dipanarsi e nella loro ferrea logica, non possono essere più dissimili. Questo scrive Darrielle nel primo messaggio, dopo un anno dal suo arrivo:
«Sono rimasta nel Maghreb per una storia d’amore». Era solo una frase che cancellò con il tasto delete. «Ho scelto di rimanere in Africa, per un mondo che sta per scomparire». Suonava semplicemente melodrammatico. S’immaginò come una frase del genere sarebbe rimbalzata da una persona all’altra nell’ampio ufficio, diviso dai pannelli di cristallo. Cancellò e ricominciò da capo: «Abito in una casa araba, dove aspetto l’alba. Ogni giorno, da un anno. Non bevo più il caffè in mezzo al traffico. Non faccio ordini on-line. Sogno città ammantate di vegetazione, e non le riunioni di bilancio, durante le quali vengo messa con le spalle al muro. Non soffro più per non uscire di sera, né per non essermi iscritta alla palestra. (…) Ho riacquistato l’uso del gusto, dell’olfatto, dell’udito, qualora li avessi mai avuti un tempo. Qui mi occupo delle pene d’amore, ma, questa volta, sul serio (…)».(pp. 61-62)
L’amore per Mehria viene sostituito dall’amore per quella civiltà, nella quale Darrielle conosce anche un’inattesa ascesa professionale (diventerà la manager di un hotel di lusso, El Sultan, acquistato da Sabir) percorrendo un cammino iniziatico spirituale in uno spazio che, alla fine del libro, abbandonerà per far ritorno in Europa, lasciandosi dietro una grande storia d’amore, nell’eterna attesa però di Mehria, l’uomo che avrebbe rinunciato alla sua passione, la caccia, dopo essersi lui stesso lasciato cacciare dalla passione amorosa.
Gli ingredienti che compongo questa storia sospesa tra sentimenti, momenti di dolore, natura allo stato puro e paesaggi da favola sono l’amore, in primo luogo, l’incontro di civiltà, i viaggi, la condizione della donna e le sue sfide, l’evasione da una realtà alienante per rifugiarsi in un’altra totalmente diversa: il lettore viene così condotto per mano in un universo che odora di gelsomino, di aranci, di sabbia, di pioggia del Sahara.
Daniela Zeca è maestra nel descrivere con profondità psicologica i vari personaggi e con poetica raffinatezza i paesaggi visitati e conosciuti personalmente. Un libro, quindi, di reale qualità compositiva e creativa, come opportunamente è stato sottolineato dalla critica romena più qualificata, un libro che in Romania è stato uno dei maggiori successi editoriali del 2009-10, riproposto nel 2011 in seconda edizione per la collana Top 10+ della Polirom che raccoglie il meglio della prosa romena contemporanea. Storia romanzata di un safari è un romanzo che meriterebbe senz’altro di essere proposto in traduzione al pubblico italiano per il suo avvincente ed esotico intreccio narrativo di sentimenti.
I frammenti che offriamo qui colgono i due momenti chiave ed emblematici dell’intero romanzo: l’incontro e l’addio tra Darrielle e Mehria, ossia il principio e la fine – o se vogliamo, il loro mero distacco fisico, perché l’intesa spirituale rimarrà indelebile – di una storia d’amore carica della forza attrattiva e delle idiosincrasie scatenate dal flusso sentimentale di due poli spazio-culturali che si attraggono e che si respingono allo stesso tempo.
Mauro Barindi
Storia romanzata di un safari
(Istoria romanţată a unui safari)
Non aveva mai visto così tante olive in vita sua. Ne era affascinata. Seduta sui gradini della cantina, con le dita dei piedi infossate nella sabbia, inspirava quel profumo di polpa cruda. Assomigliava un po’ all’odore delle noci, ma emanava qualcosa che ricordava anche il miele, il pepe e la cannella.
Aveva sentito quella velenosa fragranza durante le sere invernali, nella medina, e non sapeva a che cosa paragonarla. Tutti erano rintanati nelle case e sul Mediterraneo pioveva come in un bagno di piombo fuso. C’era un caldo afoso, e quel balsamo pareva trasudare dai muri delle stradine strettissime, dalla cupola della moschea, dai banchetti dei venditori di pistacchi.
Sulle lapidi delle tombe del vecchio cimitero islamico cadeva una pioggia tiepida, che lavava le lapidi piatte e spoglie. A dicembre, le olive venivano già raccolte in botti e trasportate al porto, pronte per il Natale degli europei. Sembravano lacrime di onice e di smeraldo, immerse nel sale, cristalline come l’iride attraverso cui l’Africa vegliava.
Le olive erano diventate il suo cibo preferito. Venivano offerte in ogni caffè del golfo, accompagnate da burro di bufala e pagnottelle.
Quando non era Ramadan, entrava nei graziosi bistrò di Sidi Bou Said e ordinava da mangiare solo per levarsi il recondito piacere di gustare quelle perle nere, vellutate, che abbinava a un bicchiere di vino. Era il gesto coraggioso di una ex occidentale. Gli uomini arabi la guardavano di traverso, anche se tutti però avrebbero desiderato portarsela a letto. Le loro donne non erano così esperte nell’avvicinare il bicchiere alle labbra. Aveva visto delle giovani mussulmane che tentavano di assumere un atteggiamento anticonformista. Non consumavano mai bevande alcoliche, ma stavano sedute ai tavoli dei caffè pieni zeppi di maschi e fumavano, ridendo chiassosamente. Lasciavano passare il tempo. Si accontentavano di lanciare fulminee occhiate, come dei serpenti, perché erano poche quelle che si spingevano oltre. Quando calava il sole, tornavano a casa, da sole, così come erano venute.
Mehria l’aveva conquistata in quel modo. Era entrato nel locale e, dopo aver gettato le chiavi sul bancone, ordinò un brick à l’oeuf [1]. Stava in piedi, di spalle, pronto a ingurgitare in tutta fretta il ripieno sotto la crosta croccante, e la vide mentre sorseggiava il vino.
Era una turista bianca, al limite della spudoratezza, non perché stesse bevendo del vino, ma perché stava immobile, reggendo lo sguardo dell’uomo che la osservava seduta al tavolo.
Era rimasto con la forchetta sospesa in aria e il bicchiere di boukha [2] ancora pieno, ma lei continuava a sorseggiare il suo vino e a guadarlo: avresti detto che con gli occhi gli stesse dicendo «Avvicinati», ma non ne era del tutto sicuro, né aveva intenzione di farlo, per non mettersi in ridicolo. «Avvicinati», ma lui esitava, e allora accadde qualcosa di peggio: le sfuggirono le chiavi che cascarono a terra, scivolando sulla superficie di zinco del tavolino, finendo tra i piedi dei passanti. Lei sorrise socchiudendo le palpebre e fece qualcosa che nessuna donna della sua stirpe avrebbe mai fatto. Chiamò il cameriere che si piegò e si rialzò di scatto, come un puma. Ripose le chiavi davanti a lei che gli allungò una mancia. Lui era rimasto soggiogato da quel duello fatto di sguardi, da quel suo atteggiamento spudorato mentre lo guardava dritto negli occhi.
Un tempo i suoi pensieri furono rivolti solo al verde-azzurrognolo dei pini di Ain Draham e alle strade impraticabili che salivano verso Krumiria. Qui si poteva percepire l’Africa come un presentimento. Nella quiete delle colline, l’Africa era una brezza riarsa, che vibrava fra i tronchi di eucalipto e fra le chiome dell’erba alta, sopra cui la luce si coagulava in chicchi d’ambra. Era difficile credere che si potessero trovare dei cinghiali nelle distese di calcare e di alberi da sughero, ma Mehria ci era andato a caccia tante volte, celebrando poi i bottini di caccia nelle capanne di Col des Ruines e nelle masserie di Jendouba.
Lei era rimasta a Djebel Bir con le donne e i bambini, in attesa di vedere sorgere il sole e profilarsi l’Algeria che stava di là del confine.
Erano i primi viaggi in compagnia di Mehria, su percorsi fatti di carne e di sangue. I verri selvatici puzzavano di carbone bagnato, altre volte solo di cuoio marcio. I cacciatori accendevano dei falò bruciando rami di nocciolo, sotto l’ala riparatrice delle colline, cucinando funghi e granoturco.
Un ragazzino le porse una focaccina e delle scaglie di formaggio di latte di capra. Stavano provvedendo a tranciare la carne. Più a valle di Djebel Bir, a Tabarka, vivevano infatti delle comunità di cristiani, che si procuravano la carne di maiale da consumare durante i piovosi mesi invernali.
Si sentiva così in imbarazzo in mezzo alle donne radunate attorno ai recipienti di legno e allora con lo sguardo attirò l’attenzione di Mehria. Un bambino rosicchiava una melograna con grani simili al quarzo e la fissò per un istante alzando lo sguardo al di sopra delle fiammanti vampe di fuoco.
«Come ti chiami?»
«Samir…»
«Non sa parlare molto bene il francese», le disse sua madre.
Mehria attraversò il campo, con i suoi ampi passi da battitore di caccia, fermandosi in prossimità della boscaglia «Se vuoi, puoi venire con me…»
Improvvisamente le donne si rimisero al lavoro. Le sentì parlottare in arabo, mentre si stava allontanando.
Mehria era abbastanza ricco da poter permettersi di portare la propria amante all’accampamento dei cacciatori. Per di più, lei era una donna bianca che non portava il velo.
Un uomo basso di statura, tarchiato e barbuto le mise in braccio una brocca di argilla, dicendole, probabilmente, di versargli dell’acqua.
«Quest’uomo è mio zio», disse Mehria. «Vuole che tu lo aiuti a lavarsi».
S’inginocchiò accanto a lui così vicina da vederne la cicatrice. Il sangue del cinghiale vi si era rappreso. Quando avvicinò le mani, le sembrarono nere sullo sfondo delle pallide ombre del fuoco.
Mehria le sfiorò la nuca, quasi inavvertitamente, e quello fu un gesto che appartenne solo a loro, colmandola di brividi. E ora, quando se ne ricordava, ne avvertiva ancora il tepore. Sentiva inoltre l’odore penetrante dell’urina, rubato dal vento, come pure il gracchiare dei merli all’imbrunire, e la zappa che mordeva la sabbia per sotterrare le zampe. Gli animali cacciati, disseminati nella campagna, se li sarebbero spartiti i jinn, restituendoli così al sonno di coloro che li avevano uccisi.
Le piaceva rimanere immersa nel buio quando scendeva la notte, come fosse coperta da una tarba [3] di bavella, con quell’uomo sconosciuto, che, alla fine, fu suo.
Si sentiva come una bambina in colonia, e non come una donna che vorrebbe essere abbracciata; indossava dei jeans e una maglietta, mentre lui le sussurrava «Ma gazelle… ma belle gazelle» e forse stava aspettando una principessa araba.
Nelle notti africane, simili a drappi ricamati, le stelle scendevano fino a lambire la terra. La coperta che Mehria distese odorava di cammello e di sudore di cacciatore. Era come se si fosse lasciata possedere nel ventre ancora caldo di un animale appena abbattuto. Sentiva l’erba ispida come il metallo e le ghiande, gli acerbi frutti, delle querce, schiacciati sotto il peso del suo corpo. Conosceva gli insetti che le ronzavano attorno agli orecchi, i grilli, le falene, le lucertole, ma non sapeva come sedurre l’uomo che le stava sopra. Lui le aveva inoculato nelle vene il morbo dell’Africa, la polvere dorata delle steppe, il silenzio bruciato dal sole degli altipiani rocciosi.
La prima volta le aveva mostrato il Maghreb su una carta geografica appesa nell’hotel in cui soggiornava e le aveva parlato del golfo e dei greti prosciugati del deserto, dei palazzi del Marocco e delle felci rosse dell’Algeria, del bordello di Cartagine e di Dugga, fino a quando sentì di innamorarsene mentre le parlava dell’amore che le stava trasmettendo e le disse:
«Se rimani, potrai vedere tutto ciò».
Solo questo e null’altro in più. Il resto fu ardore e paura, e la sua volontà di confrontarsi con l’ignoto. Lei rispose: «Rinuncio a tutto», come se avesse spento una sigaretta, ma le tremava il mento appena percettibilmente e fu allora che lui la baciò all’improvviso. Era un gesto insolito per un mussulmano, che non ripeté più in pubblico.
All’hotel, pronta dopo aver raccolto le sue cose, esitò un momento sulla soglia, e lui allora le domandò quasi con un po’ di timore:
«Ci stai ripensando?»
«No, sto solo dicendo addio alle comodità…»
Mehria abbozzò un sorriso che si trasformò in una sonora risata, reclinando la testa all’indietro.
«Tu te comportes comme un enfant, toi». [4]
Per essere ricchi nei villaggi che circondavano Tunisi, era necessario possedere una Peugeot e uno stipendio di sette, ottocento dinari. Lui le aveva detto che la portava a vivere in un villaggio senza aggiungere però una parola sugli oliveti, né sulle coltivazioni di colza.
Lei se lo era immaginata come un venditore di olio in qualche bureau de tabac, così come le anziane donne arabe vendevano i loro addobbi fatti a mano e le babbucce di feltro per la moschea. Pensò alla donna di servizio e agli altri inservienti, senza minimamente immaginarsi il podere, le cantine, il veliero da pesca, i bungalow e l’intero cortile, e quando li vide, restò senza fiato.
Mehria spalancò il grande cancello di legno e si aprì nel muro una breccia che conduceva direttamente verso le gradinate di ardesia. La villetta aveva cupole rotonde, simili a delle mammelle di fosforo, bombate verso il cielo, e terrazze di turchese, con mouches arabies [5], era piena di oleandri e di glicine sul punto di avvizzire, dato che la sua stagione era già finita. Le lame della yucca e le pervinche gialle, assieme alla vegetazione generata dalla pioggia portata dalle oasi, conferivano al posto un’aria selvaggia e uno splendore di altri tempi.
«È qui che abiterò?»
«Se lo vuoi… ma dovrai sopportarmi… E ci sono inoltre: Zaouf, Hafa e gli altri, che imparerai a conoscere».
Per un istante andò col pensiero alla squadra di ricercatori con la quale era arrivata e si sforzò di sentirne la mancanza, alla zuppa di lenticchie che aveva mangiato l’ultima volta nel lussuoso hotel con aria condizionata e al viso butterato dell’etnologo che l’aveva invitata al ristorante.
Pensò al suo ufficio, con le matite perfettamente affilate, disposte graziosamente nel portalapis con il logo della compagnia, e tutto ciò le sembrò un ricordo remotissimo. Pensò alla sua amica del dipartimento di marketing, alla quale ogni mattina sul messenger augurava il buongiorno, all’inizio dell’orario di lavoro…
Pensò alle sere in cui andava a nuotare quando in piscina erano rimasti solo lei e il custode. Alla sua collezione di scarpe e agli uomini così inadatti a lei che aveva incontrato. Ai tergicristallo del parabrezza, che spazzavano via la cortina d’acqua, e all’odore della pasta al parmigiano della sua trattoria preferita. Ora tutto ciò che la emozionava erano gli scendiletto color granata e i tappeti rosso sangue, stesi sul pavimento dalle sfumature perlacee. Le porcellane, lavorate a mano e appese qua e là sulle pareti bianche, fra le lampade di ottone. Le panche in rattan coperte da tessuti moreschi di lana kashmir e le seggiole arabe, di legno dipinto. Le nappe di seta e di lana e i broccati di Kairouan. Quelle figurine berbere incise nel legno di tuia: un gatto, una natrice, svariati uccelli, un cavallo sellato. Mehria, davanti alla finestra, sullo sfondo del pomeriggio cocente, aspettava che lei gli dicesse se sarebbe rimasta. Quel thé à la menthe, che Zaouf aveva servito su uno dei tavolinetti bassi, per il caffè, e su cui, sedutaci sopra, dopo averlo bevuto, aveva capito quanto era esausta.
Le si erano gonfiati i piedi e i lacci dei sandali le avevano scavato dei solchi sulla pelle.
«Ti trasformerai in una meticcia», le aveva detto Mehria, ma era troppo grande il suo stupore per poter credergli.
La stanza infuocata e profumata le dava l’impressione che stesse riposando su un materasso imbottito di erbe marine. I rumori penetravano camuffati in quell’aria giallognola come l’avorio, nella quale pesci multicolori di ceramica, appesi al soffitto, pareva stessero nuotando lentamente immersi in un mare dall’acqua torbida.
Babbucce di cotone, intessute con filo di seta, fissate alle pareti, fra cornici argentate, narghilè e oggetti ricavati da foglie di palma intrecciate, facevano dilatare la casa e allo stesso tempo esercitavano su di lei l’effetto di un narcotico composto di melassa e oppio. Non aveva la minima idea di come sottrarsi alla trappola tesa da quel sortilegio ma, dopo tutto, perché avrebbe dovuto sottrarsene?
Mehria dischiudeva e chiudeva scrigni, la invitava a vedere le stanze da bagno, l’armadio pieno di vestiti foderato di legno di sandalo, per tenere lontane le tarme, il balcone ovale della stanza da letto che sarebbe stata sua e dal quale si poteva vedere il Mediterraneo simile a una corazza tirata a lucido.
Lo slancio passionale di Mehria urtava contro le pareti del suo cuore, ma, al contempo, la voleva libera, perché era straniera. La adorava e l’avrebbe uccisa, proprio perché doveva adorarla. Lei non sapeva nulla di quel suo tormento. Era stanca, era come un uccello migratore che riprendeva fiato dopo un lungo viaggio. Non era bella, ma neppure brutta, era conturbante, bizzarra e un po’ triste. La incontrò parlando in una lingua che non era di nessuno dei due, era per questo dunque che il suo cuore gli sembrava criptato. Si preparava a sciogliere gli enigmi della sua voce, quando lei allungava le vocali parlando in francese, fino al punto in cui la voce scorreva fluida, sottraendogli la volontà di opporsi a lei e a tutto il resto.
Non si scambiavano parole, bensì disposizioni, temperature delle mani. Dopo aver finito di mostrarle ogni cosa, si lasciò cadere le braccia lungo il corpo, in una spossatezza che non pareva aver fine. Anche lui era al limite delle forze, per tale ragione, rispondendo che sarebbe rimasta, che ci avrebbe provato e che, se si fosse sbagliata, non avrebbe recriminato nulla, fu come un sospiro di sollievo.
(…)
Sotto la cruda luce dell’alba, vide il bucato stesso sul filo e i galli del cortile che si stavano svegliando. Scorse gli inservienti che tiravano le barche a riva e i bambini dei bungalow che saltellavo scalzi in mezzo alle capre. Vide i mattoni di argilla gialla che tentavano di scintillare, e poi Hafa e Raouf che si strofinavano via la sabbia da sotto i piedi.
Era il giorno della sua partenza e si sentiva morire. Si sentiva come un occhio immenso, doloroso, che divorava ogni cosa con la sua pupilla, come pure la spietatezza di Dio. Affondò il viso tra le mani per porre fine a quell’incubo. Mehria stava sistemando il suo bagaglio in macchina e teneva una postura impettita come quella di un maggiordomo.
Arrivò la cuoca, velata fino agli occhi, per porgerle il caffè, e invece si gettò a terra, piagnucolando:
«Sai, sono stata io a inventarti quel nome», disse nel suo stentato francese, «e ora che te ne vai, mi sembra di averti battezzata per sempre!».
Mehria cozzò con il gambale dello stivale da cacciatore contro un ostacolo fatto d’aria e si girò. Allora Hafa, il taciturno, osò dirgli quello che non aveva osato dirgli in trenta anni di servizio nella sua tenuta:
«Mon patron, pregala di restare!»
Ma Mehria pareva tenesse un coltello fra i denti. Salì nell’abitacolo e partì a tutta velocità come se avesse dovuto spiccare il volo. Darrielle stava immobile davanti alle piante di fichi mitigate dalla frescura notturna e agli oleandri dai petali di sangue. Non aveva detto a nessuno che sarebbe sparita, senza salutare. Non aveva visto il bambino di cui si diceva che era bianco come un angelo e che balbettava le prime parole.
«Va a finire che perdi l’aereo!», tuonò Mehria che teneva le braccia rigide sul volante, lei lo guardava di sottecchi. Evitava di muoversi, affinché il suo dolore non si spostasse né di qua né di là, e le rimasse la forza. Presto aveva compreso che la storia nella quale anche lei era vissuta per quasi due anni poteva essere scritta e cancellata, e riscritta in cento modi diversi. Questo era solo uno dei finali possibili, la variante concepita da lei.
Salì in macchina e Mehria le guardò le ginocchia per l’ultima volta. Se lo avesse toccato, avrebbe sentito le sue dita gelate in pieno deserto. Ma così, perché non era accaduto nulla, tutto era ancora aperto e tutto poteva evolvere in qualsiasi momento. Le loro vite erano alla rinfusa, ma in questo modo, con gli istanti del loro tempo allo scompiglio, parevano ancora giovani, promettenti.
«Ricordati di chiamarmi quando farai scalo a Roma!»
Furono le sue ultime parole, prima che lei si dileguasse, inghiottita, come dentro un essiccatoio, dal corridoio arroventato del terminal. Si baciarono sulla bocca.
A Roma si sarebbe aspettata di sentirsi già come a casa. Si trovava in Europa, si poteva respirare, la gente indossava dei pullover. In testa non aveva nessun altro pensiero se non quello di raggiungere una toilette. Aveva ancora due ore d’attesa. Aprì il rubinetto dell’acqua calda e tenne le mani sotto il getto caldo passandolo fin sopra i polsi. Avrebbe voluto dormire; nell’aeroporto, simile a un alveare brulicante, si potevano trovare ancora zone appartate in cui anche altre persone si erano appisolate sulle poltroncine.
Dal bagaglio a mano tirò fuori uno scialle, l’unico che le aveva dato Zaouf, e si coprì fino al collo. Serrò le ginocchia, avvicinandole alla bocca, poi ci ripensò. Dalla vetrina del bar italiano, proprio di fronte a lei, le sorridevano dei croissant, dei cornetti ripieni di crema e dei pasticcini per il caffè, ricoperti di cioccolato. Vi si diresse come telecomandata e ordinò un espresso e una grossa fetta di torta.
«Da portare via?» le chiese il cameriere.
Fece di sì con la testa, non volendo più rispondere in nessuna lingua. L’aroma del caffè e lo zucchero le risollevarono l’animo. Infilò le dita nel sacchetto di carta sottile e si mise a divorare il dolce e a bere il caffè a rapidi sorsi.
Sentì suonare il telefonino nella borsa, ma continuò a mangiare, gettando poi i rifiuti in un cestino. Si sentiva le mani ricoperte di unto che in parte finì sullo scialle avuto in dono, che si era sollevata fin sopra gli occhi. Aveva ancora del tempo a disposizione. Per mangiare e fare tutto il resto erano trascorsi appena venti minuti. Si stirò sulla poltroncina e lasciò che le palpebre si abbassassero.
Rivide da qualche parte le foglie impallidite dall’arsura e Mehria che camminava fra le dune come un eschimese sulla neve.
Il segugio da caccia correva davanti a lui e si metteva a scodinzolare ogni volta che lo chiamava.
C’erano solo loro tre nel vento della sera e lei si sentiva il cuore sussultare. C’era inoltre quella brezza notturna, scossa dai fiori dell’ibisco, c’era il freddo carapace delle ombre che si rovesciava sopra il giorno bruciato dal sole e l’odore zuccherino dell’olio dei baccelli di carrubo selvatico.
Mehria non aveva né volto né voce. Era solo un’onda, la fragranza legnosa della pelle di cacciatore e del sangue africano.
Lo amava dalle profondità del suo respiro, dove l’anima attecchiva come una pianta nata al buio.
Se si domandava quando fosse stata sposa, sapeva che lo era stata allora, nei silenzi del Maghreb, sopra cui mormorava la rarissima pioggia, sotto la distesa di fumo che supplicava acqua.
(…)
Ora aspettava l’aereo senza avere più un posto dove stare. La sua casa era ovunque e da nessuna parte. Quando Mehria la portò all’aeroporto, sentì la sua bocca sulle sue labbra, come un fiore schiacciato, dai petali ancora freschi. Era stato un bacio peccaminoso, l’ultimo sigillo di zolfo sulla loro storia senza fine.
Scaldava dentro di sé il veleno di quell’abbraccio, il sapore di legno crudo delle gengive, rifiutandosi di credere che tutto fosse finito. Ma non aveva più paura come all’inizio. Almeno questo aveva imparato da Sousse Anne: si sentiva temprata per tutto quello che sarebbe venuto dopo, come una donna-crociato dei venti, come una donna reduce dalla caccia.
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 6, giugno 2022, anno XII)
NOTE
[1] Intellettuale [1] Sfogliatella croccante con uova e verdure (fr.). [Tutte le note sono dell’autrice]
[2] Liquore particolarmente alcolico ottenuto dalla distillazione dei fichi.
[3] Velo islamico, portato dalle donne nordafricane, qui usato con un nome diffuso soprattutto in Egitto (ar.).
[4] «Ti comporti come una bambina» (fr.).
[5] Tipiche grate di legno, specifiche per terrazze e balconi, concepite di solito affinché le donne arabe potessero affacciarsi senza essere viste (fr.).
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