Ciprian Măceșaru e i suoi nuovi racconti sulla vita e sulla realtà più recente della Romania Otto racconti danno forma al nuovo approdo editoriale di Ciprian Măceșaru (1976), editi per la casa editrice da lui stesso fondata (Și se făcu întuneric, NEXT PAGE, Bucarest 2018, pp. 112); l’autore di nuovo ci sorprende positivamente per l’immediatezza e il brio della sua scrittura, qui ora quasi «minimalista» – come degli haiku in prosa – che centrano le tematiche a lui più consone: lo sguardo sulla realtà, i rapporti umani declinati in varie forme – di coppia, di amicizia, familiari –, la difficoltà dell’essere umano a trovare una sua strada, lo smarrimento dell’io, la realtà che cozza contro i nostri intimi desideri (spesso) irrealizzabili o intangibili. È un ventaglio di sette fotogrammi, per così dire, fulminanti e diretti, come dardi che implacabili, e in parte dolorosi, colpiscono il centro, imperniati attorno al racconto centrale, l’ottavo, uno «short» dinamico, concentrato, scritto impeccabilmente, che dà il titolo alla raccolta, quello più sviluppato e denso per il suo stretto legame con gli ultimi eventi ancora in ebollizione in Romania (le proteste di piazza e dei partiti dell’opposizione, iniziate l’inverno scorso, contro l’attuale governo romeno accusato di corruzione, promotore di vere e proprie contro-riforme per mantenere e gestire il potere clientelare a discapito del bene e degli interessi dei cittadini, movimento noto con lo slogan «Fără penali în Parlament»). I tre racconti scelti e proposti qui in traduzione per illustrare le qualità psicologiche dell’autore nel sondare l’umanità tramite il suo felice estro di scrittore delineano tre ritratti con i quali ognuno potrebbe identificarsi; le tre situazioni archetipali costruite da Măceșaru scolpiscono contesti di realtà che ci circondano e in cui il lettore potrebbe proiettarsi con la mente e ritrovarcisi. La forza evocativa dei racconti trasforma perciò le diverse situazioni in scenari verosimili, e sempre carichi di tanti sottili messaggi, ora inquietanti, ora a volte finemente ironici (come quelli un po’ tragico-farseschi che altrettanto ci avevano colpito nel suo romanzo Trecutul e întotdeauna cu un pas înaintea ta, presentato in «Orizzonti culturali italo-romeni» a febbraio 2017). Delay illustra lo sfasamento «tecnico» e sentimentale di una coppia in cui una partita di calcio fa dantescamente da «galeotta», a parti invertite, nel naufragio del loro matrimonio; Caii («I cavalli») è l’episodio infelice di una madre troppo severa o poco attenta allo slancio affettivo del figlioletto, il quale brucia simbolicamente e in maniera spietata, autoflagellatoria, il brutto ricordo della sua infanzia inflittogli da lei; e infine Prietenul («L’amico»), triste e commovente resoconto di un’amicizia diseguale, i cui i fatti della vita ne pareggiano i conti non si sa se in maniera consolatoria o moraleggiante. Ancora una volta Ciprian Măceșaru ha colto nel segno con efficacia e stile tutti propri, segni evidenti di chi ha talento nello scrivere. Mauro Barindi
L’ultima volta che l’avevo visto era stato cinque anni fa. E probabilmente ne sarebbero trascorsi ancora chissà quanti se non ci fossimo rincontrati per puro caso. Si è comportato come se ci fossimo visti solo il giorno prima. La verità è che lui non è cambiato affatto. La stessa prestanza sportiva, lo stesso sorriso perfetto, ottimistico, hollywoodiano. Io mi sono un po’ appesantito. «Cazzo, come sei ingrassato…!», ha esclamato appena mi ha visto, risparmiandomi per mia fortuna qualche commento sull’incipiente calvizie. Avrei voluto ribattergli, ma lo strano modo di comportarsi del mio amico mi aveva sempre affascinato. La sua mi pareva una forma superiore di egoismo. Cinque anni prima, quando gli avevo detto che mi sposavo, la sua risposta secca era stata: «Basta, sei finito!» Di nuovo la sua determinatezza da killer professionista, con cui proclamava la propria indipendenza da tutti e da tutto, mi aveva conquistato. Avrei voluto anch’io avere il suo sangue freddo, possedere la forza di non vivere i sentimenti che ti trasformano in un essere vulnerabile, di non sentire insomma il bisogno di vivere la propria vita a fianco di qualcuno. «Allora, come va la vita in coppia? Non ne hai ancora le palle piene?» mi ha chiesto con lo stesso tono diretto. Ho risposto con una calma maldestramente finta: «Sono felice!» «Ah, molto bene», ha replicato e non ho capito se mi stesse prendendo in giro o se fosse realmente sincero. Per lui tutto era molto semplice, si fa così o cosà, non c’erano vie di mezzo, compromessi o tentennamenti, il mondo era o bianco o nero, da una parte le persone libere, dall’altra le persone convenzionali che non avevano il coraggio di lasciarsi trascinare dal destino, che tentavano di gettare l’ancora, desiderose solo di aggrapparsi a qualcosa di sicuro, di conquistarsi una posizione comoda. No, non poteva essere sincero. Secondo lui – me l’aveva detto un’infinità di volte – la vita di coppia è una gabbia in cui uno deve convincersi di sentirsi bene, che la propria metà non ha i difetti che invece manifesta in maniera palese. Ci siamo seduti in un bar e abbiamo continuato a chiacchierare. L’amico lanciava frecciate dopo frecciate e tutte mi colpivano in pieno, schivando invece i palloncini colorati che avevo sistemato con tanta dovizia attorno a me. Il sangue scorreva e io sorridevo ipnotizzato. Poi è sparito di nuovo, partito, si diceva, per qualche Paese nordico. La mia esistenza trascorreva abbastanza tranquilla, una vita simile a quella di molti altri: avevo un figlio, abitavo in un appartamento di tre camere, di standard medio, in un quartiere operaio, andavo al lavoro, il fine settimana andavo in città con mia moglie, ci vedevamo con gli amici, in estate andavamo al mare, in inverno in montagna, tutto andava bene, ma pensavo al mio amico e m’immaginavo la gelida libertà in cui si trovava, le meravigliose distese di neve, i ghiacciai, gli immensi spazi, scorgevo facce entusiaste, occhi vivi, guance rosse, lo vedevo in quel mondo, con quel suo corpo slanciato, lo vedevo felice, non corrotto da nessuno e da niente, un virtuoso del vivere senza ostacoli. Mia moglie si accorgeva dei miei momenti di malinconia, ma tiravo in ballo ogni tipo di scuse. In fondo, non la disturbava più di tanto, era solo più premurosa. Gesti di affetto. Non le interessava estorcermi qualche confessione. Era una donna discreta, non entrava mai a gamba tesa nel mio intimo, potevo stare rilassato con lei al mio fianco. La amavo e a mio figlio volevo un mondo di bene. Non doveva preoccuparsi di niente. Eppure io non riuscivo a togliermi dalla testa il mio amico. La mediocrità della mia esistenza non faceva altro che farne riaffiorare continuamente il ricordo. Le sue parole scavavano nella mia mente gallerie sempre più profonde che parevano far vacillare irrimediabilmente il mio cervello, portandolo al collasso. Detestavo il condominio in cui abitavo, il quartiere brutto e sporco, le facce patibolari dei vicini. Assalito dalla frustrazione, in me montava la furia. Poi l’ho rivisto. Era tornato senza avvisarmi. Un giorno mi ha telefonato. Sono andato all’ospedale, tremavo, tutto mi sembrava così assurdo. L’ho trovato, era da solo in un piccolo reparto. Mi ha sorriso. Le orbite molto scavate. Non si riusciva più a capire che cosa volessero trasmettere i suoi occhi. C’era una permanente espressione di dolore, di orrore impietrito, come quella di un agnello sgozzato, sbattuto sul bancone di una macelleria. La morte che ben presto l’avrebbe stroncato non era la prova che la sua libertà non fosse stata autentica. E non provavo neppure il sentimento di essere in qualche modo un vincente. Lo guardavo e di nuovo venivo assalito da uno strano fascino. Lui poteva sparire in un modo del tutto speciale. La mia morte, invece, sarebbe stata banale, ne ero certo. È stato allora che ho capito. Dopo che il mio amico mi aveva detto quale fosse il significato della vita vera, era venuto il momento che mi parlasse della morte. Lo odiavo e lo invidiavo per la sua forza di essere così categorico. Non pareva essere sorpreso da quanto gli stava accadendo, tutto era nella logica delle cose. Una morte vera, questo mi dicevano i suoi occhi sbarrati, una morte come uno non si sognerebbe mai di avere.
Il primo giorno ho preso a botte un bambino e ho morso la maestra a una mano. Un altro giorno ho scagliato un giocattolo di legno contro una finestra, mandando il vetro in frantumi. Ma la bravata più grossa è stata quando ho dato fuoco all’asilo. In ciel le stelle accese si son Basta solo sporgersi quel tanto Mamma, per la tua festa più bella La maestra ci aveva avvisato che dovevamo venire vestiti con l’uniforme, era obbligatorio, quindi quel mattino ho cercato di nascosto la camicia e la cravatta. Ho trovato la cravatta, ma della camicia non c’era traccia. Alla fine mi è venuto in mente di andare a guardare nel cesto della biancheria sporca. Era lì, tutta raggrinzita, un disastro. L’ho infilata nello zaino e sono uscito.
Quella sera avevo tolto il sonoro. Stavo sul divano e guardavo la gara di ritorno dell’Europa League fra l’Ajax e la Steaua. All’andata, ad Amsterdam, l’Ajax aveva vinto 2 a 0. Bevevo una birra e aspettavo fremente le reazioni di Gherasim, il vicino d’appartamento proprio sopra di me. Non so come, ma le immagini arrivavano con un ritardo di circa cinque secondi, per cui le reazioni del vicino mi aiutavano a prevedere il futuro. Quando l’ho sentito gridare di gioia, anch’io ho cominciato a urlare «GOOOOOL!, GOOOOOL!», anche se nel mio televisore Latovlevici non aveva ancora stoppato di petto la palla per poi calciarla con un lob perfetto alle spalle del portiere avversario.
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