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«Maschere della paura», il nuovo romanzo di Camelia Cavadia sulla violenza in famiglia
Con Măștile fricii, suo secondo romanzo uscito nel 2016 a Bucarest (il primo, uscito pubblicato sempre dalle edizioni Trei nel 2015, si intitolava Vina, e fu accolto, come e più di quest’ultimo, da lusinghiere critiche e dal favore dei lettori), Camelia Cavadia (1969) si conferma autrice acuta e sensibile di storie che scandagliano dentro i drammi quotidiani delle persone con le loro contraddizioni e apparenze, che sono lo scudo, a volte, alzato per nascondersi e per esorcizzare le proprie debolezze e illusioni, le proprie sconfitte e nemesi.
In questo nuovo romanzo, l’autrice tocca un nervo che affligge da sempre la nostra società: la violenza in famiglia con tutte le sue ricadute sul piano personale e sociale. Ema, Sofia e David sono le vittime predestinate di un padre-orco e di una madre arrendevole e succube psicologicamente del marito. La loro infanzia e adolescenza è segnata drammaticamente per sempre fin dentro la psiche più profonda dal clima di terrore e dalla violenza familiare instaurati da un padre psicopatico e patiti sulla propria pelle, una situazione da incubo contro cui non possono fare nulla, totalmente inermi di fronte a una forza bruta e snaturata incarnata dal genitore che li tortura di botte, i cui lividi lasciano tracce indelebili nelle loro menti di bambini che ricompariranno come una bomba a orologeria nella vita da adulti. Dopo la morte del padre per cirrosi, la rabbia e il risentimento dei tre ragazzi è convogliato contro la madre, accusata di aver lasciato agire il loro aguzzino nella sua quasi indifferenza e apatia più sconvolgenti. Dietro questo suo comportamento si nasconde però un tragico segreto: tutta quella furia del padre contro i propri figli era stata scatenata dalla morte del primo figlio avvenuta a solo un mese di vita, un figlio desiderato e amato da entrambi ma soprattutto dal padre. La perdita del figlio sconquasserà il suo equilibrio affettivo, e vedrà in David non l’opportunità di tornare a essere padre di una famiglia felice, ma un estraneo, un intruso, su cui riverserà il suo astio e rancore, che si riverseranno di conseguenza anche sulle figlie, Ema e Sofia. All’oscuro del passato dei propri genitori – sarà la madre a rivelare a Ema quel triste episodio –, i figli non si accorgono che ben presto il germe inoculato in loro dalle assurde e atroci violenze subite fin da piccoli si farà strada inconsciamente nei loro comportamenti e schemi mentali di adulti, in un lento e inesorabile processo, che invece di condurli a una catarsi definitiva e liberatoria dai fantasmi dell’infanzia li riporterà nuovamente di fronte ai loro spettri mai dileguatisi, che ne condizioneranno per sempre l’esistenza. L’ombra maligna del padre insomma ritornerà a oscurare le loro vite, plagiando le loro personalità e inducendoli ad agire come sotto l’effetto di una atavica maledizione, che li costringe a indossare quelle «maschere della paura», che danno il titolo al libro, oscurando il proprio equilibrio, benessere e realizzazione come persone.
Măștile fricii è un romanzo molto duro, schietto e diretto, che merita in pieno il successo di critica e pubblico che l’autrice ha saputo raccogliere attorno a sé.
Mauro Barindi
Frammento da Măștile fricii
Quante parole e quanti pensieri non detti! Quanta verità rimasta sepolta, desiderosa adesso di uscire fuori. E di imporsi. A ogni costo. Riacquistano le forze e si fanno strada, invadendo, soprattutto, gli spazi vuoti. Con pazienza, conquistano ogni centimetro e sanno così bene intrufolarsi nei meandri più profondi tanto che io non riesco nemmeno a rendermi conto del momento in cui impiantano le loro radici. Si conficcano per l’ultima volta, in attesa del momento in cui saranno strappate, trascinandosi dietro tutto quello che hanno intorno. Verità e pensieri dolorosi, alcuni vecchi, altri più recenti, pulsano già come i nervi di un dente guasto, moribondo. Ancora un po’ ed emergeranno in superficie. Ancora un po’ e tutti lo sapranno…
Per quanto possa essere insopportabile, a volte la verità è l’unica che possa dare ancora un senso alla vita. La sua assenza getta una luce falsa perfino su cose che un tempo erano vere.
***
Oggi, quando mi ritrovo a riflettere volgendo lo sguardo indietro, vedo tutto più chiaro e senza più dubbi. È come se guardassi in una di quelle cartoline d’auguri tridimensionali al cui centro, aprendole, ti saltano davanti volti, forme, personaggi.
Il giorno più felice della mia vita non è stato quello in cui mi sono sposata o quelli in cui sono nati i miei figli, bensì quello in cui è morto papà. Lo so, sembra orrendo quello che sto dicendo, e invece è la pura verità. E credo che non lo sia stato solo per me. Noi, i tre figli, ci siamo sentiti sollevati in quel momento ed è mancato poco che ci mettessimo a giocare attorno al suo corpo inerte. Allora non avemmo il coraggio di ammetterlo, ma so che ognuno di noi provò quella cosa. E se non avessimo avuto tanto timore, avremmo gioito e riso e forse ringraziato Dio a mani giunte di aver avuto pietà di noi e di averci liberato da lui. Ma non facemmo nulla di tutto ciò. Evitavamo di guardarci negli occhi, quasi provassimo vergogna per quello che potevamo vedere. La gioia di sentirci liberi di scacciare la “decenza” di un comportamento turbato. Evitavamo di parlarci, sebbene avessimo tante cose da dirci. Eravamo felici a nostro modo. Una felicità dolorosa, che faceva stillare dentro di noi gocce liberatorie, dense come il miele, che lasciavamo colare lentamente. Quanto a me, una sorta di paura mi impediva di guardare verso il corpo inerte di papà, quasi potesse vedere cosa provavo dentro di me e si alzasse, pronto ancora una volta a farmi del male. Solo mia sorella, Sofia, più grande di me, sembrava provare sincera pietà per lui, mentre sul volto di mio fratello era stampato il sorriso della vittoria e della liberazione. Su quello di mamma non si leggeva nulla, forse solo del turbamento, accompagnato da un leggero fremito nei movimenti. Per il resto, sembrava quella di sempre. Sapevo che lei lo avrebbe pianto tantissimo una volta che tutto sarebbe finito.
Disteso nella bara, papà esibiva un pallore solenne, che gli conferiva un’immeritata aria di distinzione. Come se fosse riuscito in qualche maniera a trovare il modo per dirci che anche in quel momento ci stava dominando. Sebbene gli fossero state abbassate le palpebre, gli occhi erano rimasti socchiusi. Si era lasciato aperto una scappatoia attraverso cui poter continuare a vigilarci. A sottometterci, a guidarci, anche dopo la morte. Così credevo io.
Dalla stanza accanto si sentiva il rumore di piatti e posate. Mamma stava preparando il pranzo per il funerale. Il loro tintinnio diffondeva in casa una strana allegria. Come la risata volgare di una donna facile, incompatibile con quello che c’era da fare. Mamma aveva messo sul fuoco un grande bricco di caffè, e anche il suo profumo diffondeva per casa qualcosa di spudorato. La colivă sul gas e il vapore che saliva dal riso bollito disegnavano in aria volute cariche di caldi e invitanti aromi. Dopo che era cessato il tintinnio delle stoviglie, tutto rimase avvolto in un mite silenzio, che non ti poteva far immaginare che in casa ci fosse un morto. Su tutto regnava una strana atmosfera, come se stessimo aspettando degli ospiti. Poche persone avevano oltrepassato la soglia di casa nostra quando era in vita nostro padre, ma evidentemente così doveva essere. Eravamo solo noi quattro e aspettavamo che arrivassero due vicine perché ci dessero una mano nei preparativi. Per quasi tutta la durata della veglia rimanemmo da soli; per fortuna non si era fatto vivo nessuno che desiderasse unirsi a noi. Ed era stato un bene, non volevamo essere costretti a sembrare più addolorati di quel che eravamo.
Fuori, da qualche parte, si sentiva una triste melodia intonata da una voce lamentosa. C’era comunque qualcuno che forse piangeva anche per lui.
Mio fratello, David, lanciava ogni tanto uno sguardo alla bara come a voler verificare o assicurarsi che papà fosse ancora lì. Per un attimo notai sul suo volto un’espressione benevola, che, a essere sincera, non mi aspettavo. “Hai già dimenticato tutto, coglione?” mi domandavo, pronta a scagliarmi contro di lui. “Hai già dimenticato tutto?” Ma subito i suoi occhi cambiarono espressione e David gli lanciò uno sguardo freddo come l’acciaio. Lo vidi andare verso di lui, come indemoniato.
«Non credere che verseremo lacrime per te, papà! No! Non ci hai mai dato modo di sentire pena per te» disse concitato. «Non è vero, Ema?» domandò rivolto a me, facendomi trasalire.
Poi ci prese per mano e ci abbracciò come per stringerci in una danza immaginaria. Io e Sofia però non volevamo.
«Smettila, incosciente!» saltò su la mamma, con gli occhi sgranati. «Calmati sennò Dio ci castigherà. Calmatevi tutti!»
«Non ci ha forse riempiti di botte fino a poco tempo fa, eh, mamma?» fu la risposta furibonda di David che andò a pararsi di fronte a lei. Aveva qualcosa di ferino negli occhi, come quelli di un animale rabbioso.
«Su, diamoci tutti quanti una calmata, abbiamo da fare!» disse Sofia.
David rimase immobile con la faccia quasi a sfiorare quella di mamma ed ebbi paura che potesse lasciarsi andare a un gesto impulsivo. Dopo un paio di secondi, di colpo si scostò e si mise a ridere.
«Al diavolo, tutto è finito!»
Per far passare il tempo, riaccesi una candela, cambiai a un’altra la carta su cui era colata la cera e, con le mani in grembo, guardai di nuovo papà. Da un lato, mi dispiaceva di non poter sentire nulla per la sua morte. Provare la sofferenza di un figlio che ha perso il proprio padre. Immaginavo che fosse qualcosa di angoscioso, ma nobile, allo stesso tempo. Noi però non avevamo modo di sapere come ci si sentisse. Guardavo la mia famiglia e mi colpiva il nostro essere anormali, logori, devastati. Incapaci di essere normali indipendentemente da ciò che questo avesse comportato. In effetti, che cos’era per noi la normalità dal momento che quel qualcosa ci era sempre stato rifiutato e a cui noi non sapevamo dove e come aggrapparci?
Ero rimasta da sola in camera, solo io e papà. Osservavo le sue mani nodose, brutte e sentii percorrermi il corpo da un brivido. Mi rallegravo di vederle raccolte sul petto, immobili nella loro algidità. Tuttavia avrei desiderato guardarle da vicino un’ultima volta. Volevo vedere ancora una volta quelle mani enormi, che si alzavano simili ad aquile rapaci sopra le nostre teste, con le ali spiegate, pronte a ghermire, a stringere, a colpire, ad afferrare. Quelle mani, protagoniste di scene terrificanti. Quelle mani instancabili, che vedevo per prime quando lui ritornava a casa, come se riuscisse a entrare prima che il corpo si mostrasse nella sua interezza. Quelle mani sempre appoggiate sul tavolo, occupando molto più spazio di qualsiasi altra cosa. Mani brutte, come rami secchi che mi terrorizzavano profondamente. Sfortuna ha voluto che le abbia ereditate anche mio fratello, David, di cui si vergognava e cercava di nasconderle. Le sue mani, la sua maledizione.
Ero assorta in questi pensieri quando avvenne qualcosa di talmente strano che non sono riuscita a parlarne con nessuno fino a oggi. Me ne stavo in un angolo della stanza, a sufficiente distanza dal corpo inerte. Lanciavo sporadici sguardi a papà e quasi mi aspettavo di vederlo muoversi di nuovo. Paralizzata dalla paura, avevo la sensazione di stare in un film di vampiri. Lo so, è una sciocchezza! A un certo punto, mi è parso di sentire qualcosa di simile a un fruscio che avanzava verso di me proveniente dalla bara e fui percorsa da un brivido di terrore come se avessi preso la scossa. Avrei voluto scappare via, ma non riuscivo a muovermi. Lo guardai con attenzione e posso giurare che era qualcosa che si muoveva molto lentamente. Vinsi la paura e mi alzai. Mi avvicinai lentamente, cercando di fare il meno rumore possibile intorno a me. Con la candela avvicinata al suo viso, concentrai tutta la mia attenzione su qualsiasi movimento avessi potuto cogliere. Trattenevo il respiro e cercavo di placare il batticuore. C’era un tale silenzio e una tale immobilità da sentirmi quasi fuori dal tempo. Nel buio che mi circondava, la fiamma della candela si irradiava nei miei occhi formando dei cerchi concentrici, simili a delle onde. Mi chinavo sempre di più verso di lui, avendo però l’accortezza di non colargli la cera sulle guance. Qualcosa mi spronava ad avvicinarmi a lui sempre di più e sebbene sembri incredibile, da quella distanza vidi muoversi la bocca come quella di un pesce fuori dall’acqua. Lo fece due volte e, prima ancora che mi ritraessi, mi sembrò che qualcuno soffiasse con forza sulla mia candela fino a spegnerla. Non voglio ricordare come saettai fuori dalla camera e quanto mi spaventai a morte, con il cuore che mi galoppava in petto e con le mani e le ginocchia che mi tremavano.
Non l’ho raccontato a nessuno – chi mi avrebbe creduta? – ma non rimasi più neppure per un istante da sola con lui né gli rivolsi più uno sguardo, convinta che avesse qualcosa di malefico. Che se ne vada una volta per tutte, imploravo! Non ho mai scordato quell’episodio che, di solito, mi ritornava in mente nei momenti meno propizi, come quando stavo malissimo, o quando mi sentivo affranta come non mai e fuori luogo con la gente, con la vita, in generale.
Verso il mattino, vennero due vicine a darmi il cambio nella veglia e io riuscii persino a dormire un paio d’ore. Per la paura, per la stanchezza, non lo so. Mi addormentai fra le braccia di Sofia, che pareva l’unica provata in modo sincero da quanto era accaduto. David, invece, non aveva chiuso occhio.
Al cimitero c’erano solo nove persone, senza contare il prete e le altre figure ecclesiastiche. Noi quattro, le due vicine, un sedicente amico e due colleghi di lavoro di papà. La cerimonia funebre mi parve lunga e stancante. Guardavo la mia famiglia e tentai di indovinare a che cosa stesse pensando ognuno di loro. Mamma guardava per terra. Forse per timore che la vedessimo piangere?, continuavo a domandarmi mentre le rimproveravo di essere sempre stata, a modo suo, dalla parte di papà. Perfino in quel momento, nella sua ultima tappa sulla terra, avvertivo che le dispiaceva che si stessero separando. Lo vedevo, lo sentivo. Il suo amore per papà era per me continua fonte di incredulità. Come aveva potuto amare un uomo del genere e come era possibile che non avesse voluto fuggire da lui? Che cosa l’aveva tenuta tanto legata a lui da riuscire a sopportare tutto? Forse anche mamma era tanto colpevole quanto lui? A volte il male è come la peste, finisci per stargli accanto ed esserne infettato.
David, come me, spostava il peso da una gamba all’altra, tenendo i pugni stretti, e con il petto rigido e proteso leggermente in avanti, mentre fissava la bara. L’unica che sembrava capire ogni parola della cerimonia era Sofia che cogli occhi umidi guardava il prete. Si aveva come l’impressione che lui potesse darle la forza di perdonare, di voler lasciarsi alle spalle il passato e di andare avanti. Si aggrappava a lui come se potesse curarla lui da tutti i peccati e dai cattivi pensieri del passato. Poi chiuse gli occhi e accostò leggermente le mani, pregando per qualcosa che solo lei sapeva.
Quando cominciarono a calare la bara nella fossa, mamma si lasciò sfuggire alcune lacrime, attirando i nostri sguardi severi. Mio fratello se ne andò via subito. L’avrei seguito, ma non me la sentii; mi dissi che non era opportuno. Rimasi fino alla fine, e durante il ritorno a casa non pronunciai una sola parola. Non fui in grado di guardare mamma, per cui appoggiai la testa sulla spalla di Sofia. Il suo vestito nero odorava di incenso, un odore che altrimenti non riuscivo a sopportare, ma che, in quel momento, mi pareva avesse un effetto calmante.
David non era venuto a casa, sicché pranzammo senza di lui. Non durò molto. Neppure mezz’ora. Mangiammo in fretta e in silenzio. Subito dopo la casa si svuotò come a un segnale prestabilito. La gente sembrava felice di andarsene e di lasciarci alle nostre cose, quasi temesse di portare con sé un po’ dell’atmosfera irreale che ci dominava. Poi calò il silenzio. Un silenzio di tomba che trasudava dalle pareti grigie e che ci stringeva in un molle abbraccio.
«Ema, Sofia, su, andiamo a riposare un po’. I piatti possono aspettare. Non c’è granché da sparecchiare, solo alcuni bicchieri e qualche piatto. Rimettiamo tutto in ordine quando ci sveglieremo».
Ubbidimmo senza discutere. Andai a letto, con in testa il pensiero che Dio aveva avuto compassione di noi e che aveva fatto ciò che mamma non era stata capace di fare. Provavo la sensazione che per noi la vita cominciasse solo allora. Era la prima volta che ricordavo di essermi addormentata col sorriso sulle labbra.
***
Victor è una vittima, e io sono il ragno che lo tormenta ogni giorno. L’ho afferrato con i miei tentacoli e non lo mollo più, non lo lascio più vivere. No, non si è comportato male con me, mai. L’unica anzi a fargli del male sono stata io. E anche per ciò lui non ne uscirà vivo. Nei miei pensieri mi illudo che sia stata una sua scelta. Ma so che l’unica colpevole sono io.
Quando l’ho conosciuto, avevo 23 anni. Avevo da poco discusso la tesi di laurea alla Facoltà di Psicologia, che avevo terminato come prima della classe. David aveva già un lavoro ed era riuscito a prendersi cura della casa come un vero genitore. Io sono stata l’unica che non ha dovuto lavorare durante gli studi, perché David e Sofia mi sono sempre stati d’appoggio. Sofia aveva finito Teologia, ma David l’aveva aiutata a trovare una sistemazione presso un importate studio legale. Più tardi, Sofia ha frequentato la Facoltà di Diritto con frequenza ridotta. Da reietta della famiglia, mi ero trasformata nella più coccolata. E questo grazie ai miei fratelli, non a mamma, che ha continuato a stare nel suo mondo e a vivere più nel passato.
Ho perso la verginità al liceo con il primo ragazzo che voleva solo questo da me. Poi mi sono concessa a tutti coloro ai quali sono sembrata interessante. Ero felice di sentirmi amata e non contava più nient’altro. Trascorrevo le notti in compagnia di ragazzi, poi con uomini che avevo conosciuto solo poche ore prima. Quanto più il loro numero cresceva, tanto più mi sentivo realizzata.
Il sesso era diventato estremamente importante per me e, da un certo punto in poi, era l’unica cosa che contava veramente. Più uomini conquistavo e più desideravo farmene piacere altri. Sebbene ognuno di loro si portasse via una parte di me, era qualcosa che mi entusiasmava ogni volta. È difficile descrivere il sentimento che ho vissuto in quel periodo. Quel corpo che si offriva a tutti era e non era di tutti. Come se potessi uscirne fuori e godere, standomene in disparte, di tutto l’amore che quella bella ragazza riceveva.
Ho continuato a studiare e a essere la più brava anche al master, cosa che ho conseguito con facilità, ma ero continuamente concentrata su come fare nuove conquiste e sugli uomini che avrebbero potuto amarmi. Le mie colleghe credevano che fossi una ragazza dabbene e secchiona. Io però non ero né l’una né l’altra persona. Questa abilità nello sdoppiarmi funzionava alla perfezione. Non so perché, ma quella vita notturna aveva scatenato in me qualcosa che non avevo mai sospettato di possedere. Avevo sviluppato un gran talento nel flirtare con gli uomini, nel sedurli e nello sconvolgere le loro vite. Sembrava che il mio atteggiamento ruvido e ribelle mi assecondasse a meraviglia durante le notti in cui l’unica cosa che desideravo era conquistare uomini. Mi lasciavo completamente andare quando le scintillanti luci stroboscopiche riversavano su di me il loro pulviscolo stellato. Ballavo, filavo con tutti e adoravo essere mangiata dagli sguardi. Provavo piacere nell’eccitare. Indossavo vestiti corti, provocanti, che mi stringevano attorno ai seni piccoli, ma sodi e mettevo in bella mostra le mie gambe lunghe, indomite che sapevo stringere come nessun’altra attorno ai fianchi di un uomo. Mi piaceva alla follia quella ragazza che riusciva a essere tutto quello che non ero stata capace di essere prima, e quando la mattina ci riportava nello stesso corpo, trasmetteva anche a me la sua sicurezza. Di giorno mi lasciava studiare, e io di sera la lasciavo scatenare. Eravamo pari. Era meraviglioso finché stavamo insieme.
Quando sono andata a letto con Victor, ero quasi sbronza. Ricordo di aver parlato con lui a lungo prima di essere sua, e c’è stato un momento in cui mentalmente ho interrotto del tutto la nostra conversazione. Gli avevo confidato un sacco di cose, ma il giorno dopo me n’ero già pentita. Avevo continuato a chiacchierare fino al mattino. Di solito mi piaceva stare zitta e lasciarmi amare. A quanto pare a Victor avevo raccontato cose che lo hanno spinto a credere che io sarei stata la sua prescelta.
Gli avevo detto tutto in un sol fiato, senza neppure che lui me lo avesse chiesto. Continuavo a raccontare e niente riusciva a farmi desistere. Sorseggiavo del gin e parlavo senza che mi importasse se lui stesse o no ad ascoltarmi. Quando ho finito di confessargli tutto, Victor mi ha preso per mano e mi ha portato a casa sua. Non capivo se avesse intenzione di fare l’amore con me, ma, una volta entrati in casa, ho cominciato a spogliarmi. Abbiamo fatto l’amore in silenzio, poi gli ho chiesto di portarmi a casa. Non volevo restare da lui.
Quando sono ritornata nel locale in cui avevo conosciuto Victor, una discoteca anonima alla quale andavo per berci qualcosa le volte che di sera non mi andava di restare in casa, quasi quasi non l’ho riconosciuto. Gli sono passata sopra con lo sguardo, continuando a guardarmi intorno.
«Come sono contento di rivederti!» ha esclamato trasfigurato, e la sua voce ha sbloccato poco a poco spezzoni di ricordi immagazzinati nella mia mente.
«L’altra notte mi sono scordato di chiederti il numero di cellulare e avevo paura che non ti avrei più beccata in giro. Come ultimo tentativo, ti avrei cercato a casa o, almeno, nel posto dove mi avevi indicato di lasciarti quando ci siamo salutati. Ma non volevo sembrarti sfrontato e insistente».
Non volevo una storia con lui, così come non ne volevo una con nessuno in particolare e proprio per questo mi è passato per la testa di dargli un numero fasullo. Ho sentito però l’impulso di non allontanarlo da me. Anzi, con me si comportava come se avesse scoperto un diamante e credo che quello che gli avevo raccontato quella notte lo avesse spinto a credere che avessi bisogno di aiuto.
«Potrei essere io la tua salvezza» ha detto a un certo punto e in quel momento gli ho creduto, anche se non sapevo bene a cosa facesse allusione.
«Potresti provarci».
Quella notte sono tornata a casa presto e mi sono chiusa in camera, tentando di scavare nei miei ricordi. Qualcosa mi diceva che non avevo tenuto abbastanza a freno la bocca e che gli avevo parlato della mia famiglia. I ricordi ora irrompevano fuori, ma ormai era troppo tardi per pentirmene. Gli avevo raccontato tutto. Di papà, delle botte, di noi. Non mi era chiaro perché lo avessi fatto – forse sentivo di poter fidarmi di lui o semplicemente avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno, forse per me era stato più semplice raccontare tutto a un estraneo che a un’amica (che non avevo mai avuto) proprio perché avrei sentito in ogni istante di non meritarlo – sta di fatto che avevo confessato tutto. Ora potevo anche mettermi a piangere. Perfino questa dannata cosa ci era stato vietato di fare un tempo.
*
Papà è morto di cirrosi epatica a causa di tutto l’alcol che si era tracannato. La sua fama di alcolizzato era ben nota, e le chiazzate che montava ci avevano reso celebri in tutto il condominio. Durante tutta l’infanzia ho camminato con la faccia rivolta in giù, passando rasente alle pareti, possibilmente poco illuminate, di cui andavo disperatamente alla ricerca affinché i vicini non riconoscessero la bambina dell’ottavo piano, quella piccolina, la povera figlia di quelli che sconquassavano l’intero condominio con i loro litigi. Ho sempre addossato la colpa alla mamma perché non ha avuto la forza di andarsene, di scappare, di sottrarsi e di sottrarci al clima di terrore che abbiamo vissuto per giorni e anni di fila. L’ho sempre considerata colpevole, ma dopo che è morto papà, la considero tale ancor più di prima. Perché così sono state le nostre vite anche per colpa sua.
«Mi sono sacrificata per voi!» ci ha detto mamma un giorno in cui l’abbiamo accusata di averci fatto passare un’infanzia orribile.
Siamo rimasti perplessi quando ci ha dato questa risposta imbecille, con cui lei avrebbe magari voluto scusarsi nei nostri confronti, forse addirittura trasformandosi in un’eroina.
«Ti sacrificavi se ci tiravi fuori dall’inferno in cui ci hai condannati a vivere!» le abbiamo replicato noi, non più disposti a sopportare di vederla atteggiarsi a vittima, lei, che ci aveva invece dato in pasto a uno psicopatico il quale con le sue botte provava solo piacere nell’infliggere sofferenza!
«Non avete nessun diritto a…»
«E invece sì che ce l’abbiamo!» le ha risposto David, convito che fosse venuto il momento per lei di sapere la nostra verità che era, di sicuro, molto più cruda della sua. «Credi che potremmo mai dimenticarcelo, mamma? Mai! No!»
David e Sofia sono più grandi di me. Io sono l’ultima genita della famiglia. Papà provava odio più di tutti per mio fratello. Dico sul serio, lo odiava! So che di solito queste parole non hanno paragone, ma papà lo detestava con tutto sé stesso. Perché gli ribatteva e aveva la risposta pronta per tutto quello che gli pareva ingiusto. A me mi odiava solo perché non mi aveva voluto. Ero stata uno sgradevole incidente. Questo urlava quando era ubriaco. Per lui, David era uno stronzo, e io una seccatura. Solo mia sorella la chiamava per nome, Sofia. Ma ciò non vuol dire che lei abbia avuto un trattamento preferenziale. Affatto. Forse in qualche modo temeva di guardare nei suoi occhi azzurri e nel suo buon animo. Sofia aveva dentro di sé una placidezza che non le poteva estirpare né quando la pestava a sangue, né quando le gridava le offese più terribili. A suo modo, era l’unica che non si lasciasse piegare. Probabilmente era proprio questo ciò che lo faceva infuriare ancor di più. Ho sempre pensato che lei sarebbe diventata una santa. E a suo modo, lo è diventata.
Quando papà è morto, io avevo 13 anni, Sofia 15 e David 16 e mezzo. Sebbene avessimo tratti fisici abbastanza diversi, avevamo comunque qualcosa che ti faceva capire con sicurezza che eravamo fratelli. Eravamo magrolini, degli spilungoni pelle e ossa su cui non c’era traccia di carne. Con le nostre braccia lunghe ed esili, sembravano dei ragni; e con le rotule che sporgevano all’infuori, le nostre ginocchia avevano l’aspetto di mele cotogne deformi.
David era il maggiore d’età e il più alto. A 16 anni misurava già 1 metro e 80 e in seguito è cresciuto ancora ma solo di qualche centimetro. Il corpo smilzo e allungato pareva stretto da artigli invisibili; il petto bombato non era segno di vigore, piuttosto sembrava come dilatato in modo innaturale. Solo a partire dai 19 anni il fisico di David è cambiato, e il suo corpo ha appianato le sporgenze sotto uno strato di fibra e carne, conferendogli, alla fine, un aspetto naturale. David aveva i capelli ondulati, di un castano chiaro, e occhi verde-scuri come i miei: quanto più il sole era forte, tanto più diventavano brillanti e di un verde intenso. E a mano a mano che il sole calava d’intensità, ne sfumava in essi anche il verde. I pigmenti castani si aggrappavano come a delle zattere alla deriva, oscurandoli. Sofia invece aveva occhi chiari, di un azzurro pallido, simile a quello di un cielo estivo, completamente sgombro di nuvole.
Non eravamo affatto dei bambini brutti, al contrario, direi. Solo che l’insicurezza, e la paura che portavamo nel cuore ci facevano sembrare degli uccellini spaventati che non si lasciano toccare. La paura ci offuscava i lineamenti, avvizzendoci i corpi in un modo tale che sembravamo dei frutti disidratati e conservati sotto vuoto. Pur conciata così, Sofia era bella, come lo è l’uva alle soglie dell’autunno, quando non è ancora matura, ma porta dentro di sé la promessa della perfezione. Da bambina in lei tutto era leggermente stridente. Aveva i denti storti, le labbra grandi e troppo poco carnose, gli occhi che occupavano quasi mezzo viso e gli zigomi sporgenti. C’era qualcosa di comico nel suo aspetto, come se fosse una caricatura di ciò che sarebbe diventata da adulta. Una sorta di principessa tirata fuori da un disegno animato. Ma il suo viso esprimeva così tanta bontà che era impossibile non volerle bene. Eppure Sofia scansava tutti coloro che avrebbero voluto avvicinarsi a lei. Per il suo modo di essere, sentiva di non aver nulla da offrire. Fin da bambina si era sforzata di indossare la maschera della dissimulazione che le era entrata dolorosamente sotto la pelle. E quindi si allontanava, da tutti e da tutto.
Neppure io ero brutta, ma sempre nel senso che dovevi osservare i miei lineamenti non per come erano, bensì per come si sarebbero trasformati. Avevo labbra carnose, grandi, e occhi leggermente a mandorla. Sarei potuta essere uno schianto, se non avessi avuto quei lineamenti duri e marcati. Ho sempre avuto seni piccoli e gambe lunghe. Essendo così magra, sembravo una cavalletta, il che dal punto di vista estetico era fastidioso. In David si poteva passare sopra il suo aspetto sciatto in altro modo. Era un ragazzo ed era come se nessuno desse importanza all’apparenza che aveva a quell’età, ma per quanto mi riguardava… era più difficile non notarlo.
Dopo esserci liberati di papà, non siamo stati più ossessionati a prendere sempre 10 a scuola. Abbiamo smesso di andare a caccia di voti. Papà era stato un semplice idraulico che sputava fuoco dalla bocca ogni volta che prendevamo un 9, una macchia disonorevole nel registro di classe. A volte ci ammazzava di botte anche senza un valido motivo, figuriamoci quando gliene davamo uno… Studiavamo come dei pazzi e imploravamo i professori di non darci voti bassi. Avevamo paura soprattutto di certe materie come educazione fisica o disegno, per le quali non c’era proprio bisogno di studiare, quanto piuttosto di fare sfoggio di abilità fisiche o artistiche. Per i nostri compagni di scuola, noi eravamo dei predatori di voti, avidi del 10. Nessuno sospettava delle legnate che incassavamo, dei castighi che ci venivano inflitti se prendevamo voti più bassi. Avevamo imparato a sopportare il disprezzo dei nostri compagni, senza portargli alcun rancore. Non potevano sapere che cosa ci accadeva.
Non dimenticherò mai la terribile gragnola di botte che David incassò per aver preso 9 nel compito di matematica. Anche se le percosse erano all’ordine del giorno, quelle furono così brutali che ogni volta che penso a David bambino, mi riaffiorano subito alla mente. Appena vide il compito, papà lo spinse con forza in camera nostra e gli ordinò di spogliarsi. A mano a mano che David si toglieva i vestiti, papà lo picchiava con la precisione di un chirurgo che prepara con cura i suoi ferri. Poi lo legò al termosifone e incominciò a colpirlo con una cinghia, lentamente, per interminabili minuti, come se avesse a disposizione tutta una vita per farlo. Io e mia sorella ci eravamo rifugiate in cucina, con le mani premute sugli orecchi, nel tentativo di coprire le urla che sentivamo. Nulla però poteva soffocarle. Le sue urla ci squarciavano in due il cranio e i suoni bestiali ci risuonavano dentro come amplificati. I suoi strilli ci hanno tormentate per anni e ancora oggi rabbrividisco al solo rivivere quei momenti. Nascoste sotto il tavolo della cucina, io e Sofia piangevamo l’una nelle braccia dell’altra e supplicavamo che la smettesse. Dalla porta socchiusa, mamma gli rivolgeva la stessa supplica. Per tutto il tempo che durarono le botte, non faceva che ripetergli dalla porta, con voce spenta: «fermati, fermati!» Non gli si avventò addosso, non lottò in nessun modo per porre fine a quella crudeltà senza limiti che è rimasta per sempre marchiata col fuoco nei nostri animi straziati. Né si voltò dall’altra parte quando uscì dalla camera tenendo in mano la cinghia madida di sudore. Rimase inerte, piagnucolando. Sembrava più che altro un lamento di sconfitta, impotente, completamente inerme. Brrr! Quando ci penso, mi sento accapponare ancora la pelle.
(A cura e traduzione di Mauro Barindi)
(gennaio 2018, anno VIII)
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