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«Falso trattato di manipolazione», la grande sintesi di Ana Blandiana
È di prossima uscita, per Elliot, nella traduzione di Mauro Barindi, un nuovo libro di Ana Blandiana, Falso trattato di manipolazione, che si potrebbe definire come il testamento morale della sua vita.
«Non sono fatta per comandare le persone bensì per emozionarle e convincerle»: è questa forse la frase-summa contenuta in questo straordinario volume (in originale, Fals tratat de manipulare, Humanitas, 2013, 481 pp.), che riassume in qualche modo il senso profondo della visione dell’autrice su se stessa e sul suo percorso intellettuale e politico nell’arena pubblica romena. La frase è presa dal capitolo «27 dicembre 1989» – che si può leggere qui più sotto – uno dei capitoli più significativi e anche drammatici del libro, dove emerge, come altrove comunque all’interno del libro, tutta la forza e la rettitudine civica e morale di Ana Blandiana.
In questo episodio ci troviamo nei convulsi giorni del dicembre del 1989 e assistiamo alla sua rivolta, alla sua personale «rivoluzione» rispetto a un disegno cinico e truffaldino, «manipolatore» appunto, pensato a tavolino dalla nomenclatura di regime che, cambiata casacca da un giorno all’altro, si appresta a installarsi nella sala dei bottoni fatta sfrattare nel caos e nella violenza per continuare indisturbata un preciso disegno politico (quello del «tutto cambia perché nulla cambi»), sfruttando la genuina sollevazione popolare e il coraggio dei dissidenti, come Ana Blandiana, vittime dell’appena deposto dittatore. In questo frangente l’autrice, convocata alla prima seduta del Fronte di Salvezza Nazionale perché inserita, a sua insaputa, in cima alla lista del proposto nuovo gruppo dirigente, scopre il lato subdolo del potere campione di trasformismo, che la vorrebbe usare, insieme a Doinea Cornea e ad altre personalità, come mero orpello per farsi belli e da esporre nella vetrina dello «show rivoluzionario» secondo la logica perversa del baratto più meschino, del «do ut des» a fini propagandistici.
È l’episodio nel quale Ana Blandiana rivive e sperimenta in definitiva i medesimi meccanismi della manipolazione del regime comunista provati sulla propria pelle di cui ci dà testimonianza nel secondo episodio che qui proponiamo, quello relativo al primo arresto del padre, nel 1949 – che s’intitola in modo significativo «La prima manipolazione» –, come esempio speculare e paradigmatico del primo, dove la bambina Ana Blandiana viene sfregiata nella sua innocenza, intuendo già con dolore, anche senza esserne conscia, l’atroce e violento ingranaggio manipolatore di un regime nel quale, quarant’anni dopo e in un altro contesto, avrebbe rischiato di finire stritolata. Lo scampato pericolo dell’Ana Blandiana adulta che si sottrae alle sirene interessate e ruffianesche di Brucan e Iliescu, emerge quindi in tutta la sua valenza come atto di riscatto e di parziale risarcimento sul piano umano per la prepotenza patita da piccola.
Lo spessore etico e civile di Ana Blandiana, espresso tramite quella frase pronunciata durante la prima seduta del FSN, bollava quindi in maniera preveggente la mediocrità e le incrostazioni ideologiche di quella classe politica camaleontica incapace di riformarsi che negli anni a seguire avrebbe causato alla Romania solo danni devastanti. In questo libro «etico», di memorie, che fin dall’inizio l’autrice ci esorta però a non leggere come tale («Questo non è un libro di memorie, anche se a volte potrà dare questa impressione. Esso non è un tentativo di raccontare la mia vita, bensì un tentativo di capirla», p. 5), Ana Blandiana si dimostra di un rigore e di una lucidità che ci fanno comprendere che senza il suo insegnamento e la sua lotta, a volte ingenua, per una Romania migliore, mondata dalle brutture e dalle ingiustizie create da un regime spietato e anchilosato, i romeni non sarebbero in grado oggi di guardare dentro se stessi e di comprendere la loro storia recente.
Una frase di Erasmo da Rotterdam fissata con uno spillo sopra la sua scrivania recita così: «Non lasciarti usare da nessuno»: questo libro è la prova che a quell’insegnamento Ana Blandiana è sempre rimasta cocciutamente fedele e a noi non resta che ammirarla per questo per il semplice motivo che, leggendola, ci ha emozionati e convinti.
Frammento da «Fals tratat de manipulare»
La prima manipolazione
La prima volta che fui manipolata non conoscevo ancora il concetto di manipolazione. Avevo cinque o sei anni, e credo che fosse il 1948 o il 1949, ma più probabilmente era il 1948 perché andavo ancora a scuola, e quanto sto per raccontare è il mio primo ricordo politico. Si tratta del primo arresto di mio Padre. Eravamo a casa solo noi due, mia Madre era uscita per portare a passeggio in carrozzina mia sorella. Eravamo seduti e leggevamo: mio Padre i suoi poderosi libri, io alcune riviste per bambini, di prima della guerra, sulle quali, d’altro canto, imparai anche a leggere, perché non si stampavano ancora libri per bambini. Credo che non mi sentissi mai così importante come quando mio Padre mi prendeva con sé “per leggere insieme”.
Eravamo quindi io e mio Padre e leggevamo entrambi, quando fummo interrotti da qualcuno che chiamava, in maniera inusitatamente imperiosa, dal cancello, che, d’altronde, non era mai chiuso. Erano tre uomini sconosciuti; uno di essi, parlando a voce altissima – per farsi sentire anche dai vicini che si erano affacciati, spaventati e incuriositi, da dietro le staccionate –, disse che erano venuti a effettuare una perquisizione. Non credo che conoscessi il significato della parola ‘perquisizione’, ma dal tono minaccioso di chi la annunciava non poteva presagire nulla di buono, e ricordo ancora oggi di come mi sono sentita fiera che mio Padre avesse chiesto che gli mostrassero l’ordine di perquisizione e che avesse atteso paziente che quelli lo cercassero frugandosi nelle tasche (era chiaro che non se lo aspettavano) e che gli porgessero il documento che lui, dopo averlo aperto lentamente, lesse in silenzio, e poi spalancò il cancello invitandoli a entrare. Entrarono in fretta, quasi spingendoci da una parte, e precedendosi irruppero in casa dove – arrivati anche noi dopo qualche minuto – avevano già cominciato a rovistare tutto, passando da una stanza all’altra.
«Dobbiamo chiamare un testimone» disse il tizio che aveva mostrato il documento mentre un altro si dirigeva in gran fretta a cercare qualcuno fuori, ma tornò indietro quasi subito per chiedere a mio Padre di venire ad aprirgli il cancello.
«Ma il cancello è aperto» disse mio Padre sorpreso. «Non ha neppure il chiavistello».
«Forse si è bloccato, comunque io non riesco ad aprirlo da solo» replicò questi in modo nervoso, mentre usciva di nuovo, e mio Padre, confuso, lo seguì, e anch’io – che dall’arrivo di quei tre non avevo lasciato la presa della sua mano – li seguii (sebbene mi avesse fatto segno di non muovermi), timorosa di rimanere da sola in casa con quei due estranei.
Il cancello, ovviamente, era aperto, e il tizio si scusò in maniera blanda per averlo scomodato, con un tono umile e ironico allo stesso tempo. Poi uscì in strada e poco dopo tornò con Silaghi Baci, un vecchio signore con una gamba di legno che non capiva un’acca di romeno, ma così taciturno che non parlava comunque nessuna lingua. Entrò nel cortile con aria imbarazzata seguendo il tizio che lo aveva prelevato dalla strada, strinse la mano a mio Padre e mi accarezzò la testa, come se avesse voluto scusarsi.
Incominciò la perquisizione. Silaghi Baci se ne stava seduto in cucina e quasi non credeva ai suoi occhi per ciò che stava vedendo: quei tre tipi aprivano gli armadi buttando fuori tutto il contenuto, accumulandolo in mezzo alla casa, rovesciavano i cassetti, mettevano sottosopra i letti, mentre mio Padre, seduto alla sua scrivania come se fosse in una sala d’attesa, li guardava con aria inespressiva, con appena un accenno di curiosità. Io mi ero stretta il più vicino possibile a lui, seduta sul bracciolo della sedia, mentre con lo sguardo seguivo affascinata gli innumerevoli oggetti che volavano per aria dalle casse, dagli armadi, dai cassettoni, dalle scatole e che atterravano formando una sorta di collinetta in mezzo a ogni stanza. Col tempo – dato che l’operazione durò alcune ore – mi abituai a quella situazione, e i tre tizi, che di buona lena perquisivano ogni singolo oggetto, cominciarono a diventarmi familiari, meno spaventosi, ed ebbi il coraggio di staccarmi da mio Padre per poter li seguire piena di curiosità. Scesero in cantina […]. Poi salirono in soffitta e io li seguii, senza però salire, sostando sugli ultimi gradini della scala e solo con la parte superiore del corpo immersa nella polvere dei vecchi libri il cui odore mi era sempre parso misterioso e attraente. Mi ricordai che, circa un anno prima, quando ero più piccola, avevo aiutato mio Padre a portare giù i libri esiliati in soffitta e poi a riportarli su di nuovo più sottili, con molte pagine strappate. Erano gli stessi libri che quei tre stavano rovistando in quel momento quasi con ripugnanza, gettandoli volta per volta con disprezzo sull’assito polveroso da cui si sollevava a ogni tonfo una nuvoletta di polvere.
Quando tornai di sotto, mio Padre e Silaghi Baci se ne stavano in silenzio e nella stessa posizione in cui li avevo lasciati. Non si guardavano neppure. Corsi senza dire nulla verso mio Padre, afferrando il suo braccio, per verificare se reagisse, se fosse vivo. E in effetti sembrava che provenisse da un’altra dimensione, da un altro mondo e, dopo essersi alzato dalla scrivania, si diresse verso i tre che stavano entrando con l’aria di chi avesse finito il proprio lavoro.
«C’è dell’altro da perquisire?» domandò mio Padre in modo più gentile che ironico, e ricordo che uno di loro girò bruscamente la testa verso di lui fissandolo con attenzione.
«Credo di no» rispose, strascicando la voce, quello che pareva essere di grado superiore rispetto agli altri due, e si sedette al tavolo in mezzo alla stanza, tirando fuori da una valigetta dei fogli. «Dobbiamo compilare il processo verbale» aggiunse rivolto a mio Padre.
«Ma, capo» intervenne il più giovane, un ragazzo smilzo e scuro di carnagione, in un tono che era al contempo adulatorio e insolente, «non abbiamo controllato i cassetti del mobiletto nel bagno».
«Ci permette, padre, di controllare anche i due cassetti?» domandò il capo ossequioso, e mio Padre lo osservò sbalordito, incerto se lo stesse prendendo in giro o se si trattasse di qualcosa di grave.
«È assurdo che me lo chieda… Certo che potete controllare. Siete stati sia in cantina che in soffitta…». Il capo sorrise come se si trattasse di una barzelletta ben raccontata, e il giovane scuro di carnagione si chinò e tirò il cassetto pieno dei miei giocattoli. Sopra c’era una rivoltella.
Un oggetto sconosciuto (ero troppo piccola per aver visto dei film) che non sapevo cosa ci facesse nel mio cassetto. Sollevai lo sguardo interrogativo verso mio Padre, ma non sembrava essere più lui; Silaghi Baci si era alzato di scatto e, girandosi sulla gamba di legno, stava quasi per finire a terra, mentre i tre stavano in attesa con l’aria di chi aveva fatto il proprio dovere.
Mio Padre fu arrestato per porto illegale di armi dopo aver firmato il processo verbale, come fece anche Silaghi Baci, nel quale era descritto il luogo in cui era stata trovata la rivoltella. Dopo che se n’erano andati, rimasi da sola e guardavo impietrita i mucchi di cose gettate alla rinfusa, senza riuscire a piangere, mentre nelle orecchie mi risuonava il martellio della gamba di legno del vicino che si stava allontanando.
Solo dopo il ritorno a casa di mia Madre, che mi fece raccontare nei dettagli quel che era accaduto – ponendomi domande precise e obbligandomi a ripetere ciò che le sembrava poco chiaro –, capii che la rivoltella era stata messa nel cassetto quando avevano fatto uscire di casa mio Padre perché aprisse il cancello che invece era aperto. E allora ricordai che mio Padre mi aveva fatto segno di non muovermi, ma io non lo avevo ascoltato perché avevo paura di stare da sola con quei tre appena arrivati. Se non avessi avuto paura, se fossi rimasta in casa durante il tempo in cui mio Padre era stato assente, quelli non avrebbero potuto mettere la rivoltella nel cassetto… E solo in quel momento compresi o credetti di capire il meccanismo della catastrofe edificata sulla mia innocenza; scoppiai in un pianto senza sosta, così violento che mi parve di rompermi in pezzi, gettati insieme alle carabattole della casa che era stata anch’essa ridotta in pezzi.
Nella mia memoria il tutto si conclude con l’immagine di mia Madre che piangeva, singhiozzando, mentre tentava – con mia sorella che strillava tra le sue braccia – di darmi un bicchiere d’acqua e zucchero. Ma non fu quella la fine. Mesi dopo quel fatto, e perfino dopo il ritorno a casa di mio Padre, continuai a svegliarmi di notte gridando e piangendo disperata, perché sognavo ripetutamente sempre la stessa scena nella quale sapevo che dovevo stare in casa con i securisti, ma non ne avevo il coraggio e mi sentivo di nuovo colpevole per quello che sarebbe accaduto, una volta e un’altra volta ancora
…
27 dicembre 1989
Mi è molto difficile dire quando hanno cominciato a manipolarmi nel dicembre del 1989. È più semplice confessare quando ho cominciato a sospettare di essere manipolata. E soprattutto, quando mi sono persuasa fin in fondo della manipolazione. Posso fissarne il momento perfino con esattezza: il 27 dicembre, a partire dalle 6 di sera.
Erano trascorsi già cinque giorni da quando, a intervalli regolari, la Televisione Romena Libera, che trasmetteva ininterrottamente, aveva annunciato la composizione del nuovo governo del Paese, il Consiglio del FSN (Fronte di Salvezza Nazionale), formato da 39 membri, fra cui la prima era Doina Cornea mentre l’ultimo era Ion Iliescu. Io ero la seconda. Non solo nessuno mi aveva interpellato se fossi d’accordo, ma durante dieci ore non ne seppi nulla. Trascorremmo il giorno 22 in strada, in Piazza del Palazzo, all’Unione degli Scrittori e, dopo che era calato il buio, nel nostro quartiere, nel tentativo di rincasare. Cosa che si rivelò impossibile perché nella nostra via, parallela a quella della sede della Radio, si sparava come in tempo di guerra e, per quanto tentassimo di avanzare da diverse direzioni – senza neppure renderci conto che potevamo correre il pericolo di rimanere uccisi –, trovavamo il cammino sbarrato da barriere di soldati o di camion e di carrarmati piazzati di traverso sui marciapiedi. Mi ricordo non solo della stanchezza e della fame che mi avevano assalito, ma del sentimento soprattutto, innaturale e quasi terrificante, che dal mattino, da quando ero uscita di casa, dopo che in tv era stato annunciato – strano, proprio a quell’ora, quando di solito era spenta – che «il traditore Milea si è suicidato» – era trascorso del tempo che non poteva essere misurato in ore, bensì in anni o addirittura in altre unità di misura, più difficili da definire.
Cercavo di ricordarmi, e ci riuscivo solo a fatica, che cosa avevo fatto quel giorno senza fine, come ci dirigemmo verso «Cartea Românească» sperando di incontrare qualche collega, e come, prima di entrare, dall’angolo di via Nuferi scorgemmo una fiumana di gente che scendeva verso via Știrbei Vodă; corremmo là e penetrammo, smarrendo le nostre identità, nella colonna anonima ed esaltata che non cessava di fluire. Mi ricordavo solo alcuni frammenti, per lo più discontinui: il viso rigato di lacrime dell’ufficiale sbucato dalla torretta di un carrarmato che procedeva in senso contrario, diretto verso la caserma, tagliando in due la folla, e il suo grido «L’esercito è con noi», e i fiori infilati nella canna del cannoncino; poi Geo Bogza, con i capelli arruffati e vestito in pigiama, affacciato alla finestra del suo appartamento nel condominio davanti al quale sfilava la colonna di gente; tentava, emozionato e smarrito, di riconoscervi qualcuno, mentre noi gli facevamo segno con la mano strillando il suo nome ma senza che ci notasse. Poi l’ora infinita in piazza, tentando di capire che cosa stesse accadendo: gli elicotteri che gettavano volantini nei quali si consigliava agli studenti di andare a casa per Natale (una parola che non si usava da decenni); il ribaltabile traboccante di ragazzi che avanzava rischiosamente tra la folla compatta; l’elicottero di cui ci si accorse solo nel momento in cui si sollevò in aria, inclinandosi, dal tetto del palazzo. Poi il balcone si riempì di persone che si accalcavano e che tenevano discorsi che nessuno sentiva ed ebbi allora l’idea di tornare a casa per tentare di parlare con qualcuno alla Radio perché mandasse una squadra per l’amplificazione o almeno qualcuno con un megafono per ristabilire un po’ di ordine, evitando in questo modo che le persone si pigiassero le une sulle altre. Ma non mi ricordavo più – una volta giunti alla Radio – se feci in tempo a dire a qualcuno della mia idea perché fui sollevata di peso e portata nello studio dal quale – da alcuni minuti – si stava trasmettendo in diretta, e dove erano ammassate alcune decine di persone delle quali una mi domandò se credevo ancora che fossimo un popolo vegetale e io scoppiai a piangere. Non mi ricordavo quando tempo dopo arrivammo all’Unione degli Scrittori, né se ci andammo per caso o se qualcuno ci aveva detto che là si erano dati appuntamento gli scrittori, poi l’agitazione e il chiasso attorno al famoso tavolo disposto per il lungo nella Sala degli Specchi, un miscuglio indigesto – osservato per la prima volta, ma che avrei scoperto puntualmente in varie occasioni e in vari luoghi nei decenni a seguire – di persone assai eterogenee, persino di orientamento opposto, che gridavano le stesse cose: la proposta di formare una delegazione che si presentasse in tv per esprimere l’adesione degli scrittori al FSN, proposta che mi sorprese negativamente – come un opportunismo dettato dalla fretta, ripreso quasi in modo indecente in senso inverso – e, nella selva di mani alzate di coloro che si dichiaravano d’accordo, io declinai l’offerta, mentre negli occhi di molti che si voltarono verso di me si poteva leggere l’espressione di meraviglia che conoscevo da molto tempo. […] In realtà, all’infuori della sorpresa [di trovarsi nella lista fatta circolare a sua insaputa, NdT] non mi ricordo molto altro. Tutto mi sembrava provvisorio e, perciò, privo di importanza, mentre la presenza della signora Cornea in cima alla lista mi induceva a considerarla giusta, sebbene gran parte dei nomi non mi dicesse nulla. Il fatto che ci figurassi io stessa era la dimostrazione che si trattava di qualcosa di puramente simbolico e che, sicuramente, avrei scoperto nei giorni successivi in che cosa consisteva il carattere simbolico degli altri.
I giorni seguenti furono tuttavia di crescente fastidio. Tutti mi guardavano come un personaggio importante, mentre io mi sentivo un personaggio ridicolo. Per giorni di fila, in maniera ossessiva, si dava la notizia che facevo parte della conduzione del Paese e io non sapevo neppure dove si trovasse questa conduzione, né di che cosa si occupasse. Da come appariva la realtà vista da fuori, la conduzione del Paese sembrava essere assicurata da coloro che occupavano giorno e notte gli schermi dei televisori, un gruppo di personaggi bizzarri e agitati, isterici e privi di logica, magari anche in buona fede. Gli appelli patetici che esortavano la gente ad accorrere a difendere la televisione, per esempio, dopo un primo momento di emozione finirono per sembrarmi assurdi, per il semplice motivo che una folla ammassata attorno a un obiettivo che doveva essere difeso non poteva che esporlo al pericolo, poiché non era escluso il fatto che, essendo i terroristi dei perfetti sconosciuti, questi potevano nascondersi fra quelli accalcati attorno all’istituzione che avrebbero voluto attaccare. Non mi spingevo oltre con l’immaginazione a pensare che tutto fosse stato organizzato a bell’apposta per fomentare il panico (con il tempo avrei capito realmente come erano andate le cose), ma un’inquietudine che non trovava una sua esplicitazione sostituiva lentamente in me l’euforia drammatica ed esaltata che aveva incominciato a farsi largo in me con le prime notizie giunte da Timișoara. Non esiste orgoglio più grande di quello di essere orgogliosi degli altri. Ero stata scossa dall’emozione e dall’orgoglio (e ne sono scossa ancora oggi) pensando a quel primo Abbasso Ceaușescu gridato dal poeta Ion Monoran a Timișoara, ma non riuscivo a identificarmi e a sentirmi solidale con i personaggi dello studio 4, che si spingevano gli uni contro gli altri per essere meglio inquadrati dalle telecamere, personaggi che proclamavano di arrivare dalla strada, «dalla rivoluzione» e che, ansimando in modo telegenico, seminavano voci e annunciavano catastrofi.
[…]
Questo era il mio stato d’animo quando, la mattina del 27 dicembre, qualcuno dell’Unione degli Scrittori venne a comunicarmi che alle 6 del pomeriggio ero attesa alla prima seduta del Consiglio del Fronte di Salvezza Nazionale che si sarebbe tenuta nel Palazzo di Piazza della Vittoria.
Salii di casa con un’ora di anticipo perché era chiaro che ci potevo andare solo facendo la strada a piedi; stava già cominciando a far buio e i fari dei lampioni non funzionavo perché in gran parte erano stati centrati dalle pallottole. Romi non volle sentir ragioni a lasciarmi andare da sola, sicché ci incamminammo lungo via Berzei tenendoci per mano, mentre attorno a noi si continuava a sparare a intermittenza. Sebbene possa sembrare assurdo, camminavamo in mezzo alla strada, dato che avevamo la sensazione che in quel modo fossimo più riparati, perché i muri erano talmente crivellati di colpi che, per quanto paresse illogico, sentivamo che era meglio che ce ne stessimo il più lontano possibile.
[…]
Attraversammo correndo Piazza della Vittoria e Romi, dopo aver atteso per vedere se potevo entrare, tornò indietro di corsa verso via Berzei, sotto la luce dei traccianti e il sibilo delle pallottole. Io entrai dopo una breve discussione riguardo alla discordanza fra il mio nome sulla carta d’identità (Otilia Rusan) e il mio pseudonimo (Ana Blandiana) presente sulla lista di coloro cui era permesso di entrare. Poiché sembrava che gli sfuggisse il concetto di pseudonimo letterario, mi permise di passare con l’aria però che qualcosa in me non fosse del tutto a posto. Mi indicò l’ascensore che mi avrebbe portata su, ma prima che si chiudessero le porte, un gruppo di quattro, cinque fra ragazze e ragazzi, ridendo e rincorrendosi, entrarono precipitosamente nell’ascensore senza che all’entrata avessero dato le loro generalità; uno di loro mi venne addosso, quasi gettandomi a terra. Mi restò impresso il suo viso perché lo osservai con attenzione per capire se fosse ubriaco o se volesse solo fare lo spaccone. Più tardi avrei compreso che si trattava di Dan Iosif. Mi sarebbe difficile dire se fosse stata l’indignazione o la paura a impossessarsi di me, credo piuttosto che fu lo stupore a sopraffare tutte le altre sensazioni. A ogni modo, l’increscioso episodio dell’ascensore fece da preludio, pieno di significati, al mondo nel quale stavo per entrare e dove, fin dal primo momento, mi sarei sentita come un corpo estraneo.
Giunsi in una specie di ampio corridoio pieno di persone a me sconosciute, ma sconosciute, a quanto pare, anche a loro stesse, perché tutti si presentavano a vicenda, dandosi la mano e dicendo il proprio nome. Per un attimo non seppi se avanzare o no, ma immediatamente varie persone incominciarono a venire verso di me, persone i cui nomi non mi dicevano nulla, ma che scoprivo di averne visto i visi giorni prima negli affollati quadri viventi trasmessi dalla tv. Poi incominciai a riconoscere alcuni nomi: Doinea Cornea, il pastore Lászlo Tőkés, Ascanio Damian, Mircea Dinescu. Lászlo Tőkés me lo immaginavo più anziano. La signora Doinea Cornea avevo un aspetto più fragile di quanto me l’ero figurato, anche se per averla ascoltata alla radio ne conoscevo la flebile voce, da ragazza, che conferiva un carattere in qualche modo irreale al suo grande coraggio. A ogni modo, in quel momento sembrava piuttosto spaventata da coloro che le stavano attorno i quali, a dire il vero, più che a difenderla, pareva invece che la stessero isolando dagli altri. Ci incrociammo con lo sguardo e mi sembrò che volesse dirmi qualcosa, senza che io afferrassi che cosa, comunque era chiaro che si sentiva tanto sola quanto me. Feci per avviarmi verso di lei, che si trovava dall’altra parte della stanza gremita di gente, ma fui fermata dalla battuta sorprendente che mi diresse di sfuggita un signore che stava andando nel senso opposto:
– Bada a come ti comporti, per te ho in serbo qualcosa d’importante.
Era un signore in là con gli anni, che vedevo per la prima volta, dai capelli radi e fulvi pettinati in modo da coprire la calvizie, con certi occhietti furbi, che non nascondevano la loro aria beffarda, e con una fessura tra gli incisivi che non si accordava con il resto del suo aspetto, ma che, in modo paradossale, quando rideva, lo rendeva ancor più antipatico.
– Non credo che ci siamo presentati, gli replicai io in un tono formale che non si confaceva alla mia indole, ma che voleva marcare le distanze.
– Eh, non fare tanto la preziosa, disse fermandosi. Sono Silviu Brucan.
E in quel medesimo istante scoppiò in una risata che era talmente sarcastica da riuscire non solo a essere sgradevole ma anche a incutere paura. Rimasi paralizzata osservandolo fisso in volto, senza magari notare la sua insolenza. Ma così sembrava. Lo guardavo con attenzione e curiosità, una curiosità vecchia di parecchi mesi, ma che aveva l’intensità dello sbigottimento puramente esistenziale che il personaggio con quel nome aveva suscitato in me. Era chiaro che non conoscevo la storia del comunismo neppure lontanamente da come la conosco oggi. Non avevo la minima idea, per esempio, che era stato lui a chiedere dalle colonne di Scînteia, firmandosi col proprio nome, la condanna a morte di Iuliu Maniu durante il processo indetto in seguito alla messinscena di Tămădău. Per me egli era sorto, come Afrodite, dalla spuma del mare, dalle onde di Europa Libera, in concomitanza con la «Lettera dei sei veterani del PCR». Dei sei firmatari della lettera era l’unico di cui non avevo mai sentito parlare. Ma si vociferava che fosse stato proprio lui a scriverla. E la lettera, nella quale veniva descritto il modo in cui i sei veterani comunisti erano pedinati e marginalizzati (tre di loro avevano ricoperto fino a poco tempo prima importantissimi incarichi all’interno delle strutture del partito e dello Stato), diceva, cito: «Non è per questo che abbiamo creato la Securitate». Ricordo che allora quando ascoltai per la prima volta la lettera alla radio non riuscivo a credere che ci potessero essere ancora nel 1989 dei romeni che riconoscessero e che anzi andassero fieri di aver creato la Securitate. Attesi le repliche del programma per riascoltarla ancora una volta ed essere sicura di aver capito bene. Già, i coraggiosi che criticavano Ceaușescu e il culto dei quali veniva ufficializzato in modo entusiastico dai microfoni di Europa Libera raccontavano come erano stati fatti sgomberare dalle lussuose ville da loro occupate per quarant’anni (ossia da quando i legittimi proprietari della classe borghese erano stati obbligati ad abbandonarle) e trasferiti in case dalle pareti di legno e paglia situate in periferia, dove erano posti sotto sorveglianza, giorno e notte. Dopo di che aggiungevano pieni di sdegno: «Non è per questo che abbiamo creato la Securitate». Si trattava della Securitate che, nel momento in cui loro l’avevano creata, non si accontentava solo di buttare fuori dalle case «i nemici del popolo» (per metterle a disposizione, insieme a tutto ciò che contenevano – mobili, quadri, tappeti, stoviglie – ai futuri eroi anti-Ceaușescu) ma anche di arrestarli mandandoli, con o senza processo, alle galere di Jilava, Sighet, Gherla, Aiud, Cavnic, Râmnicu Sărat, Gherla, Periprava, Salcia e a tutti gli altri luoghi di detenzione e di sterminio che ammontavano a più di 300. Dunque, loro non aveva creato la Securitate perché fossero pedinati da uno di loro, diventato dittatore nel frattempo, bensì per sterminare gli altri, coloro che non stavano dalla loro parte. […]
A tutto questo stavo pensando mentre osservavo, con un’attenzione che gli dovette essere parsa esagerata, lo sgradevole personaggio che avevo di fronte a me. Terminò di ridere e, guardandomi a sua volta con insistenza, in modo strano, senza alcun legame con l’allegria o il sarcasmo di prima, mi disse:
– Sarai proposta come vicepresidente. E ripeté: Bada a come ti comporti.
«Vicepresidente di chi?», volli domandargli, ma più forte della curiosità era il suo modo offensivo di comunicare le cose, tanto che pareva stesse dando un ordine più che un’informazione. E gli replicai:
– Ma a me qualcuno l’ha forse chiesto? Io non voglio essere vicepresidente di nessuno. E dato che scorsi Dinescu, che si trovava in un gruppetto di persone a pochi metri di distanza, aggiunsi: – Perché non proponete Dinescu?
– Impossibile, rispose con la faccia seria, con l’aria di chi avesse già discusso di questa cosa. – È troppo isterico.
– Mircea, Mircea, gridai io sadica e divertita, vieni a sentire quel che dice di te il signor Brucan.
Dinescu si avvicinò a noi due sorridendo, come se si aspettasse un complimento, ma proprio in quel momento a destra vennero spalancate le porte e un responsabile a voce alta ci invitò ad entrare nella sala accanto, una sala occupata quasi interamente da un enorme tavolo rotondo attorno al quale ci sedemmo tutti un po’ a casaccio. Poi entrò Iliescu e fece il giro del tavolo stringendo la mano a tutti, senza dire nulla, ma era particolarmente sorridente.
Parecchie volte negli anni e decenni che seguirono pensai a quanta fortuna ebbi che a farmi quella proposta fosse stato un personaggio così antipatico, sul quale ebbi modo di meditare, di trarre gravissime conclusioni e che rappresentava ai miei occhi un vero e proprio simbolo di cinismo e d’insolenza. Il fatto che si fosse permesso di darmi del tu senza neppure che avessimo fatto conoscenza, nello stesso esatto modo con cui gli attivisti di partito si rivolgevano sempre agli altri comuni mortali, il fatto che fosse così grossolano, il tutto sommato alla frase sentita a Europa Libera che tanto mi aveva impressionata e indotta a considerare con maggiore attenzione una parte dell’odio che circondava Ceaușescu, mi avevano indotta a respingere con prontezza e facilità la proposta di aderire a una categoria di cui a mala pena intuivo i pericoli. Certamente, se la stessa informazione mi fosse stata comunicata da qualcuno educato e gentile, che, invece di essere convinto che era escluso che non gradissi l’offerta, avesse usato argomenti logici per convincermi ad accettarla, il mio rifiuto sarebbe stato reso difficile da criteri di garbo per timore di apparire scortese. […].
Me ne stavo seduta tranquilla al mio posto, convinta che fino alla fine della riunione non avrei avuto nulla da fare e, mentre ascoltavo il discorso introduttivo di Ion Iliecu, guardavo con occhi da scrittore i visi ignoti attorno al tavolo. Dissidenti, personalità della cultura, rivoluzionari, aveva detto Ion Iliescu. Riconoscevo le prime categorie, rimaneva la terza. Non ne avevano molto l’aria. Cercavo di guardarli con rispetto, dando loro credito nel nome dell’emozione che avevo vissuto durante i primi giorni. M’incuriosiva soprattutto una giovane ragazza di circa vent’anni, dai tratti spigolosi, le labbra sottili, gli occhi piccoli che non stavano mai fermi e le unghie di un rosso intenso che evidentemente non potevano appartenere a nessuna delle tre categorie, ma che pareva avere l’aria di chi si sentisse come a casa propria. (In seguito avrei imparato a conoscerne il nome che, decenni dopo, avrei scoperto, con meraviglia, occupare posizioni altolocate di ogni tipo, lautamente remunerati, ma senza responsabilità reali.)
Il discorso inaugurale era giunto al punto in cui si proponevano le strutture portanti del nuovo potere. Interruppi il mio esercizio contemplativo perché sentii pronunciare il mio nome. Venivo proposta come vicepresidente del Consiglio del Fronte di Salvezza Nazionale. La mia prima reazione fu quella di sorpresa, la seconda di ribellione. Ed entrambe trovarono collocazione nella stessa frase:
– Ma ho detto che non accetto! gridai quasi, interrompendo l’oratore.
Non so se quell’infrazione al protocollo, o il mio tono di voce più forte di quello ammesso dalle regole della buona educazione, o il rifiuto in sé produssero lo stupore che invase, qualche secondo dopo, la sala, il cui centro d’interesse ero diventata io. L’oratore interrotto mi guardava da sopra gli occhiali e quasi non ci poteva credere. Mi alzai in piedi imbarazzata e ripetei in un tono più cortese e garbato:
– Vi prego di scusarmi, ma prima ancora che cominciasse la seduta ho detto che non accettavo.
Non capivo se Silviu Brucan avesse o no riferito della mia reazione o se Ion Iliescu non l’avesse presa in considerazione, ma nell’uno e nell’altro caso ciò che m’irritava era come il mio accordo pareva essere scontato o che entrasse nei calcoli. A ogni modo, di tutta evidenza, la conversazione avuta nel corridoio, sebbene più scioccante, fu per me più facile da superare. Seguì almeno mezz’ora di insistenze e di discussioni, all’inizio piene di stupore per via del mio rifiuto, poi via via sempre più irritate. È vero che fin dall’inizio – lasciando da parte l’antipatia che Silviu Brucan aveva suscitato in me – il mio rifiuto non si basava su degli argomenti, bensì era unicamente una reazione di buonsenso. Tentai di spiegare che semplicemente non mi vedevo in una posizione così importante, che non mi si confaceva e che non ero tagliata per quella cosa. Ricordo che allora pronunciai una frase che avrei ripetuto negli anni seguenti in altre situazioni più o meno simili a quelle: “Non sono fatta per comandare le persone, bensì per emozionarle e convincerle”. […]. La tensione che andò crescendo assieme alle discussioni aveva origine nel fatto che a costoro pareva inverosimile che un intero piano – che a malapena riuscivo a intuire ma per mezzo del quale ero usata senza che me lo avessero chiesto – potesse essere smontato da un gesto che non era neppure stato preso in considerazione dal momento che pareva essere in assoluto improbabile.
– Non hai diritto di rifiutarti – disse Iliescu a un certo punto, esasperato –, abbiamo bisogno di qualcuno molto amato dalla gente.
Era l’ultima cosa che doveva confessare per convincermi. Compresi allora, come folgorata, ciò che non avevo osato pensare negli ultimi cinque minuti in cui ero stata in preda al dubbio: che avevano bisogno di persone come me per metterle in vetrina al riparo delle quali poter agire senza essere disturbati. E non avevano potuto immaginare che qualcuno potesse rifiutare l’onore e il piacere di essere sistemato in vetrina. […].
Quando uscii dall’edificio, fuori era buio pesto nel quale si sentiva il crepitio di qualche mitragliatrice e si vedevano ogni tanto, da qualche parte verso orizzonte, le scie veloci e luminose di alcuni traccianti. Attraversai di corsa la piazza e mi avviai verso casa il più in fretta possibile, mezzo morta di paura. Più tardi avrei saputo che la signora Doinea Cornea era stata portata e ricondotta a casa con un blindato. Se allora lo avessi saputo, probabilmente l’avrei invidiata, tanto più che non avrei avuto modo di sapere che non si trattava di una forma di protezione, bensì di arresto. Mentre correvo verso casa, pregando di arrivarci sana e salva, ebbi addirittura abbastanza senso dell’umorismo per domandarmi – nel caso in cui avessi accettato quell’importante carica – se sarei stata accompagnata a casa in automobile e mi misi a ridere da sola, convinta che sarebbe stata un’ottima soluzione contro la paura. In realtà, avevo l’animo sollevato e la sensazione di aver sfiorato un grosso pericolo, ma che avevo avuto fortuna. Non appena giunsi a casa e raccontai tutto a Romi, nei minimi dettagli che serbo ancora in mente dopo tanti anni, fui presa dallo spavento.
– Siediti subito e scrivi tutto quello hai vissuto oggi, mi consigliò Romi.
Ma fu un giorno in cui ero invecchiata tanto quanto un decennio. E non riuscivo a reggermi più in piedi per il sonno.
©Elliot, 2023
Per gentile concessione dell'Editore
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 5, maggio 2023, anno XIII)
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