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Claudiu M. Florian e il suo romanzo «Le età dei giochi» a «I Dialoghi di Trani»
Partiti nel 2002, giungono alla loro XIX edizione, tenutasi dal 23 al 27 settembre scorso, gli incontri culturali di «idee, libri, autori» del festival letterario «I Dialoghi di Trani» che l’omonima città pugliese ospita ogni anno nella cornice dei suoi affascinanti luoghi storici e artistici.
Fra i numerosi protagonisti invitati per questa edizione, assai gradita sorpresa è stato l’invito rivolto allo scrittore, e attuale direttore dell’Istituto Culturale Romeno di Berlino, Claudiu M. Florian, autore bilingue «tedesco-romeno» – e sassone, per il 25%, come ha precisato lui stesso! – per parlare del suo romanzo Le età dei giochi – Un’infanzia in Transilvania (Voland, 2019) (libro il cui titolo originale è Vârstele jocului – Strada Cetății, pubblicato per Polirom-Cartea Românească nel 2012, e vincitore nel 2016 del Premio dell’Unione Europea per la letteratura) nell’incontro in rete moderato dalla prof.ssa Lucia Perrone Capano, ordinaria di Letteratura tedesca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Foggia, insieme al suo traduttore, Mauro Barindi, un evento reso possibile anche quest’anno (nel 2019 era stato invitato il giornalista Valeriu Nicolae) dalla fruttuosa collaborazione con l’Accademia di Romania in Roma nella persona della sua vice-direttrice, la prof.ssa Oana Boșca-Mălin, responsabile per i progetti culturali, cui va un più che sentito ringraziamento.
Miglior moderatrice dell’incontro non poteva esserci, dato che la prof.ssa Perrone Capano ha rivolto nei suoi studi lo sguardo anche allo spazio culturale romeno (si è occupata, infatti, di scrittori di origine romena che scrivono in tedesco – citiamo qui il suo contributo del 2009: «Simmetrie sarcastiche. Esili e migrazioni nella letteratura contemporanea di lingua tedesca degli scrittori di origine romena (C.D.Florescu e C.-F.Banciu)». Dopo le parole introduttive della professoressa, che bene ha fatto a ricordare come il libro sia stato scritto originariamente in tedesco (uscito a Berlino nel 2008 col titolo Zweieinhalb Störche – Roman einer Kindheit in Siebenbürgen, in seguito tradotto e ampliato in romeno dall’autore stesso), la parola è passata al traduttore del romanzo, il quale, nella breve incursione nei temi e nella trama del romanzo, ha sottolineato alcune peculiarità essenziali del protagonista: un bambino che vive immerso in un ambiente pluri-etnico-linguistico, in una località della Transilvania, non lontana da Brașov, dominata dai ruderi di un’antica fortezza sassone, colto dallo scrittore fra i cinque e i sette anni, che parla in prima persona e che non viene mai chiamato per nome. Proprio questo fatto, e cioè che il piccolo personaggio principale non venga mai citato con il suo nome di battesimo, è, secondo il traduttore, un aspetto di sottile valenza: è come se Claudiu Florian attraverso questo bambino «anonimo» abbia voluto rappresentare non tanto il personaggio vivo e principale del libro ma tutti i bambini che vivono, come lui, quel felice periodo irripetibile della loro vita – l’infanzia – intriso di ingenuità e spensieratezza.
Partendo da questo aspetto, il traduttore ha posto in rilievo un’altra possibile lettura del rapporto fra il bambino protagonista e lo scrittore: pur essendo ravvisabili talune coincidenze autobiografiche con il ragazzino, Florian lo osserva, lo scruta dall’esterno per fargli narrare in modo distaccato la sua storia da bambino, senza cedere all’istinto di trasformarsi nel bambino, ma servendosene in un gioco di «sdoppiamento», facendogli esprimere e articolare il proprio sentire ora come un fanciullo ora come un adulto. Il bambino insomma cammina lungo un crinale in bilico, da un lato, fra il ludico e l’infantile e, dall’altro, fra il ponderato e l’analitico.
Addentrandosi poi nei cinque capitoli che compongono il romanzo, il traduttore ha sottolineato alcuni aspetti che insieme gettano luce sui rapporti tra il bambino e gli altri personaggi, a partire in primo luogo dai nonni: veniamo perciò a scoprire che il bimbo vive con la nonna Anni, sassone, e il nonno Iorgu, olteno; i genitori sono lontani, lavorano a Bucarest, ma il contatto affettivo e fisico col figlioletto è costante ed evocato in frequenti episodi. Nel romanzo il bambino vive circondato o entra in contatto con e da una pletora di zie e zii, di cugine e cugini, sia tedeschi o sassoni che romeni. I parenti che lui predilige senza ombra di dubbio sono quelli di parte della nonna, che vengono ogni tanto in visita dai nonni Dallagermania – sì, scritto così, in un’unica parola, come un tutt’uno indissolubile e granitico. La Germania, un paese che nella mente del bambino assume i contorni di una terra di favola, quasi un regno fatato, indefinitamente lontano, remoto e che riecheggia continuamente nelle sue orecchie nei discorsi sentiti a casa dai nonni. E ogni volta che gli zii tedeschi, a bordo di una favolosa Mercedes bianca, vengono in visita da loro, non sta più nella pelle perché sa che gli hanno portato in dono tante cose buone e belle e profumate, inesistenti o introvabili in Romania: per esempio, la gomma da masticare colorata e qualche giocattolo, come le automobiline di ferro. I parenti di parte del nonno fanno sempre invece una figura meschina, sono una continua e cocente delusione – senza contare che giungono al volante di una triste e insignificante Dacia, il cui motore ha bisogno di una… fettina di patata per essere rimesso in funzione – perché non gli portano mai in regalo qualcosa che lo impressioni o che lo faccia esultare di gioia, anzi, si trascinano dietro pure un cuginetto pestifero e piantagrane che lui non riesce proprio a sopportare.
Il romanzo è quindi la storia del bambino con accetti vagamente autobiografici, che vive in due lingue e due culture (c’è anche con la comunità ungherese in sottofondo), con usanze e riti distinti, ma compresenti, un romanzo generazionale, della memoria e di famiglia, che in quanto tale è anche o soprattutto un romanzo ancorato, intrecciato alla Storia, a un’epoca: lo scrittore infatti inzuppa il racconto della famiglia del bambino nella storia della Romania dalla fine della Prima guerra mondiale, passando per l’instaurazione del comunismo nell’Europa dell’est, fino alla metà degli anni ’70 del secolo scorso. Si parla dei rivolgimenti e dei rovesci politici, interni ed esterni alla Romania, della dittatura comunista, della propaganda (che arriva dal televisore rosso-bruno, contrastata dalla flebile voce della radio nera, ascoltata di notte, in segreto, proveniente dalle emittenti libere occidentali), delle angherie e delle assurdità subite dalla comunità sassone e dai romeni perpetrate da un regime illiberale, della speranza continuamente delusa di una vita migliore e libera in una democrazia.
Subito dopo il traduttore, ha preso la parola lo scrittore Claudiu Florian che ha spiegato il taglio stilistico che ha voluto imprimere alla narrazione: la carica emotiva e sociale e la tensione dei rapporti fra i personaggi scatenate dalla Storia vengono stemperati ed esposti senza «pathos», e per fare ciò è ricorso a un metodo che mirava a rendere meno ansioso il racconto, e questo metodo è consistito nel filtrare la narrazione attraverso gli occhi del bambino, così da trasformarla in energia positiva smorzando i toni che, qua e là, potevano apparire negativi. Poi, in un ampio affresco, ha toccato uno per uno i cinque capitoli in cui è strutturato il romanzo: il primo capitolo (Di-tanti-tipi) è di tipo descrittivo finalizzato a tratteggiare la diversità di mentalità, di lingue, di dettagli, di aspetti, di funzione dei vari oggetti, tipici dell’ambiente transilvano in cui svolge la narrazione; il secondo capitolo (La Mercedes bianca) rappresenta l’incontro di due mondi, quello transilvano – rappresentato da una cittadina così piccola tanto da non essere né una città vera e propria né un villaggio di campagna – e quello tedesco-occidentale, rappresentato dagli zii del bambino emigrati in Germania dopo la guerra e che ritornano a far visita con la propria famiglia ai parenti in Romania; il terzo capitolo (Tutti olteni) descrive i rapporti della famiglia del bambino con i parenti romeni, in Oltenia, e dal cui incontro veniamo a conoscenza in maniera più approfondita e dettagliata, e anche drammatica, della storia comune delle due famiglie sulla scia delle vicende politiche e personali determinate dalla Seconda guerra mondiale; il quarto capitolo (In viaggio in Valacchia) racconta del viaggio, in treno, del bambino insieme al padre dalla Transilvania alla Valacchia, terra natale del genitore, a Bucarest, e da qui fino alle sponde del Danubio, vicino a Giurgiu. Anche qui emergono le diverse mentalità e vicende dell’altro ramo della famiglia, marcate ancora una volta dalle stesse vicende storiche, in un ambiente, quello della campagna del sud della Romania, piatto e brullo che il bambino, con la sua deliziosa ingenuità, osserva come sia molto diverso da quello suo, transilvano, verde e montuoso. Infine, nel quinto capitolo (Falchi della patria), il bambino è protagonista del romanzo più che altrove perché ha briglia sciolte nel comportarsi e agire da bambino; qui, infatti, non ci sono più gli adulti in primo piano con i loro discorsi e le loro storie, ma solo lui, ormai prossimo a iniziare la scuola – come «falco della patria», così voleva il regime comunista, che la gioventù venisse irreggimentata fin da tenera età, secondo il modello sovietico – interagendo con altri suoi coetanei di giochi e d’avventura.
A conclusione del collegamento, rispondendo ad alcune domande poste degli ascoltatori, Claudiu Florian ha accennato, con soddisfazione e una certa sorpresa, all’accoglienza molto buona ricevuta dal romanzo in Germania e in Romania (e in Italia, ha aggiunto il traduttore), con recensioni positive e attente, a riprova così del fatto di aver toccato un nervo ancora molto sensibile o di grande interesse per coloro della prima e della seconda generazione stabiliti in Germania, emigrati dalla Romania, siano essi tedeschi o romeni. D’altro canto, è un argomento che suscita puntualmente l’interesse dei tedeschi sia per il suo carattere «esotico» sia per le sue caratteristiche storiche comuni romeno-tedesche e quindi anche per la/le comunità tedesca/sche di Transilvania, una realtà di solito poco conosciuta in Germania. Attualmente Claudiu Florian sta completando il suo secondo romanzo, che è la continuazione del primo, adottando lo stesso procedimento seguito in L’età dei giochi, ovvero la prima variante è scritta direttamente in tedesco, cui seguirà la variante romena autotradotta da quella tedesca. Claudiu Florian resta quindi tenacemente attaccato alla lingua tedesca – nonostante sia sassone «soltanto» per il 25%, come dichiarato sopra – un attaccamento alla sua seconda lingua materna instillatogli dalla nonna (forse la stessa nonna Anni che troviamo fin dal primo capitolo del romanzo), e che ha poi continuato a usare nell’intimità con la madre, scomparsa nove anni fa; lingua coltivata e portata avanti in seguito negli studi di Germanistica, di storia e letteratura, all’Università di Bucarest e perfezionati in fine nel dottorato a cui ha lavorato in Germania.
Per concludere, riportiamo il bel testo che capeggia sulla quarta di copertina del romanzo, un sunto che susciterà, speriamo, la curiosità e l’interesse e la voglia nei lettori di accostarsi alla lettura del libro di Claudiu Florian: «Un racconto corale e plurilingue, fatto di odori e sapori, principi azzurri, dittatori ed eroi. Siamo in Transilvania, nella prima metà degli anni ’70. La piccola comunità che vive nel villaggio ai piedi della fortezza medievale non lontano da Brașov è un crocevia di lingue e civiltà, antiche e moderne. Un bambino di sei anni vi trascorre l’infanzia insieme ai nonni. Curioso e ingenuo, tenta di capire quello che lo circonda a partire dalle parole, oggetti spesso strani e sfuggenti che in qualche modo danno forma alla realtà. Lo sguardo spensierato del bambino cerca e trova la vita segreta delle cose e attraverso la favola interpretata un tempo segnato da tragedie e lacerazioni.»
A cura di Mauro Barindi
(n. 10, ottobre 2020, anno X)
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