|
|
Matei Visniec e la doppia opzione linguistica nella sua opera letteraria
In programma al Salone di Torino 2024, Il venditore di incipit per romanzi (Voland, 2023), il nuovo romanzo – il secondo dopo Sindrome da panico nella Città dei Lumi (uscito sempre per Voland nel 2021) – dello scrittore e drammaturgo franco-romeno Matei Vișniec (n. 1956).
Presa la via dell’esilio in Francia nel 1987 dove chiese asilo politico per sfuggire all’asfissia della censura e della privazione di libertà sotto il regime dittatoriale di Ceaușescu, Matei Vișniec, messe nuove radici nel paese transalpino, ha stabilito una sorta di patto ‘geniale’ tra sé stesso e la propria lingua nella sua nuova vita da scrittore: scrivere i testi di narrativa in romeno e i testi teatrali in francese (autotraducendo in francese, quasi sempre, quelli antecedenti scritti in Romania), in onore del paese che lo aveva accolto. Non è infrequente nell’intellettualità romena esiliata all’estero riscontrare questo attaccamento alla propria lingua per continuare a esprimervisi, come un cordone ombelicale ‘esistenziale’ impossibile, perciò, da recidere in maniera definitiva. La scelta di scrivere in romeno o in quella del paese in cui si è stabiliti varia da scrittore a scrittore: Dumitru Țepeneag (n. 1937), per esempio, ha scritto alcuni romanzi direttamente in francese, i restanti, la gran parte, sono stati tradotti dal romeno. Per tutti gli scrittori romeni esiliati e non (esiste ovviamente anche un’emigrazione post-1989) arriva il momento in cui devono fare i conti con la lingua madre: per alcuni la scelta di continuare a scrivere in romeno è univoca, per altri invece è un accostarsi e un ritrarsi dalla lingua di accoglienza dalle motivazioni e considerazioni più svariate. L’eccezione più celebre è Emil Cioran (1911-1995) che ‘disimparò’ il romeno e ‘si convertì’ al francese. Ma poco frequente, se non del tutto rara, è la doppia opzione linguistica, il doppio binario espressivo su cui Matei Vișniec ha deciso di far vivere le sue pagine – come drammaturgo in francese (e di fatto Visniec è un oggi un rinomato drammaturgo ‘francese’ a livello internazionale; Ionesco docet…), come romanziere in romeno – ritagliandosi in questo modo un prezioso spazio dilatato in cui può muoversi liberamente tra due culture e due lingue. Il critico e storico letterario Nicolae Manolescu scrive infatti che «entrambe le lingue rappresentano per lui uno strumento efficace, non uno scopo in sé» aggiungendo riferito alle sue commedie: «Le parole sono precise, le frasi brevi, facili da pronunciare sul palcoscenico […]. Geniali in quanto a idee e accattivanti per quanto concerne la trama, esse si possono leggere altrettanto bene anche se sono state scritte per le scene» [1]. Interessante sarebbe capire e indagare fin dove queste due modalità linguistiche si siano influenzate a vicenda, a vari livelli, in special modo stilistico, per esempio, o quanto una delle due abbia inciso nel foggiare l’altra, a partire almeno dal momento in cui l’autore si è imbevuto della lingua e della cultura di accoglienza una volta stabilitosi a Parigi.
La lingua dei due romanzi che ho tradotto è esemplificativa, mi sembra, dello ‘stile Vișniec’: fluido, calibrato, espressivo. Ciò che colpisce è il suo modo peculiare di modulare la lingua incanalandola in una sintassi tersa e comunicativamente efficace, mai pesante, accompagnata da una scrittura unica, personalissima che lo contraddistingue nettamente fuori dai confini romeni. Vișniec mantiene sempre alta l’attenzione/la tensione schivando il pericolo di ripetersi o, peggio, di essere risucchiati da vuoti d’idee, tirando fuori dal suo cilindro mirabolanti situazioni di inventiva letteraria come raramente se ne riscontrano nella narrativa romena attuale. È pur vero che l’autore se lo può permettere nel suo brioso incedere tra le parole perché le storie che ‘si diverte’ a immaginare si situano in quello spazio tutto suo sospeso tra il verosimile e il reale, tra il distopico e il fantasioso, tra il visionario e il trasognato in cui eccelle con una naturalezza e una abilità stilistica assolutamente godibili che catturano e convincono. Un po’ come le sue commedie. C’è insomma una teatralità nella sua narrativa che si trasforma in un palcoscenico popolato da personaggi curiosi ed originali, che escono ed entrano di/in scena in un susseguirsi di ‘atti’ carichi di sorprese e pregni di significati. Per tali ragioni reputo che nel panorama attuale Matei Vișniec sia una delle voci letterarie contemporanee più valide e originali.
Queste considerazioni e sensazioni e più in concreto l’esperienza di tradurre questo libro le ho esposte nella Postfazione al suo romanzo che Orizzonti culturali italo-romeni vi propone qui di seguito.
[1] Nicolae Manolescu, Istoria literaturii române pe înțelesul celor care citesc, Paralela 45, Pitești 2014, pp.330-331.
Postfazione
Una folle pacatezza
Prima che un traduttore sono, innanzitutto, un lettore, e da lettore la scrittura di Matei Visniec mi ha sempre affascinato e catturato fin dalle prime righe – come nel precedente Sindrome da panico nella Città dei Lumi pubblicato da Voland nel 2021, e ora in Il venditore di incipit per romanzi –, per quel suo modo leggero e asciutto, retto da un equilibrio interno che si ramifica in un intrico (labirintico!) di direzioni, echi e richiami interni, nel raccontare storie, intessute in una trama che sfiora a volte il magico, l’onirico o il surreale avvolti in una concreta plausibilità. Poi, reimmergendomi nel fluire della sua sintassi, ritrovo quel nitore e quel senso quasi di pacatezza – apparente! – che avevo assaporato da lettore e che, questa volta nella veste di traduttore, riassaporo, rivivo sillaba dopo sillaba, a loro stretto contatto, per trasporla in italiano. Ma la sensazione è sempre di (ri)cominciare un’avventura, risucchiato nel turbinoso vortice di situazioni, personaggi, immagini, idee dalla forza travolgente, che lasciano quasi senza respiro o il tempo per assorbirne il ritmo pressante. In questo romanzo si gira una pagina, o si termina un paragrafo, e ci si trova nel testo di una poesia, e poi segue un altro capitolo, cambiano gli scenari, gli ambienti – si riemerge a un certo punto in un surreale “Caffè dei Timidi”, oppure si viene fatti accomodare nell’atmosfera di caffè storici (il Florian e il Quadri di Venezia, l’Hawelka di Vienna o i celebri locali parigini, immancabili anche qui come in Sindrome) – spuntano nuovi personaggi, oppure gli stessi personaggi si esibiscono in altre capriole sensazionali, in tripli salti mortali, e così via, trascinando il lettore con gioia, divertimento e stupore lungo più di trecento pagine. Mi spingerei ad affermare che, come traduttore, ho avuto, per così dire, il compito facile, perché, traducendo Matei Visniec, non devo inseguire la sua scrittura ma è la sua scrittura che insegue me, incalzandomi, battendomi qui e là su una spalla per avvertirmi: “Attenzione, fin qui ho proceduto in questo modo, non ti adagiare, non lasciarti illudere, tra poco o più in là avrai altre sorprese…” In questo modo la tensione è sempre viva, tenuta accesa, e il tradurre non si arena, non ha momenti di stanca, ma è pungolato dall’avanzare scoppiettante del romanzo. E questa ‘tensione’ mi aiuta ad affrontare il testo da tradurre con la pregnanza e il calibro giusti. A ciò va aggiunto che la scrittura varia all’interno del romanzo dal punto di vista stilistico; porto qui come esempio le missive tra Guy Courtois, il ‘mefistofelico’ e gentile elargitore di gloria letteraria tramite fulminanti incipit di romanzo, e i suoi vari interlocutori:
Pregiatissimo signore,
ho saputo che mi ha cercato. Purtroppo, in questo momento non mi trovo in Francia e non vi ritornerò prima di gennaio del prossimo anno. Il nostro dialogo può comunque cominciare anche così.
Come ha avuto modo di constatare, il mio telefono fisso non è dotato di segreteria telefonica, o di un répondeur, come alcuni preferiscono chiamarlo. Avrà inoltre osservato, magari, nel momento in cui ha esaminato con più attenzione il mio biglietto da visita, che non vi figura nessun numero di cellulare, né un indirizzo e-mail. E sì, evito così di lasciarmi inghiottire da questa sventura dell’urgenza inventata dalla modernità.
Un altro esempio sono i dialoghi che intercorrono tra Guță, primo autore di un romanzo scritto post mortem, e la voce del programma Easy Teller, un fantasmagorico congegno per scrivere romanzi “combinatori” che funziona tramite Patch, dei sensori da applicare sulla pelle come cerotti:
«Buongiorno.
Sono EASY. Hai già preso dimestichezza col mio nome?
Se vuoi che lo cambi, dimmelo.
Dato che abbiamo già collaborato così bene nel far partire la nostra opera comune, mi permetto di suggerirti anche l’utilizzo del programma di scrittura Patch.
Lascia che ti esponga, di seguito, gli enormi vantaggi della letteratura Patch».
Nel caso degli scambi epistolari, come si può notare, il tono si fa suadente, confidenziale, ammiccante, non è secco e ripetitivo come nella lingua di X, il personaggio ‘incognita’ protagonista della storia distopica, sorta di mini-romanzo nel romanzo, che si sveglia un mattino nella sua città completamente spopolata, dove il tempo si è fermato alle 6 e 37, sullo sfondo di uno scenario dai toni apocalittici:
«X passa con indifferenza accanto alle centinaia di automobili abbandonate, evitando di calpestare le borse, gli ombrelli e i cappelli, rifiutandosi di guardare le vetrine, cercando di non vedere che tutti gli orologi pubblici sono fermi sulle 6 e 37 minuti».
Nel secondo caso, la lingua della macchina che guida l’utente nel comporre il proprio romanzo è schematica o artificiosamente naturale e informale, proprio come in un programma da computer. Di fronte a questa panoplia di voci e toni, di improvvisi sbalzi stilistici e linguistici, il traduttore s’inoltra estasiato, perché gode terrorizzato quando si trova in situazioni simili…
Traducendo Matei Vișniec ho imparato anche a conoscere e a ritrovare alcuni suoi temi ricorrenti: se i suoi romanzi aprono tante finestre, è anche vero che alcune vengono spalancate per affacciarsi su panorami che ritornano puntuali a stagliarsi sull’orizzonte dei suoi ricordi e del suo vissuto. Sono almeno quattro: un amico, la famiglia – entrambi in chiave metaforica o allusiva –, la Bucarest del giovane Matei studente di provincia, e la città natale. Ecco allora che se in Sindrome appare l’immaginario amico d’infanzia Gogu Boltanski, il suo doppio riluttante che a un futuro più dinamico nella capitale, ma con molte incognite, preferisce la quieta vita della provincia, a fargli eco in questo romanzo c’è Victor, un ingombrante fratello maggiore, idolatrato in famiglia e da tutti quelli che lo conoscono:
«Non è facile avere un fratello maggiore considerato da tutti un genio. Immaginatevi questa situazione: non fai in tempo ad aprire gli occhi dopo essere stato partorito e la prima frase assorbita dal tuo cervello contiene la parola Victor: “Vedrai, assomiglierà a Victor!”»
Alla Bucarest del regime repressivo di Ceaușescu, quella del periodo dell’università, mitica e sprofondata nel tempo, nei ricordi, nei sogni, sotto il, si contrappone la Bucarest postcomunista, vista attraverso la decadente ex sede dell’Unione degli scrittori, Casa Monteoru, in viale della Vittoria, con il suo ristorante, spazio invalicabile, “la cittadella da espugnare”, dove un tempo si riuniva l’élite letteraria romena, ed era un privilegio impagabile per il giovane Matei Visniec potervi accedere come a un luogo sacro:
«ll ristorante si trovava al pianoterra di un antico palazzo signorile su una delle vie mitiche della capitale romena, viale della Vittoria. Per Bucarest, viale della Vittoria è come Rue de Rivoli per Parigi, ossia un perno storico della città. Da qualche parte, al numero 115, credo, si trovava questo meraviglioso piccolo palazzo avvolto da fragranze aristocratiche. Per gli informati, si chiamava Casa Monteoru e aveva di fronte un bel cancello in ferro battuto. Casa Monteoru ospitava inoltre, nel periodo in cui io cominciavo la mia vita da bohémien a Bucarest, la sede dell’Unione degli Scrittori […]».
Altro luogo ricorrente è la città natale dell’autore, Rădăuți, in Moldavia, nel nord della Romania; in Sindrome è più volte evocata scritta per intero, mentre qui appare, timida, in due occasioni, in sogno, con la sola iniziale:
«In realtà, la donna si trovava in un treno che stava proprio entrando nella stazione della mia città natale, R, nel Nord della Romania.
Inizia qui anche la prima sequenza vera e propria del sogno con me che scappo di corsa alla stazione. La donna aveva fatto in tempo ad avvertirmi, sempre al telefono, che non sarebbe stato difficile riconoscerla, perché camminava con le stampelle (forse per via di un piede ingessato). Le immagini del sogno si trasferirono in un baleno sul binario della stazione della città di R dove riconobbi subito la signora misteriosa».
Questi sono alcuni ma significativi spunti che mi servono per dire quanto sia infinitamente grato a Matei Vișniec per avermi dato la doppia opportunità, da lettore e da traduttore, di godere della sua scrittura fuori e dentro di essa, misurandomi con essa, saltellando, incespicando, sguazzando divertito nello scalpicciante magma di parole trasognate ma lucide, inverosimili ma probabili, ironiche ma anche profonde.
Mauro Barindi
(n. 5, maggio 2024, anno XIV)
|
|