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Ion Vartic e il suo «Cioran ingenuo e sentimentale»
Criterion Editrice pubblica uno degli studi critici fondamentali e di riferimento per l’esegesi ciorania: Ion Vartic, Cioran ingenuo e sentimentale, traduzione di Marisa Salzillo, a cura di Mattia Luigi Pozzi, Postfazione di Giovanni Rotiroti (Milano 2020, pp. 379). Pubblicato in Romania nel 2000 per Biblioteca «Apostrof» e ristampato e ampliato in terza edizione per Polirom (Iași, 2011), è stato insignito alla sua uscita del premio dell’Unione degli Scrittori di Romania come miglior saggio. Con l’occasione pubblichiamo l’Introduzione di Mattia Luigi Pozzi e l’intero I capitolo.
Mattia Luigi Pozzi: Variazioni su Cioran, nelle pieghe della scrittura
Non esiste studio critico di rilievo su Emil Cioran che non citi questo volume di Ion Vartic, compresa la prestigiosa edizione delle Œuvres per la Bibliothèque de la Pléiade. Fonte di ispirazione per celebri pièces teatrali, come Mansardă la Paris cu vedere spre moarte (Mansarda a Parigi con vista sulla morte) di Matei Vişniec, e vero e proprio ricettacolo, spesso purtroppo non adeguatamente frequentato, di informazioni di prima mano sul pensatore, Cioran ingenuo e sentimentale (traduzione di Marisa Salzillo, a cura di Mattia Luigi Pozzi, Postfazione di Giovanni Rotiroti, Criterion Editrice, Milano 2020) si è infatti imposto come testo imprescindibile e punto di riferimento per l’esegesi cioraniana: semplicemente, un classico.
Apparso per la prima volta nel 2000 e insignito lo stesso anno del premio più prestigioso della letteratura romena, il Premio dell’Unione degli Scrittori di Romania, il volume è presentato la prima volta al lettore italiano nella sua terza edizione, del 2011, rivista e aggiornata.
Storico e critico letterario di rango, e al contempo narratore in senso proprio, Ion Vartic si dimostra in questo testo eccezionale «critico-scrittore», ma prima ancora attento lettore, in possesso di una cultura straordinaria e, come gli ha scritto Adolfo Bioy Casares in una lettera del marzo 1987, della «chiave magica dell’intelligenza». Vengono in mente i lavori di Cesare Garboli e Pietro Citati, capaci di restituire la singolarità di una voce, le più intime vibrazioni di un’opera, smontata e ricostruita, piega su piega, a partire da un’intuizione essenziale.
Non a caso, il titolo di questo libro dice, forse, già tutto. Cioran «ingenuo» e «sentimentale»: nella congiunzione, se non nella crasi, destinale e fatale, della coppia concettuale inaugurata da Schiller in Sulla poesia ingenua e sentimentale si gioca infatti il tema principale di Vartic.
Cioran vive, scrivendo, e scrive, vivendo, in questa tensione, come quella dell’arco e della lira, per dirla con Eraclito, tra un pensiero somato-lirico che dai propri vissuti trae linfa, giacché l’idea viene dopo, e l’afflato sentimentale, manierista, che esprime, sebbene frammentario e frammentato, la nostalgia per il prenatale nel canto di un’elegia.
Questo volume è una tortuosa fantasia, che si compone, anche strutturalmente, in maniera peculiare, come un dispositivo con alcuni capitoli a fungere da ʽcentro’ mobile, accompagnati da marginalia, che, da altri punti di vista, ne riverberano l’eco e ne propagano le sonorità.
Più in generale, i capitoli si rispondono e si richiamano, come in una sinfonia che in nulla cede però alla precisione, alla limpidezza dello sguardo e alla profondità dell’analisi.
Virtuoso che conosce l’intera intavolatura, Ion Vartic propone qui infatti una serie di variazioni che non si dovrebbe esitare a definire musicali, sui medesimi temi, aggiungendo sempre un dettaglio, una nuance, a ogni giro armonico, in una composizione potente e maestosa. In questo egli si apparenta direttamente a Cioran, al suo modo di ruminare, musicalmente, sulle medesime ossessioni.
Ciò è massimamente evidente nel respiro della narrazione analitica di Vartic, nella sua prosa da grande critico-scrittore in cui le citazioni cioraniane diventano corpo e carne del testo, ornando la caratteristica estetica della pagina e cadenzando il medesimo passo che Vartic imprime alle sue connessioni sorprendenti e illuminanti. Cioran si trasforma così in prisma di rifrazione per tantissima parte della letteratura europea e mondiale – da Kafka a Goethe e Shakespeare, passando per Dostoevskij, Baudelaire, Kundera, Borges, Leopardi, Gombrowicz, Unamuno, Ibsen, solo per citarne alcuni.
Alcuni esempi, solo di sfioro. Nell’ampio capitolo dedicato a quello che Vartic definisce, ancora con suggestione schilleriana, il «complesso di Fiesco», ossia il complesso del creatore intrappolato in una piccola cultura e a cui è preclusa l’universalità, compaiono sulla scena, direttamente o allegoricamente, tutte le figure di spicco della cultura romena degli ultimi due secoli: da Ionescu – opposto e complementare a Cioran –, a Eliade, Eminescu, i due Caragiale... fino a Ţepeneag.
In parallelo con il libro di Marta Petreu sullo scabroso passato del pensatore, Vartic ci mostra qui un Cioran più intimo, alle prese con la propria romenità, tipicamente transilvana – non mancano richiami a Budai-Deleanu, alla Scuola Transilvana e ai prodromi della Trasfigurazione della Romania –, nel trapasso, caratterizzato tuttavia dall’identità degli assunti di fondo, da una «visione di riforma» al disincanto in termini di «grazia» e «fatalismo» riguardo al destino del proprio paese.
Non meno importante, e rivelatrice, facendo capo all’assunto cioraniano per cui sono essenziali le individualità, e non l’umanità in genere – retaggio paradossale di quei libri che lo rendevano ʽanarchico’ in gioventù, in particolare dell’Unico e la sua proprietà di Max Stirner –, è la rievocazione, plastica e vivida, della gioventù di Cioran nella Sibiu degli anni ’30, periodo di vera e propria epopea, in cui la realtà trasfigura in leggenda.
Al pari della vera e propria regressione cioraniana – a cui Vartic aveva assistito di persona, in occasione della visita, dostoevskiana quante altre mai, al pensatore nella sua mansarda parigina nel febbraio 1991 – il ʽnarratore’ ci trasporta in questo mondo e in questo tempo, dove per la prima volta si conosce e chiarisce l’identità di quei Meister des Überdrusses, di quei maestri del tedio e del disgusto di cui Cioran parla spesso nelle interviste. Mircea Zapraţan, Simion Timariu, Ghiţă Văcaru – il «principe stanco», «il sindaco degli ubriaconi» –, Ion Tatu – soprannominato «Ion di mamma» –, il «saturnino pope» Crăciunel, ovvero i «principi di Sub Arini», come li definisce Vartic con raffinato riferimento ai Principi della Corte-Antica di Mateiu Caragiale, sfilano sotto i nostri occhi nelle loro avventure tra osterie e disperazione, nella loro posa di dandy metafisici. L’Effigie del fallito cioraniano, che nel Sommario di decomposizione colpisce così tanto – e che ritornerà sotto la sua penna, e in tutta la sua vita, incessantemente, strutturandone l’ideale filosofico di ʽdeclassato’ e di ʽpensatore privato’ – si nutre proprio di questa alternanza, lucida e ludica, tra immaginario e reale.
Al lettore dunque il gioco – un piccolo passatempo, come dice lo stesso Vartic nella sua dedica – di immergersi in questo vortice, quasi una vertigine, di riferimenti, corrispondenze, suggestioni, illuminazioni.
Una prova da maestro, una messe di dettagli fondamentali per comprendere più a fondo Cioran e la sua opera, un’incredibile capacità di connettere i fili nascosti dell’identità (quantomeno) europea, di mostrarceli nella piena luce delle loro ombre. Direi allora che è il caso di ripetersi, se la ripetizione è creatrice: questo volume di Vartic è un classico, semplicemente.
Capitolo I. Cioran prima di Cioran
I miei libri non sono che pane duro, le lettere, invece, grano vivo
che gustiamo dopo aver frantumato la spiga con le dita.
(D.S. Merežkovskij)
Quando raccontai a Cioran, nel 1991, di come erano state scoperte [1] le lettere della sua giovinezza indirizzate a Bucur Ţincu, il filosofo ebbe una reazione molto espressiva, emozionata, divertita, umoristica nel senso più profondo del termine, esclamando: «Dodici lettere ai culmini della disperazione!». E scoppiò a ridere fino alle lacrime. Poi aggiunse: «Dovrebbero essere pubblicate in un libriccino di versi». La sua reazione – umoristica nel senso consacrato da Cervantes, Pirandello, Thomas Mann – marcava, cosa di cui non potevo rendermi conto allora, la sua regressione sempre più accentuata e irreversibile verso l’ormai liquidato periodo romeno. Da qui anche l’emozione con cui riviveva ogni avvenimento, per quanto insignificante fosse, riferito agli anni della sua infanzia e della sua giovinezza.
Quelle dodici lettere a Bucur Ţincu rappresentano un documento biografico assolutamente eccezionale. Possono essere lette in parallelo al libro che egli progettava di scrivere, e costituiscono un diario dietro le quinte, distanziato, freddo e lucido, di un “attore” che proprio allora, al culmine della disperazione, evolveva in un recitativo dal «carattere lirico, con la tensione più bestiale e apocalittica» (come promette nella lettera del 24 aprile 1933).
Una delle prospettive dalle quali è possibile leggere quelle dodici lettere è suggerita nell’epistola datata 4 marzo 1932: già da allora è presente la rivelazione del dolore, del niente, del vuoto interiore, in poche parole, un «sentimento astenico della vita». E sempre da lì viene l’originale e radicale attitudine attraverso la quale, come egli stesso annuncia, trarrà «senza timore le ultime conseguenze».
È quindi un’opportunità straordinaria il fatto che queste lettere indirizzate a Bucur Ţincu si siano conservate, in quanto rappresentano una specie di certificato di autenticità per il pensiero di Cioran: leggendole, ci si rende immediatamente conto che il sentimento di disperazione non è il riflesso di una moda o di un atteggiamento filosofico, ma l’espressione inalterata, quasi indecente, di esperienze personali e di sperimentazioni esistenziali. Come dicevamo, le lettere sono come frammenti di un diario dietro le quinte, dalla scrittura tagliente e distanziata, del tutto diversa da quella lirica e autobiografica di Al culmine della disperazione. Ecco quindi che, nella lettera del 2 novembre 1930, vediamo Cioran che cerca di opporsi, con metodo, ai propri vissuti annichilenti evitando il contatto con «ogni filosofia sentimentale» (ovvero – nel senso comune del termine – confessionale e soggettiva), mentre prova a curare la malinconia con letture filosofiche fredde e aride, eludendo i libri che lo rendevano «anarchico» e occupandosi pertanto di «problemi astratti e impersonali» o di aspetti di «filosofia pura: tempo, causalità, numero, ecc…». La lotta con la tristezza – sentimento crepuscolare che impulsa la creatività lirica – rivela in Cioran un’attitudine programmatica antiartistica. È evidente, sin dall’inizio, che egli non è uno scrittore, bensì un filosofo. Il suo metodo, basato sulla disciplina e la terapia dell’anima, è del tutto simile a quello che Ernesto Sabato attribuisce a Platone (che avrebbe inventato il mondo puro, perfetto e freddo delle Idee per compensazione, solo perché possedeva un temperamento disordinato e febbrile) o a quello che l’autore del romanzo Sopra eroi e tombe ha applicato a se stesso attraverso la matematica e la fisica. Per questo motivo qualche passaggio della lettera del 2 novembre 1930 sembra essere stato scritto proprio da Sabato: «come si fa ad annullare la tristezza attraverso la tristezza, come si fa a combatterla attraverso la poesia? Anche se, paradossalmente, devo dirti che secondo me gli uomini tristi dovrebbero occuparsi di matematica, non di poesia». Giacché «quando si è disgustati dalla vita non bisogna ricorrere a Baudelaire, ma a uno studio di Leibniz, per esempio, sulla misura o alla critica del principio di causalità di Hume o, se vuoi qualcosa di più interessante, meglio rivolgersi alle argomentazioni di Zenone contro il movimento. Lo dico per esperienza personale». Non diversamente procedeva Nietzsche: come mostra il frammento autobiografico del 1868-1869, in contrapposizione alla sua inclinazione «trasfigurante e malinconica» – convertita in arte e in giovanili composizioni musicali –, egli sceglie la filologia classica con la cui «fredda logica» guarisce dai turbamenti emozionali.
In questo senso, il giovane Cioran presta una grande attenzione all’interpretazione dei propri sintomi psico-fisiologici, essendo ad un passo dallo scoprire, probabilmente a partire dalla propria esperienza, una psicoanalisi dell’organico. Nella sua lettera programmatica, priva di data, il riferimento «all’istinto sessuale represso» che sfocia in varie «espressioni diversificate» prova chiaramente la sua familiarità con le idee psicoanalitiche. Per lui, come per Groddeck, le malattie sono simboli, forme della creatività corporea e spirituale: «Noi parliamo volentieri dell’inquietudine interiore, ma dimentichiamo che questa è solo una dimensione simbolica per realtà, di fatto, organiche… è una grande cosa vedere al di là delle forme simboliche d’espressione». Poiché diciamo spesso «sono triste, ma nessuno conosce la causa della tristezza; essa può venire dallo stomaco, da una melodia che abbiamo appena ascoltato e che ci ha colpiti, o infine da un desiderio sessuale non soddisfatto in tempo, ecc…». Nella stessa lettera non datata, aggiunge: «Nessuno si rende conto che si può negare il progresso dell’umanità a causa di un mal di piedi». In realtà, però, il giovane Cioran è l’opposto di Groddeck, poiché in lui non si impone una visione psicosomatica, ma piuttosto una somato-psichica, confermata dal fatto che, quasi senza eccezioni, egli si riferisce, con insistenza, a una pressione del corpo sulla psiche e non il contrario. Ciò è evidente, per esempio, in una straordinaria pagina di Lacrime e Santi: «Ogni volta che sono triste sembra che i miei tessuti abbiano iniziato a pensare. […] La malattia non è altro che un parossismo della riflessività organica». Il corpo, malato, inizia a prendere coscienza di sé, si specchia in se stesso e diventa lucido, poiché «gli organi prendono coscienza». E anche più tardi nei Quaderni, Cioran resterà il teorico «dei tessuti lucidi», spiegando a se stesso in modo somato-psichico: «Tutte le mie opzioni sono organiche, viscerali prima che intellettuali, elaborate, coscienti. Sono prigioniero dei miei organi». E, in una conversazione con Hans-Jürgen Heinrichs, conclude: «Tutto ciò che ho scritto può essere tradotto in termini fisiologici» [2]. (Berdjaev direbbe quindi del pensiero di Cioran, così come direbbe di quello di Rozanov, che non è «logico, bensì fisiologico».) Solo raramente, nella vecchiaia, arriva ad accettare anche la psicosomatica. Eccone un esempio, rarissimo, dalla lettera a Wolf von Aichelburg (del 3 giugno del 1980): «Ogni sofferenza morale ha implicazioni somatiche provocando diverse malattie come, ad esempio, l’ulcera» [3].
Ho posto intenzionalmente in cima a quest’opera un frammento tratto dal volume Scrittori russi di Merežkovskij, perché è stato un libro letto e riletto con passione da Cioran quando era adolescente. Spirito contraddittorio, egli vive con cosciente fervore le proprie contraddizioni. Da una parte si oppone con metodo ai suoi vissuti distruttivi, dall’altro si abbandona, in modo sperimentale, agli «stati anormali». Tali stati sono specifici, secondo l’epistolografo, «della psicologia dell’uomo russo». Nella citata lettera di Merežkovskij c’è un passaggio sottolineato molte volte da Cioran sulla propria copia: «I libri di Dostoevskij non possono essere letti: vanno vissuti, sperimentati, per poterli comprendere». Ecco perché, con lo stesso spirito metodico col quale avrebbe voluto riequilibrare la propria energia psichica, egli vuole anche squilibrarla. Il giovane Cioran sperimenta da sé sia il primo senso sia il secondo, giacché: «Io non faccio filosofia, mi propongo solo di chiarire alcuni problemi che non siano esclusivamente filosofici» (lettera del 24 gennaio 1931). Il fatto che egli non benefici di quello spazio regressivo-protettore necessario a ogni creatore, ovvero di «una chiusura in qualche quadro rigido ed insormontabile che mi liberi dalle conseguenze dirette nella mia vita», lo spinge verso «un’esistenza meno borghese» che intensifica vissuti esacerbati. Convinto che solo gli stati d’animo eccessivi e contraddittori siano fecondi, egli non è semplicemente attratto in modo ossessivo dal «problema della psicologia dell’uomo russo», bensì possiede, di fatto,una psicologia russa: «La mia giovinezza distrutta mi ha portato a certi stati d’animo che soltanto la letteratura dostoevskiana poteva ricordarmi» (23 settembre 1932). Allo stesso modo, secondo un altro passaggio sottolineato in un saggio di Merežkovskij diventato, per lui, codice delle anormali buone maniere di tipo dostoevskiano: «Ogni volta che si ha tra le mani un libro di Dostoevskij bisogna vivere la vita dei suoi eroi».
Cosicché il giovane Cioran si immerge tra vissuti ed esperienze alla ricerca di un contatto diretto con la realtà sensibile e le sue verità, in un carosello di spettacolari gesti ʽrussi’, post-dostoevskiani: «Ho partecipato a feste raccapriccianti, finite in cabaret, ho bestemmiato e ho detto solo porcate, sono stato dalle cocotte con la Critica della ragion pura in tasca – questa è sicuramente la più grande ironia del destino! – non rimpiango niente. Cosa dovrei rimpiangere? Tutto questo non ha alcuna importanza». E nella stessa lettera aggiunge: «Io non faccio filosofia», cioè non si occupa di problemi astratti, essendo preoccupato di chiarirne altri «che non siano esclusivamente filosofici» (24 gennaio 1931). Il fatto che irrompa in un bordello col trattato kantiano infilato in tasca non è solamente un’ironia del destino, ma costituisce, prima di tutto, un gesto di sfida simbolico: quello del suo allontanamento dalla filosofia impersonale e dagli studi accademici. In modo programmatico, egli rivendica il suo stato di pensatore personale o, per dirla meglio, di pensatore privato. Poiché, secondo quanto afferma, «l’erudizione corrompe le inclinazioni filosofiche dell’uomo, lo storicizza e lo sottrae alla contemplazione ingenua (s.n.), che è la fonte della creazione filosofica» (24 gennaio 1931). Di conseguenza, la sua superiorità viene dal non aver mai aspirato «a una cultura acquisita dai libri, frutto di impegno e ambizione, ma a questo accrescimento di consapevolezza che non deriva dalla lettura, […] ma da un vissuto profondo» (22 dicembre 1930). Chiunque può, con diligenza, acquisire conoscenze, «nessuno, invece, può capire e sentire la realtà».
Significative sono, allo stesso modo, le richieste che rivolge a Bucur Ţincu: «Inviami ulteriori tue notizie, perché le idee sono eccessivamente impersonali», oppure: «Ciò che ti chiedo è di scrivermi di più riguardo alle persone […]. Vedi, ho rinunciato alla teoria a favore dei dettagli (s.n.)». Ciò che gli interessa è l’individuo, non l’umanità come genere; allo stesso modo, il dettaglio preciso e non la generalizzazione, i vissuti personali, non le idee impersonali. Così che, ancor prima che apparisse qualche suo articolo o che compisse il suo debutto pubblicistico, egli nega ogni possibile influenza letteraria: in Cioran, dall’inizio alla fine, è il corpo a pensare e colui che crea trascrive semplicemente ciò che il suo corpo gli detta. Le sue idee non provengono dai libri, ma dalle esperienze e dai vissuti corporei e in particolar modo dalle rivelazioni dei dolori organici.
Per questo motivo, Cioran si è autodefinito, una volta per tutte – proprio nel suo primo libro, Al culmine della disperazione – un pensatore organico, giacché solo per costui «le verità sono vive, effetto di un tormento interiore e di una ferita organica, e non di una speculazione inutile e gratuita. All’uomo astratto, che pensa per il piacere di pensare, si contrappone l’uomo organico che pensa sotto l’effetto di uno squilibrio vitale, e che è al di là della scienza e dell’arte». Debuttando di nuovo, da sconosciuto, in ambito francese, egli dovrà prima di tutto accreditare le stesse qualità di pensatore intermittente, condizionato in modo assoluto dai mutamenti discontinui della sua struttura organica. Da qui, un pensiero occasionale,fatto di attacchi riflessivi e attacchi corporali indipendenti: «Je ne pense – comme je ne sens et ne vis – que par accès» [4]. Questo il suo motto in Exercices négatifs,spiegato poi in modo dettagliato nel Sommario di decomposizione: «Les “saisons” de l’esprit sont conditionnées par un rythme organique […] J’existe, je sens et je pense au gré de l’instant – et malgré moi» [5].
Il pensiero cioraniano, come abbiamo visto, è un riflesso somato-psichico, cosciente, dal momento che a pensare sono i tessuti del suo essere. Così, più tardi, annoterà nei Quaderni che ha alle spalle una vita intera «di coscienza del corpo. Le mie “idee” ne risentono». Pertanto il pensiero scaturisce dal cuore della sua natura individuale e dalle realtà sensibili con cui entra in contatto. Nella sua totalità Cioran rientra quindi nel prisma della tipologia fissata da Schiller in Über naive und sentimentalische Dichtung (Sulla poesia ingenua e sentimentale). Con la sua sorprendente precocità, Cioran suggerisce infatti che in lui il sensibile domina il pensiero e che, di conseguenza, prevale l’istinto filosofico di pensatore intuitivo (ovvero ingenuo), che, a differenza del pensatore speculativo (o sentimentale), procede dalla varietà degli esempi del mondo reale e dalle esperienze personali dirette. Allo stesso modo Schiller osserva che l’ingenuo «indaga l’esperienza con lo sguardo puro», mentre il sentimentale lo fa solo attraverso la legge e la norma; l’ingenuo si rivela attraverso la sua natura e la sua verità sensibile, mentre il sentimentale lo fa attraverso l’astrazione e le idee, poiché in quest’ultimo il pensiero prevale sui sensi. Respingendo la filosofia pura, impersonale, dopo averla usata come metodo terapeutico, Cioran – abituato sin dall’adolescenza a innumerevoli letture erudite – vuole essere un pensatore ingenuo, attraverso cui le esperienze e le intuizioni si trasformano in nozioni e poi, in senso inverso, le nozioni si trasformano di nuovo in intuizioni, e le idee in vissuti. In questo modo, con un’abilità sorprendente per la sua età, Cioran rivendica un’originalità innata, naturale, in quanto antecedente alla pubblicazione di qualsivoglia libro o articolo. Conformemente alla tipologia schilleriana, in lui domina la sua natura e pertanto una disposizione filosofica ingenua (die naive Stimmung), anche se, paradossalmente, ha comunque preoccupazioni di tipo sentimentale: «Può darsi che ci sia un disaccordo tra la mia impellente inclinazione a fare confessioni e l’attitudine ad esporre le cose in modo rigido. O forse è la particolare malinconia in cui vivo che sopprime ogni mio slancio lirico?» (22 dicembre 1930). Il giovane Cioran previene, ab initio, ogni obiezione: malgrado attraverso la cultura e la malinconia sia possibile sviluppare disposizioni creatrici di tipo sentimentale, egli ritorna comunque alla predisposizione ingenua. È proprio il processo definito da Schiller: «il contrario della disposizione ingenua è la riflessione, ma la disposizione sentimentale (die sentimentalische Stimmung) è il risultato dello sforzo dell’anima di ristabilire sensazioni ingenue (die naive Empfindung) anche nella riflessione». L’inflessibile censura interiore, che ha utilizzato senza remore, dalla gioventù alla vecchiaia, gli ha però impedito di diventare scrittore, come forse pensava: «Una volta ero convinto di avere un’anima da poeta; poi recentemente mi sono persuaso che era una semplice illusione. Sono troppo chiuso per poter dire tutto ciò che sento» (22 dicembre 1930). Da qui anche il paradosso apparente di averlo intuito prima ancora di essere un creatore propriamente detto: sembra un sentimentale ridotto all’astratto, poiché dalla sua natura e dal suo sentire ingenuo tende a trarre delle conclusioni.
Sempre nelle lettere a Bucur Ţincu, egli osserva che la sensazione più penosa è quella di sentirsi inutile, di conseguenza la sentenza: «Sono un’esistenza ridicola». Mostrando marcate propensioni psicologiche di tipo russo, il ʽridicolo’ Cioran si apparenta, naturalmente, con «l’uomo ridicolo» di Dostoevskij. (Il parallelo tra i due si impone automaticamente, senza considerare per il momento che più tardi sarà lo stesso Cioran a essere preoccupato dall’«uomo ridicolo» dostoevskiano nei Quaderni o in Storia e utopia). Nelle lettere ritroviamo innumerevoli riferimenti e allusioni alla sua famosa insonnia e ai suoi effetti decisivi [6]: «Abbiamo già parlato delle notti insonni, quando conti tutti gli istanti che passano e quando, al di là della disperazione e al di là dei limiti della sopportazione, tutto ti appare sullo stesso piano, insignificante e nullo» (lettera del 4 marzo 1932). Se tutte le cose raggiungono lo stesso piano significa che finiscono per essere uguali tra loro, perdendo quindi ogni senso, e l’esistenza, a sua volta, diventa assurda. Da qui la tragedia del ʽridicolo’ Cioran: «Tutta la mia tragedia si riduce in fondo a questo: non sono più in grado di mettere ordine né ai contenuti spirituali né ai valori di qualsiasi natura»; di conseguenza, essi si sovrappongono e si annullano a vicenda, diventano tutt’uno, così che, a colui che è vittima di questa rivelazione, a partire da questo momento non importa più nulla delle decisioni e degli avvenimenti della propria vita. (Dal momento in cui la notte e il giorno diventano la stessa cosa, sparisce anche il senso del sonno.) Raggiungendo questo punto limite, si arriva al cuore della psicologia dell’uomo russo, o più esattamente, dell’«uomo ridicolo» di Dostoevskij. Questi, infatti, vive la coscienza della propria inutilità, del proprio essere ridicolo, accrescendo nel proprio essere «una tristezza terribile» alimentata dalla decisiva rivelazione «che dovunque tutto è lo stesso», uguale a sé, quindi zero. Da qui il sentimento del nulla e l’effetto fisiologico, psichico e riflessivo del «tutto è uguale», ovvero l’insonnia dell’uomo ridicolo dostoevskiano: «io non dormo per tutta la notte, fino all’alba […] Leggo libri solo di giorno. Non faccio nulla, non penso nemmeno, i pensieri mi raggiungono e io li lascio in libertà». Si può parlare, ovviamente, anche di kirillovismo in Cioran (non a caso anche Kirillov era insonne!): «Trarrò senza timore le ultime conseguenze» [7], annuncia nella lettera del 4 marzo 1932, convinto, come il «demone» dostoevskijano, che il suicidio sia il più libero atto di manifestazione della volontà umana. Ma proprio da questa prospettiva, cioè dalla possibilità del suicidio, il suo kirillovismo è solamente parziale, dimostrando invece, ancora una volta, di imparentarsi, nella sua essenza, con l’archetipo dell’uomo ridicolo. «Nulla ha più importanza», esclama in una lettera, perché «tutto mi appare sullo stesso piano», ovvero tutto (mi) è uguale. Ora, il morbo di questa rivelazione attacca e sminuisce lo stesso atto della possibilità del suicidio, in quanto dissolve e disarma la volontà suicida. Tutto è così uguale che è quasi impossibile che si manifesti il momento liberatore, in cui, essendo meno uguale al solito, si decide di suicidarsi. In un’intervista con Fritz Raddatz si nota come il vecchio Cioran pensi allo stesso modo del giovane, rimarcando il fatto che, dopo le notti insonni o le ore a chiacchierare, si ha la rivelazione che «vivere è inutile tanto quanto morire». Allo stesso modo, in un’altra intervista con Michael Jakob, ricordando Crăciunel, il fallito per eccellenza, Cioran afferma che il nichilismo del suo amico lo ha condotto «al di là del suicidio», poiché questi ha raggiunto la «coscienza assoluta del nulla». Variazioni sullo stesso tema, con le medesime conclusioni, le ritroviamo anche nei Quaderni. (Rispetto all’«uomo ridicolo», Cioran ha un vantaggio: ogni libro terminato, prolungamento della «malattia sconfitta» di Blaga, costituisce un «suicidio differito»). Esiste poi qualcosa che delinea l’affinità elettiva e riflessiva tra i due, e cioè il loro sogno comune. Al paradiso d’infanzia di Coasta Boacii, che per tutta la vita Cioran sogna, corrisponde la «terra immacolata» sognata dall’«uomo ridicolo», in cui i «bambini del sole» vivono come «i nostri avi caduti poi nel peccato, con la differenza che qui ogni angolo di terra era un paradiso».
Ovviamente, in modo convenzionale, considerando che all’epoca non era ancora apparso nessun libro, potremmo dire che queste dodici lettere riflettono un Cioran prima di Cioran; in realtà, esse palesano, come sempre, un Cioran in qualità di Cioran, cioè uno che esiste da sempre, senza evoluzioni. La definizione esatta l’ha fornita egli stesso nella lettera del 4 marzo 1932: «Non sono troppo giovane, poiché sono al di là dell’età». Aggiungendo la seguente affermazione (conforme alla lettera programmatica, completamente priva di data, che potrebbe essere collocata, con molta probabilità, nel 1931): «Una cosa è certa: hanno diritto di fare filosofia solo coloro che a vent’anni non si aspettano più grandi sorprese dalla vita, che sono in grado di esercitarsi nella meditazione contemplativa, e che hanno superato l’età dello squilibrio». Per questo il giovane che si confessa nelle lettere pare lo faccia dalla prospettiva del vecchio. Ed è comunque valida perché chi ha avuto il privilegio di conoscere il “vecchio” Cioran può dire di aver avuto l’impressione di ascoltare il ʽgiovane’ Cioran: «Ciò che sappiamo a sessant’anni, lo sappiamo già a venti». Impressione corretta, confermata dal pensatore della mansarda: «non sento di avere un’età, mi sono smarrito nel tempo». La spiegazione la troviamo in Nietzsche, precursore tipologico. In fondo, all’epoca in cui scriveva le lettere a Bucur Ţincu, Cioran era già, a venti-venticinque anni, un tipo testamentario. Nel senso nietzschiano del termine. Infatti, nello stesso frammento autobiografico del 1868-1869, il giovane Nietzsche afferma «che a ventiquattro anni un uomo ha già alle spalle la parte più importante della sua vita». Perché, fino a quell’età, in virtù degli avvenimenti e delle esperienze esistenziali e riflessive, egli ha già definito un «mondo archetipo» che applicherà proprio come un «testamento» della sua giovinezza. Ora, rientrando nella stessa serie spirituale di Nietzsche, Cioran – anche se tutto è nato contro la sua volontà – vorrebbe, nonostante abbia venti-ventidue anni, recuperare la primordiale ingenuità paradisiaca, reagendo in modo organico allo sforzo della propria rivendicazione.
Ion Vartic
(n. 4, aprile 2021, anno XI)
Note
[1] La storia della scoperta delle lettere fu raccontata da Horia Stanca sulla rivista «Apostrof»,n. 10-11 (1991) e 12 (1995). Sugli stessi numeri furono pubblicate anche le dodici lettere scritte dal giovane Cioran nel periodo 1930-1933.
[2] E.M. Cioran im Gespräch mit Hans-Jürgen Heinrichs, Parigi, Primavera 1983, in E.M. Cioran, Cafard, libro allegato al cd con lo stesso titolo, a cura di T. Knöfel e K. Sander, con una Postfazione di P. Sloterdijk, Supposé, Köln 1998, p. 32; trad. it. di G.S. Kremer e M.L. Pozzi, in E. Cioran, Ultimatum all’esistenza. Conversazioni e interviste (1949-1994), a cura di A. Di Gennaro, La scuola di Pitagora, Napoli 2020, pp. 157-195, qui p. 171; Si veda anche N. Berdiaev, Essai d’autobiographie spirituelle, trad. dal russo di E. Belenson, Buchet-Chastel, Paris 1958, p. 190. Sullo stesso aspetto concorda Mihai Ralea, il quale ritiene che Al culmine della disperazione abbia a che fare con la «fisiologia», con l’«influenza degli umori organici», in quanto si tratta di «una specie di confessione endocrinologica». Ancora Blaga, in Farsa originalităţii (La farsa dell’originalità) – che ha sorpreso e allo stesso tempo deluso, giustamente, Cioran –, fa, però, delle osservazioni fondamentali in merito al profilo psichico del pensatore. Una di queste si riferisce alla base somatopsichica della sua creatività: «Emil Cioran pensa meno con la materia cerebrale che con le terminazioni reumatiche nervose». Allo stesso modo, al somato-psichico cioraniano è consacrato un intero saggio: M. Petreu, Sulle malattie dei filosofi: Cioran, trad. it. e a cura di M.L. Pozzi e G. Rotiroti, Criterion Editrice, Milano 2019.
[3] Cioran, Scrisori către cei de-acasă, trascrizione dei testi di G. Liiceanu e T. Enescu, traduzione di T. Radu, note e indici di D.C. Mihăilescu, Humanitas, Bucureşti 1995, p. 264.
[4] «Io non penso – come non sento e non vivo – che per accessi».
[5] «Le “stagioni” dello spirito sono condizionate da un ritmo organico [...] Esisto, sento e penso a seconda del momento – e mio malgrado».
[6] È sintomatico che rispetto a questo Cioran scelga come riferimento letterario sempre un’opera russa: Una storia noiosa di Čechov, apprezzata in modo superlativo nei Quaderni, sia per il modo in cui sono descritti «gli effetti dell’insonnia», sia per il modo in cui si verifica «l’irruzione dell’insonnia in un’esistenza». Ecco un’affermazione molto cioraniana del narratore del famoso racconto čechoviano: «Non dormire significa rendersi conto in ogni istante di essere anormale».
[7] Il sintagma «trarrò le conseguenze», che si riferisce al suicidio, appare continuamente in Cioran ed è presente, per esempio, sia nei Quaderni che nelle interviste.
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